di Fabrizio Casari

Alla fine, come pronosticato anche qui, Federica Mogherini, Ministro degli Esteri italiano, è stata eletta alla carica di Lady Pesc, ovvero Alto Eappresentante Europea per la politica estera e di sicurezza. E’ certamente una vittoria politica di Matteo Renzi, che della nomina della Mogherini in Europa ne ha fatto una questione cruciale, quasi una ossessione. Berlino, Parigi e Londra non hanno avuto particolari difficoltà ad accettare il capriccio di Renzi, dal momento che non sarà certo a politica estera il terreno principale delle contraddizioni interne alla UE. In cambio, ottenere l’inutile nomina a Mr Pesc impedisce altre di maggior peso politico.

Per questo, nonostante le opposizioni dei paesi dell’Est Europa, ampio era il consenso dei paesi decisivi e lo stesso accordo tra socialisti e democristiani a livello europeo, che aveva prodotto la nomina di Junker a Commissario Europeo con il voto decisivo del PSE, (con il PD italiano in prima fila) comportava per riequilibrio sia la vicepresidenza del Consiglio d’Europa che l'Alto Rappresentante agli esteri e alla sicurezza a forze e paesi diversi.

La nomina della Mogherini era scontata proprio dopo l’avvenuta nomina di Junker e l’opposizione degli ex appartenenti al blocco socialista dell’Est non avrebbe potuto impedire l’arrivo della signora romana a Bruxelles. Ungheria, Bulgaria, Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Croazia, Romania, Repubblica Ceka, Slovacchia e Slovenia, pur costituendo un blocco numeroso sono però paesi dal peso politico ridotto a livello europeo. Vedono comunque bilanciare la sconfitta patita su Lady Pesc con la nomina di Donald Tusk, ex premier polacco, a Vicepresidente permanente del Consiglio d’Europa.

Peraltro, l’opposizione di Praga, Varsavia, Budapest e soci poggiava su un elemento discutibile, cioè la presunta “morbidezza” della Mogherini nei confronti di Mosca. Ma si tratta di furore ideologico allo stato puro, dal momento che Mogherini, come del resto i governi determinanti europei, non sono inclini a verbosità guerriere contro Mosca. A Varsavia o a Praga, tutto meno che icone di democrazia, in linea con il cioccolataio di Kiev si chiede l’apertura di una guerra con la Russia di Putin, salvo poi, a giorni alterni, chiedere armi e soldi a Europa e Usa. Un “armiamoci e partite” quindi, che non viene accreditato di particolare considerazione a Bruxelles.

Anche perché, differentemente dai parìa dell’Est, proprio a Bruxelles (vista come sede Ue e Nato) sanno perfettamente la differenza che corre tra una diplomazia attenta all’interlocuzione e un comizio; e dal momento che sono Berlino, Parigi, Londra, Roma e Madrid a sostenere lo scontro politico, diplomatico e commerciale con Mosca, ritengono di dover affrontare i nodi delicati della partita con la Russia con la precisa consapevolezza di doversi poi assumere le conseguenze del loro agire politico.

Ciò detto, rimane da decifrare politicamente la ragione dell’impegno spasmodico di Renzi per occupare la casella di Lady Pesc, a parte l’evidenza della volontà del premier italiano di ottenere un successo personale, aspetto del resto presente in tutta l’attività dell’uomo con il gelato. Intendiamoci: la nomina a Lady Pesc di una politica italiana non rappresenta un danno per il Paese, ci mancherebbe altro.

Semplicemente, Lady Pesc - come ha dimostrato la Signora Ashton - è un ruolo puramente figurativo, privo di qualunque decisionalità politica, dal momento che Bruxelles non ha una linea politica continentale nelle relazioni internazionali; sostiene posizioni comuni solo su questioni di relativa importanza, mentre i dossier decisivi per gli equilibri internazionali ciascun paese membro della UE li affronta per proprio conto e d’accordo con Washington.

E, proprio in relazione a quest'ultimo aspetto, va sottolineato come la vicinanza di Renzi a Obama abbia visto Washington dare il suo gradimento alla nomina di Federica Mogherini, ed è ovvio quanto noto che il sostegno statunitense sulla nomina di un ministro degli Esteri e della Sicurezza europea pesa come un macigno sulla scelta.

Per quanto riguarda le ricadute italiane della nomina di Federica Mogherini, si tratterà di vedere se Renzi riterrà di nominare solo una nuova titolare della Farnesina oppure se verrò colta l’occasione per un mini-rimpasto di governo. Nelle scorse settimane erano girate voci insistenti sullo spostamento di Alfano al posto della Mogherini, ma i deboli di stomaco hanno espresso diverse riserve.

Se infatti l’uscita di Alfano dal Viminale rappresenterebbe comunque una buona notizia per l’Italia, le recentissime polemiche su Frontex e sulla missione Mare Nostrum che il ministro dell’Interno ha scatenato contro l’Europa potrebbero costituire un’ulteriore difficoltà per lo spostamento di Alfano alla Farnesina. Voci maliziose sostengono che le polemiche sarebbero nate proprio in seguito alla consapevolezza di uno scarsissimo entusiasmo dei partner europei all’arrivo alla Farnesina di un uomo considerato non certo dotato di genialità politica.

Contemporaneamente, altri appetiti si scatenano. Casini, infatti, ultimamente in particolare, si danna quotidianamente per autocandidarsi a nuovo ministro degli Esteri e, benché il mantenimento in vita del governo è garantito dall’alleanza tra PD e Forza Italia, con il NDC e gli ex di SEL nel ruolo di attori non protagonisti, Renzi potrebbe ritenere utile blindare anche i voti della pattuglia di Cesa e Casini.

