di Fabrizio Casari

Smentendo cassandre ed improvvisati analisti, Dilma Roussef è ancora Presidente del Brasile. La sua vittoria è di grande significato, decisamente più ampio del margine numerico con la quale è stata ottenuta al ballottaggio. E va comunque detto che anche sotto l’aspetto numerico la vittoria della Roussef non è stata affatto trascurabile, dal momento che il convergere dei voti della ex di tutto Marina Silva su Neves aveva ovviamente portato il candidato del latifondo e dell’imprenditoria brasiliana in una posizione di vantaggio teorico più che evidente. E invece la Presidente uscente ha vinto con più di tre milioni di voti di scarto.

E’ vero che il margine con il quale Dilma s’è imposta è minore rispetto agli ultimi anni, ma se si considera una naturale flessione del PT dopo 12 anni di governo e che Lula non può comunque essere un paragone per nessuno, data la sua strabordante popolarità, si capisce come la partita fosse più complicata del passato.

Del resto, le proteste che avevano scosso il paese prima e durante i Mondiali di calcio, il malessere ormai diffuso contro la corruzione e una riduzione dell’impatto riformatrice, insieme ad una campagna mediatica sapientemente orchestrata da Washington, avevano messo fortemente in discussione il governo della Presidente. Molti commenatori, da mesi, si esercitavano nel vaticinare la sicura sconfitta di Dilma, dapprima ad opera della voltagabbana di professione Silva, poi dall’ex governatore di Minais Gerais noto per i livelli di corruzione ed incapacità tra i più alti del Paese.

E invece la Presidenta ce l’ha fatta e il PT è riuscito ad imporre di nuovo un progetto Brasile che prevede sovranità nazionale, indipendenza e relazione privilegiata con il Sud del continente. Il proseguimento del cammino di Dilma significa infatti lo stop ai programmi della destra, che prevedevano per l'estero l'abbandono del blocco democratico latinoamericano e il ritorno sotto l'ala protettrice di Washington; per l'interno, di conseguenza, l’applicazione delle ricette del Fondo Monetario Internazionale. Le chiamano operazioni di “aggiustamento strutturale”, ma si legge devastazione sociale e progressivo trasferimento di sovranità dallo Stato al sistema bancario internazionale. Pericolo scampato.

Il Brasile può riprendere la corsa che aveva dimostrato come fosse capace di aggredire la povertà più di chiunque altro. La riduzione enorme della miseria, i milioni di posti di lavoro, l’ampliamento degli investimenti in istruzione e salute, l'inclusione di decine di milioni di brasiliani, hanno ridotto sensibilmente - pur se tanta è ancora la strada da fare - la forbice sociale che faceva del Brasile il paese simbolo delle diseguaglianze.

E, seppure in una fase di compressione della spinta espansiva del ciclo economico, dovrà comunque mettere mano alle riforme che gli consentiranno di approfondire il percorso di redistribuzione della ricchezza del Paese, trasformando così in riforme strutturali quelle che, fino ad ora, sono state politiche coraggiose ed includenti ma che, pur necessarie, non sono ancora sufficienti a colmare il gap socioeconomico interno.

E oltre ad estendere ed incrementare le riforme economiche e il rafforzamento del welfare attuato nei tre mandati precedenti del PT, Dilma proverà a cercare il dialogo con i ceti medi che chiedono significativi passi avanti in termini di maggiore benessere.

Tenere insieme le istanze del Movimento Senza Terra e della piccola e media borghesia brasiliana può sembrare un obiettivo impossibile sulla carta, ma la coesione sociale determinata dalle politiche espansive e di sostegno al welfare sono benzina nel motore della trasformazione del Brasile; trasformazione della quale, a cascata, tutti i segmenti non parassitari della società trarranno beneficio.

Un grande peso avranno però le riforme politiche, cioè l’altra grande sfida da vincere per Dilma che ha affermato di voler riformare l’immunità parlamentare, da lei definita “la protettrice della corruzione”.

Dilma governerà con una opposizione più forte che in passato. Una opposizione che tiene insieme il latifondo, la finanza e buona parte (non tutta) dell’imprenditoria, spalleggiate  dalle associazioni degli ex militari spaventati da quanto la Presidente ha promesso in ordine alla riscoperta della memoria storica del paese.

Così come già realizzato in Argentina e, in parte minore in Uruguay, anche il Brasile potrà riscrivere gli anni della dittatura militare e degli abusi continui perpetrati in nome della “lotta al comunismo” e la riapertura dei casi di omicidi, violenze e torture sui prigionieri politici agitano i sogni degli ex gorilla della dittatura.

Sul piano internazionale la vittoria non è meno importante e i riflessi sull’intero continente sono decisivi, soprattutto perché la vittoria di Dijlma impedirà la virata a 360 gradi che Naves aveva annunciato, consistente nel ritorno del Brasile nella sfera d’influenza degli Stati Uniti con il conseguente abbandono delle politiche d’integrazione regionale e alleanza politica con il blocco democratico latinoamericano.

La vittoria del PT fa esultare Caracas e Buenos Aires, tranquillizza La Habana e Managua, conforta La Paz e Quito e rasserena Montevideo, in attesa del ballottaggio tra Tabarè Vasquez e Luis Lacalle Pou (che dovrebbe comunque vedere vincente Tabarè e il Frente Amplio); cioè tutti quei paesi che sulla nuova dimensione democratica ed integrazionista latinoamericana hanno scommesso per la loro politica interna ed internazionale.

Per le dimensioni economiche e militari e per il peso politico e diplomatico che gli appartengono, un eventuale marcia indietro del Brasile avrebbe comportato un problema enorme alle democrazie latinoamericane. Sul piano internazionale più ampio, il ruolo di Brasilia nei BRICS, come nei NOAL è strategico; insieme al Sudafrica rappresenta l’interlocutore politico più considerato sia a Washington che a Bruxelles, a Tokio come a Pechino.

Le aperture a Mosca e Teheran sul piano dei rapporti commerciali bilaterali che hanno compreso persino la sfera delle dotazioni militari e degli investimenti per lo sviluppo, esprimono sufficientemente l’autorevolezza di un paese che, grande come un continente, è destinato ad avere un ruolo ogni giorno maggiore. E con lui, l’intera America Latina.

di Michele Paris

A sette anni di distanza da una delle stragi più famose avvenute nell’Iraq occupato dagli americani, quattro ex mercenari della compagnia privata di sicurezza Blackwater sono stati condannati in primo grado da una giuria federale negli Stati Uniti. L’ex contractor Nicholas Slatten è stato riconosciuto colpevole di omicidio di primo grado, mentre i suoi colleghi Evan Liberty, Paul Slough e Dustin Heard di omicidio volontario (“manslaughter”) e di avere utilizzato mitragliatori per commettere un crimine violento.

Le pene per le quattro ex guardie private verranno stabilite in un secondo momento dal giudice che ha presieduto il procedimento durato 11 settimane. Per Slatten si prospetta un possibile ergastolo, mentre per gli altri tre mercenari la pena minima prevista è di trent’anni.

Un quinto contractor, Jeremy Ridgeway, si era dichiarato colpevole di omicidio volontario prima dell’inizio del processo e si era messo a disposizione dell’accusa, risultando fondamentale per la condanna dei colleghi.

Anche se i quattro sono stati subito tradotti in carcere, il caso è tutt’altro che concluso. Il praticamente certo appello potrebbe prolungarsi per più di un anno e una questione di competenze minaccia addirittura l’annullamento dell’intero processo.

Secondo la legge americana, cioè, il dipartimento di Giustizia ha giurisdizione sui crimini commessi all’estero solo da parte di appaltatori della Difesa, ovvero del Pentagono, mentre Blackwater all’epoca dei fatti nel 2007 era alle dipendenze del Dipartimento di Stato. In primo grado, i giurati hanno ritenuto trascurabile la questione tecnica ma essa potrebbe riemergere nei prossimi mesi.

In ogni caso, le sentenze di condanna appena emesse sono il riflesso del sentimento di disgusto nutrito tra la popolazione irachena e americana per il massacro di piazza Nisour, per la libertà di commettere crimini e l’impunità di cui hanno goduto agenzie private come Blackwater nel paese occupato, grazie ai legami con il governo di Washington.

La decisione dei giurati è però anche la conseguenza di un caso che ha sempre mostrato la fragilità delle tesi della difesa. Che i mercenari avessero sparato contro una folla di civili a piedi e in auto nel traffico di piazza Nisour, a Baghdad, per rispondere a una presunta minaccia non ha infatti mai trovato alcun riscontro.

Indagini condotte dal governo e da importanti giornali americani, così come le testimonianze di decine di cittadini iracheni che si erano recati a Washington nei mesi scorsi, hanno in sostanza delineato uno scenario nel quale gli uomini di Blackwater avevano preso di mira i veicoli fermi nel traffico nella capitale senza ragione dopo avere individuato una singola auto come possibile minaccia. Alla fine della giornata del 16 settembre 2007, sul campo rimasero 17 civili iracheni morti e una ventina di feriti.

Il nome stesso Blackwater, soprattutto dopo i fatti di piazza Nisour, era così diventato sinonimo di violenza, soprusi e oppressione di un intero popolo e di una società letteralmente devastata dall’invasione illegale del 2003.

La compagnia privata di sicurezza era stata fondata da un ex agente della CIA, Erik Prince, e aveva incassato centinaia di milioni di dollari di denaro pubblico grazie a lucrosi contratti per la difesa dei diplomatici USA nell’Iraq occupato e per altri incarichi segreti.

La potenza di Blackwater era apparsa evidente anche dal trattamento che i suoi uomini avevano ricevuto dal governo americano proprio dopo i fatti del settembre 2007. Il Dipartimento di Stato, ad esempio, aveva “ripulito” la scena del crimine per ostacolare la raccolta di prove, mentre in seguito avrebbe offerto una parziale immunità ai contractor coinvolti, rendendo più difficile la loro incriminazione da parte del Dipartimento di Giustizia.

Nel 2009 un giudice americano prosciolse poi di fatto i mercenari di Blackwater a causa del comportamento “irresponsabile” del governo, anche se il caso è stato infine riportato in aula con l’esito registrato qualche giorno fa.

Il governo americano ha cercato di trasformare il verdetto in una vittoria per l’amministrazione Obama e nella dimostrazione del presunto impegno di Washington per la giustizia e i valori democratici. In realtà, la condanna degli uomini di Blackwater non è che il riconoscimento delle colpe enormi della classe dirigente americana, responsabile del crimine più grave del nuovo secolo, cioè la sostanziale distruzione dell’Iraq.

Il comportamento dei contractor privati al servizio del governo deriva infatti dal crimine stesso dell’invasione e dell’occupazione, avvenute unicamente per ragioni strategiche, per le quali nessun membro della precedente amministrazione è stato messo sotto processo né tantomeno condannato.

Oltre a piazza Nisour, i crimini americani di contractor privati e dell’esercito regolare restano legati a numerose altre località, da Falluja a Hadihta ad Abu Ghraib, per non parlare delle “imprese” statunitensi in Afghanistan o in Pakistan, per limitarsi solo all’ultimo decennio, compiute sia durante la presidenza Bush sia durante quella di Obama.

Il rapporto del governo americano con compagnie private di sicurezza come Blackwater non è infine sostanzialmente cambiato. Quest’ultima, ad esempio, dopo essere stata ribattezzata “Xe Services” nel 2009 e “Academi” nel 2011, ha continuato ad essere utilizzata come strumento della politica estera USA, avendo ottenuto contratti milionari con il Dipartimento di Stato e partecipando alla repressione in Ucraina orientale messa in atto dalle forze di Kiev e dalle milizie neo-naziste appoggiate dall’Occidente.

di Michele Paris

La singolare coincidenza della sparatoria al Parlamento di Ottawa nella giornata di mercoledì con la prevista presentazione di una nuova legge, che dovrebbe assegnare maggiori poteri alle forze di sicurezza, ha finito per creare un’atmosfera di panico diffuso in tutto il Canada, garantendo mano libera al governo nel fronteggiare la presunta minaccia terroristica che graverebbe sul paese nordamericano.

I fatti di mercoledì, assieme a un altro episodio accaduto non lontano da Montréal solo due giorni prima, si conformano apparentemente alla perfezione alla tesi sostenuta da settimane dal primo ministro ultraconservatore, Stephen Harper, in concomitanza con la partecipazione del Canada alla guerra lanciata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico (ISIS) in Iraq e in Siria.

Il governo canadese continua infatti a mettere in guardia da possibili attentati terroristici nel paese, mentre recentemente era stato innalzato il livello di allerta proprio in previsione di eventi come quelli di questa settimana.

Un altro provvedimento da poco adottato in questo ambito è la confisca arbitraria dei passaporti di quei cittadini canadesi a cui viene attribuita l’intenzione di recarsi in Medio Oriente per combattere nelle fila del fondamentalismo islamico. Questa iniziativa, assieme al monitoraggio di sospetti jihadisti di ritorno in patria, si è rapidamente diffusa in vari paesi occidentali che intendono prendere di mira qualche centinaia di propri cittadini, ritenuti simpatizzanti o militanti dell’ISIS e di altre formazioni integraliste, che fino a pochi mesi fa condividevano di fatto lo stesso obiettivo perseguito dai loro governi, vale a dire il cambio di regime in Siria.

Destinatario di questo provvedimento era stato proprio il responsabile dell’uccisione di un soldato canadese di fronte al monumento del Milite Ignoto a Ottawa nella giornata di mercoledì. L’attentatore, identificato dalle forze di sicurezza nel 32enne Michael Zehaf-Bibeau, aveva una serie di precedenti per crimini vari, come rapina e possesso di stupefacenti, risiedeva presso un rifugio per senzatetto e pare si fosse da poco convertito all’Islam.

Quest’ultimo era dunque finito su una lista di sospettati e perciò tenuto sotto controllo dalle autorità canadesi, le quali non hanno però spiegato come abbia potuto giungere indisturbato e armato di fucile al National War Memorial di Ottawa e successivamente fare irruzione nel palazzo del Parlamento. Qui si trovava mercoledì lo stesso premier Harper e i principali partiti canadesi stavano tenendo le loro riunioni settimanali.

Privato del passaporto e sulla lista nera del governo canadese era anche Martin Couture-Rouleau, l’uomo che lunedì scorso alla guida di un’auto aveva investito deliberatamente due soldati – uccidendone uno – a St. Jean-sur-Richelieu, nel Québec. Anch’egli ben noto alle forze di sicurezza, Couture-Rouleau è stato freddato con numerosi colpi di arma da fuoco dalla polizia nonostante avesse con sé soltanto un coltello.

Anche se eventuali simpatie per l’ISIS degli attentatori non sono ancora emerse, così come oscuri rimangono i reali moventi dei due episodi, il governo canadese non ha perso tempo a collegare l’accaduto al dilagare della formazione fondamentalista in Siria e in Iraq. Assoluto silenzio è stato invece mantenuto sulle responsabilità del governo canadese che, assieme a quello di Washington e a quelli europei, è tra i principali responsabili della nascita e dell’esplosione dell’ISIS, avvenute grazie a denaro, addestramento e armi forniti da vari regimi mediorientali con la supervisione, quanto meno, dei loro alleati in Occidente.

Senza mezzi termini, in una conferenza stampa Harper ha definito i due casi “atti terroristici”, assicurando che nei prossimi giorni emergeranno maggiori informazioni sugli autori ed eventuali complici. Il primo ministro ha poi affermato in diretta TV che il Canada “non si farà mai intimidire” e ha promesso poi che il governo farà tutti gli sforzi necessari per contrastare la minaccia terroristica.

Gli sforzi annunciati dovrebbero concretizzarsi in un nuovo grave attacco ai diritti democratici in Canada attraverso una serie di modifiche alla legge sull’anti-terrorismo del 2001 per renderla ancora più rigida. Il contenuto del provvedimento allo studio non è stato reso noto ma dovrebbe includere, tra l’altro, un allargamento dei poteri di sorveglianza assegnati ai servizi segreti canadesi (CSIS) e la restrizione dei diritti legali dei sospettati.

Le nuove misure avrebbero dovuto essere discusse in Parlamento proprio mercoledì ma la sparatoria ha determinato quella che la Reuters ha definito una “pausa di riflessione”. Secondo un esperto di sicurezza nazionale canadese citato dalla stessa agenzia di stampa, il govero Harper si troverebbe ora a dover fare una scelta tra la presentazione dello stesso provvedimento con quelle che vengono definite “modifiche minori” alla legge sull’anti-terrorismo o, più opportunamente, “riflettere sul fatto che siano necessari interventi più incisivi” dopo i fatti di Ottawa.

Minacce sventate e attentati talvolta insoliti andati a buon fine, e spesso caratterizzati da fin troppo clamorose falle dei sistemi di sicurezza, si stanno moltiplicando in queste settimane dall’Australia al Canada, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, parallelamente al lancio della nuova “guerra al terrorismo” di matrice islamica in Medio Oriente.

Allo stesso tempo, a ciò si sta accompagnando una nuova ondata di leggi anti-democratiche che, più di un decennio dopo gli attacchi dell’11 settembre, stanno ulteriormente erodendo le libertà democratiche nei paesi occidentali e anche in questo caso grazie allo spauracchio del terrorismo jihadista, debitamente agitato dai governi e dai media ufficiali.

A confermare la portata della preoccupante campagna ultra-reazionaria in atto in Occidente c’è anche la stessa mobilitazione delle forze di sicurezza canadesi seguita alla sparatoria di mercoledì a Ottawa. Ricordando in maniera inquietante lo stato d’assedio nell’area di Boston dopo l’attentato alla maratona nella città americana nel 2013, la polizia canadese ha messo in atto misure di emergenza spropositate che hanno causato la chiusura di strade, scuole ed esercizi commerciali praticamente in tutto il centro di Ottawa.

Agenti di polizia armati fino ai denti hanno inoltre ispezionato gli edifici del centro per svariate ore dopo la sparatoria nel palazzo del Parlamento, così come sono state fermate per controlli molte auto che stavano lasciando la capitale federale.

L’emergenza non si è limitata infine a Ottawa ma anche le altre principali città canadesi - a cominciare da Toronto e Montréal - sono state interessate dalla chiusura forzata di uffici e dal dispiegamento massiccio delle forze di polizia, nel tentativo deliberato da parte delle autorità di creare, senza ragione, un clima di paura e di minaccia imminente.

di Mario Lombardo

Da ormai quasi una settimana, la marina militare svedese sta conducendo operazioni di ricognizione nelle acque del Mar Baltico, al largo di Stoccolma, alla ricerca di un misterioso sottomarino che rappresenterebbe una “minaccia subacquea” per il paese scandinavo. Da venerdì scorso le segnalazioni di avvistamenti si sono moltiplicate e, anche se non vi sono prove concrete dell’effettiva presenza di imbarcazioni subacquee né tantomeno che queste ultime costituiscano una reale minaccia per la Svezia, il colpevole della presunta provocazione sembra essere già stato individuato nel governo di Mosca.

Dopo alcuni giorni di ricerche senza successo, il comandante supremo delle forze armate svedesi, generale Sverker Göranson, ha fatto sapere che il suo paese non intende per il momento ridurre il dispiegamento di mezzi militari per l’individuazione del sottomarino. L’obiettivo, infatti, sarebbe quello di costringere il mezzo misterioso a emergere in superficie, “se necessario anche con la forza”.

Lo stesso comandante ha poi ricordato che è “estremamente difficile” rintracciare dei sottomarini e come alla Svezia non sia mai riuscita una simile impresa, mettendo perciò le mani avanti nel caso più che probabile che alla fine nessuna imbarcazione di questo genere venga individuata.

Le allusioni alla Russia si sono comunque sprecate sui media locali e internazionali, soprattutto con l’accostamento della vicenda in corso agli episodi registrati durante gli ultimi anni della Guerra Fredda, quando la marina svedese aveva varie volte dato la caccia a possibili sottomarini sovietici sconfinati nelle proprie acque territoriali.

Al di là dell’effettiva presenza di minacce nelle acque svedesi del Baltico, l’allarme scattato in questi giorni è stato subito sfruttato dal governo e dai militari svedesi per promuovere ulteriormente le politiche militariste perseguite in questi anni da Stoccolma.

Il senso di quanto sta accadendo al largo di questa città è stato riassunto sempre dal generale Göranson, il quale ha affermato che il valore più importante delle ricerche, “indipendentemente dal fatto che troveremo qualcosa, consiste nell’inviare un segnale molto chiaro che le forze armate svedesi agiscono e sono pronte ad agire in presenza di attività che riteniamo violino i nostri confini”.

Lo spettro di uno sconfinamento da parte di un sottomarino da guerra inviato dal Cremlino e la risposta della Svezia si inseriscono in particolare nel clima di isteria anti-russo che sta attraversando i governi dell’Europa orientale e dell’area del Baltico fin dall’esplosione della crisi in Ucraina.

Il colpo di stato orchestrato a Kiev da Washington e Berlino, contro il presidente democraticamente eletto Yanukovich, ha fornito la giustificazione per pianificare un vero e proprio accerchiamento della Russia, alla cui messa in atto contribuisce l’irrigidimento delle posizioni verso Mosca degli ex membri del Patto di Varsavia e di paesi come Svezia o Finlandia.

L’innalzamento dei toni di questi governi filo-occidentali serve al preciso scopo di ingigantire una minaccia russa praticamente inesistente, così da favorire la militarizzazione della periferia europea come strumento per esercitare pressioni su Mosca e provocarne l’isolamento.

L’episodio registrato in questi giorni a Stoccolma, ad esempio, è stato subito seguito da dichiarazioni dei governi di Lettonia ed Estonia. Il primo, tramite il ministro degli Esteri Edgars Rinkevics, ha definito gli eventi nelle acque territoriali svedesi come una “svolta” per gli equilibri della sicurezza nella regione del Mar Baltico.

Quello estone, invece, ha fatto sapere di voler aumentare le operazioni di sorveglianza nelle proprie acque territoriali. Martedì, inoltre, lo stesso primo ministro svedese da poco insediato, il socialdemocratico Stefan Löfven, proprio nel corso di una visita in Estonia ha annunciato l’intenzione del suo governo di incrementare le spese militari.

L’area del Baltico, d’altra parte, rappresenta un centro nevralgico della strategia statunitense di contenimento della Russia. Il presidente Obama lo scorso settembre aveva visitato l’Estonia, dove si era lasciato andare alla promessa di difendere i paesi baltici in caso di scontro con la Russia, prima di recarsi in Galles a un vertice NATO con al centro l’Ucraina e la creazione di una forza militare di risposta rapida da dispiegare in Europa orientale.

Riguardo la Svezia, poi, sono sempre maggiori le spinte interne ed esterne per portare il paese scandinavo nella NATO. Anche se il neo-premier Löfven ha ribadito proprio in questi giorni l’intenzione di non aderire all’Alleanza atlantica, questo sembra essere l’esito più logico nel medio o lungo periodo, visto il livello di collaborazione stabilitosi negli ultimi anni.

Lo status di paese neutrale è stato di fatto abbandonato da tempo dalla Svezia, visto che, tra l’altro, i governi susseguitisi nel nuovo millennio hanno preso parte più volte alle avventure belliche dell’imperialismo USA, come in Afghanistan o in Libia.

La partnership di Stoccolma con Washington è dunque consolidata, tanto che la Svezia, come dimostra il polverone sollevato in questi giorni attorno al fantomatico sottomarino russo, è ormai uno dei paesi sui quali gli Stati Uniti possono contare per mettere in atto provocazioni dirette contro Mosca per i propri obiettivi strategici.

Stoccolma non è infatti nuova a denunce con toni infuocati di incindenti o presunte violazioni dei propri confini territoriali. Nel marzo del 2013, ad esempio, il ministero della Difesa svedese aveva puntato il dito contro Mosca, accusando la Russia di avere condotto una simulazione di attacco nel sud del paese con alcuni aerei da guerra. A metà settembre, invece, l’ingresso nello spazio aereo svedese per una trentina di secondi di due velivoli SU-24 russi aveva convinto il governo di Stoccolma a presentare una protesta ufficiale all’ambasciatore russo.

Tutti questi episodi servono a creare un clima di tensione in Svezia, in modo da far digerire alla popolazione un militarismo spinto e una cooperazione sempre più intensa con la NATO. A queste politiche aveva dato un impulso decisivo il governo conservatore da poco sconfitto nelle elezioni di settembre ma, come appare già chiaro, le posizioni anti-russe e accesamente filo-americane saranno tutt’altro che abbandonate dal gabinetto di minoranza guidato dai Socialdemocratici appena installatosi a Stoccolma.

di Michele Paris

L’inizio di questa settimana ha fatto segnare un significativo aumento dell’impegno degli Stati Uniti nella guerra contro lo Stato Islamico (IS) in territorio siriano e iracheno, assieme a un’apparente svolta da parte della Turchia nel rispondere alle sollecitazioni occidentali per intervenire nella crisi in atto oltre il proprio confine meridionale.

Già domenica scorsa, Washington ha recapitato ai curdi siriani che si battono contro l’ISIS nella città di Kobane una serie di carichi con armi, munizioni e materiale medico. La decisione era stata comunicata il giorno prima dallo stesso presidente Obama al suo omologo turco Erdogan, nonostante quest’ultimo si fosse mostrato ripetutamente contrario a un’iniziativa simile.

Secondo l’ex premier, infatti, il Partito dell’Unione Democratica (PYD) curdo in Siria e il suo braccio armato - Unità di Protezione Popolare (YPG) - sarebbero organizzazioni terroristiche né più né meno come il Partito dei Lavoratori del Kurdistan turco (PKK), ritenuto tale anche da USA e UE.

L’accettazione da parte del governo di Ankara dei rifornimenti americani ai curdi siriani potrebbe dunque essere il risultato di un accordo con gli Stati Uniti. I contorni di esso, tuttavia, non sono chiari, anche se la Turchia chiede da tempo che l’intervento militare in corso in Siria venga utilizzato da subito per rimuovere il regime di Assad.

La concentrazione delle ostilità in Siria tra l’ISIS e i suoi oppositori nella città di Kobane a maggioranza curda sta portando in ogni caso alla luce tutte le divisioni esistenti tra la Turchia e gli Stati Uniti su un conflitto per il quale i due governi sono in larga misura responsabili.

Erdogan continua a escludere l’ipotesi sia di fornire aiuti materiali al PYD e all’YPG in Siria sia di consentire ai militanti del PKK in territorio turco di oltrepassare il confine per unirsi alla lotta contro l’ISIS condotta dagli appartenenti alla loro etnia in Siria.

Una delle tante contraddizioni in cui rischia di affogare il governo turco riguarda d’altra parte i rapporti con le forze curde. Mentre ha stabilito ottimi rapporti con i curdi della regione autonoma dell’Iraq, Ankara continua a considerare una grave minaccia alla propria stabilità un eventuale successo contro l’ISIS dei curdi siriani. Questi ultimi hanno infatti legami molto stretti con il PKK, protagonista da tre decenni di una lotta spesso sanguinosa con le autorità centrali turche.

Per questa ragione, malgrado le richieste degli USA di agire per arginare l’avanzata dell’ISIS su Kobane nel Kurdistan siriano, il governo Erdogan ha visto finora con una certa soddisfazione le imprese dello Stato Islamico oltre i propri confini. La settimana scorsa, forze aeree turche avevano addirittura bombardato postazioni del PKK nei pressi del confine con l’Iraq, mettendo a serio rischio la tregua siglata dalle due parti nel marzo del 2013.

Settimane di pressioni e varie visite ad Ankara di delegazioni americane hanno però alla fine convinto la Turchia a consentire almeno il transito dei peshmerga curdi dell’Iraq sul territorio turco per raggiungere Kobane e partecipare alla guerra contro l’ISIS.

La concessione, tuttavia, appare come un tentativo da parte turca di togliersi di dosso le critiche per non avere fatto nulla di fronte all’assedio dei curdi siriani da parte dei jihadisti pur mantenendo sostanzialmente invariata la propria posizione sulla crisi in atto.

Anche i media ufficiali in Occidente hanno sottolineato come la decisione di Erdogan sia poco più di una mossa propagandistica, visto che il possibile afflusso dei peshmerga in Siria servirebbe anche a controbilanciare l’influenza delle formazioni legate al PKK. Inoltre, non sembra essere stata presa ancora nessuna iniziativa da parte del governo autonomo curdo in Iraq sull’invio dei peshmerga in Siria, tanto più che questi ultimi sono a loro volta duramente impegnati contro l’ISIS sul proprio territorio.

Se il governo turco è costretto quindi a una serie di acrobazie diplomatiche nei confronti delle varie fazioni curde per mantenere una facciata di coerenza nella gestione schizofrenica della propria politica estera, gli Stati Uniti sembrano puntare sempre più apertamente sulle milizie curde per fermare l’ISIS e avanzare i propri interessi in Medio Oriente, senza troppi imbarazzi se alcune di esse sono da loro stessi bollate come organizzazioni “terroristiche”.

Dal momento che il reale obiettivo di Washington nel lancio della guerra all’ISIS è rappresentato dalla deposizione del regime di Damasco, le forze curde in Siria potrebbero essere dirottate in un secondo momento verso uno scontro frontale con le forze regolari. Ciò appare tanto più probabile quanto l’opposizione “moderata” al regime di Assad, che avrebbe dovuto teoricamente costituire la forza terrestre da affiancare alle incursioni aeree degli USA, risulta del tutto inefficiente.

Gli USA potrebbero cercare così di spingere i curdi siriani a stabilire una qualche collaborazione con alcune forze “ribelli” selezionate, a cominciare dal Libero Esercito della Siria. Un simile piano comporterebbe però la rottura non solo dei legami con l’Iran ma anche di quella sorta di patto di non aggressione tra il regime siriano e i curdi del PYD che ha permesso a questi ultimi di ritagliarsi uno spazio di fatto autonomo nel nord della Siria.

Gli Stati Uniti e i paesi della “coalizione” anti-ISIS potrebbero comunque prospettare maggiori spazi per la minoranza curda in una Siria privata di Assad, così forse da convincere i leader di questa etnia a schierarsi senza riserve a fianco dell’opposizione al regime e trasformarsi a tutti gli effetti in una forza al servizio dell’Occidente.

Come appare evidente, dunque, l’agenda siriana di Washington e Ankara coincide in maniera sostanziale, poiché entrambi i governi operano per mettere da parte Assad e instaurare un governo-fantoccio che ribalti a loro favore il gioco di alleanze in Medio Oriente. Le differenze che stanno emergendo in queste settimane sono invece di natura puramente tattica, sulle modalità cioè con cui combattere o servirsi dell’ISIS per raggiungere uno scopo condiviso.

Che l’evoluzione del conflitto possa avere assunto una dinamica che riflette le aspettative immediate della Turchia sembra essere suggerito, tra l’altro, da una notizia diffusa qualche giorno fa dal cosiddetto Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, di stanza in Gran Bretagna. Quest’ultimo ha sostenuto che l’ISIS sarebbe entrato in possesso di tre aerei da guerra e, con l’aiuto di ex ufficiali dell’esercito iracheno, starebbe addestrando alcuni suoi membri per poterli pilotare.

La notizia, sia pure non confermata dal governo americano, potrebbe fornire la giustificazione per imporre una no-fly zone sulla Siria, come chiede da tempo proprio la Turchia, così da colpire principalmente le forze aeree e contraeree del regime.

La più recente escalation del conflitto in Medio Oriente è stata registrata infine martedì, con il governo britannico che ha reso nota la decisione di operare “a breve” missioni di ricognizione con i droni sui cieli della Siria. L’obiettivo ufficiale sarebbe quello di raccogliere informazioni di intelligence sull’ISIS e, come ha sostenuto il ministro della Difesa di Londra, Michael Fallon, di “proteggere la nostra sicurezza nazionale dalla minaccia del terrorismo proveniente” dal teatro di guerra siriano.

Nel mese di settembre, il parlamento della Gran Bretagna aveva approvato a larga maggioranza le incursioni aeree contro l’ISIS in Iraq ma non in Siria. La decisione di martedì, se anche non autorizza ancora il lancio di bombe sulla Siria, coinvolge sempre più il governo di Londra nel nuovo conflitto orchestrato dagli Stati Uniti per rimuovere con la forza il regime di Bashar al-Assad.


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