In attesa della consumazione del rito tutto democristiano del rimpasto, resta solo l’evidenza di come Renzi, mentre l’economia attraversa una fase drammatica e la disoccupazione registra la percentuale più alta della storia italiana dagli anni ’60 ad oggi, si sia impegnato allo spasimo per la controriforma istituzionale e la nomina di Federica Mogherini. La prima dannosa per l’Italia, la seconda inutile per l’Europa.

di Michele Paris

La situazione in Libia a quasi tre anni dalla deposizione e dall’assassinio di Gheddafi appare sempre più drammatica e ormai sul punto di esplodere in una guerra civile a tutti gli effetti. A sonvolgere il paese nord-africano, “liberato” dalle bombe NATO nel 2011 in seguito alla manipolazione di una risoluzione dell’ONU, sono i continui scontri tra milizie armate grosso modo riconducibili a militanti islamisti e secolari, appoggiati a loro volta da potenze straniere in competizione per l’influenza nella ex colonia italiana ricchissima di risorse energetiche.

A mettere in guardia la comunità internazionale dal baratro in cui sta precipitando la Libia è stato tra gli altri anche il suo ambasciatore alle Nazioni Unite, Ibrahim Dabbashi. Quest’ultimo ha lanciato un appello all’azione per evitare il peggio in concomitanza con il voto unanime questa settimana del Consiglio di Sicurezza per imporre nuove quanto inutili sanzioni sui presunti responsabili della destabilizzazione del paese.

I 15 membri del Consiglio, con apparente serietà, hanno anche invitato i paesi arabi ad adoperarsi per mettere fine alle violenze e a cercare una soluzione negoziata al conflitto in corso. La raccomandazione è apparsa sinistramente ironica, visto che proprio alcuni importanti paese arabi continuano ad alimentare gli scontri in Libia: Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi da una parte e Qatar dall’altra.

Questa realtà, che ha trascinato la Libia al centro della lotta di potere nella regione tra i sostenitori dell’Islamismo politico e i suoi oppositori, è apparsa evidente qualche giorno fa con la conferma da parte del governo americano che gli Emirati Arabi, grazie all’appoggio logistico egiziano, hanno recentemente bombardato con aerei da guerra alcune postazioni islamiste nel paese nord-africano.

L’intervento doveva avere l’obiettivo di impedire alle milizie islamiste, guidate dalla fazione proveniente da Misurata, di conquistare l’aeroporto internazionale di Tripoli, controllato da quasi tre anni dalla milizia di Zintan, nella Libia occidentale, alleata con varie altre formazioni sostenute appunto dal Cairo, Riyadh e Abu Dhabi.

Le incursioni aeree non hanno però avuto l’effetto sperato, visto che la fazione di Misurata e le alleate di quest’ultima hanno finito per assumere ugualmente il controllo dell’aeroporto nel fine settimana.

Nonostante le smentite, appare difficile che gli americani non siano stati al corrente dell’operazione decisa dal regime degli Emirati vista la stretta alleanza di quest’ultimo con Washington e la massiccia presenza di forze armate statunitensi nella regione del Golfo Persico. Del tutto possibile è invece un certo disappunto dell’amministrazione Obama che potrebbe temere sia un aggravamento del caos in Libia sia di essere scavalcata negli eventi di questo paese dai propri alleati arabi.

In ogni caso, gli attacchi aerei condotti il 18 e il 23 agosto non hanno rappresentato il primo intervento congiunto di Egitto ed Emirati Arabi in territorio libico, poiché in precedenza era circolata la notizia di almeno un blitz delle forze speciali di questi due paesi contro un accampamento degli islamisti poco oltre il confine con l’Egitto.

Lo scontro tra vari paesi arabi e non solo per estendere la loro influenza sulla Libia era iniziato già durante la “rivolta” contro Gheddafi, a conferma della più che dubbia natura democratica della guerra contro il regime alimentata fin dall’inizio da armi e denaro stranieri. Il Qatar e la Turchia, ad esempio, avevano da subito individuato possibili alleati soprattutto tra le milizie anti-governative di ispirazione islamista e dopo la fine del regime i due paesi si erano schierati a fianco dei Fratelli Musulmani libici.

Questi ultimi erano riusciti a prevalere all’interno del corpo legislativo “post-rivoluzionario” transitorio, denominato Congresso Nazionale Generale ed eletto nell’estate del 2012. In seguito, le milizie islamiste sarebbero state in pratica incorporate nelle strutture del nuovo stato, suscitando sempre più la preoccupazione di paesi come Arabia Saudita ed Emirati Arabi, tradizionalmente ostili a forme alternative di islamismo politico che possano rappresentare una qualche minaccia ai rispettivi regimi assoluti.

Per tutta risposta, Riyadh e Abu Dhabi hanno allora iniziato a fornire aiuti militari e finanziari alle milizie anti-islamiste, originarie soprattutto della città occidentale di Zintan, contribuendo in maniera decisiva alla destabilizzazione della Libia.

Lo scontro si è fatto poi ancora più aspro dopo il colpo di stato in Egitto che ai primi di luglio dello scorso anno ha rimosso dal potere il presidente dei Fratelli Musulmani Mohamed Mursi – eletto democraticamente e sostenuto finanziariamente e politicamente dal Qatar – dando inizio a una violentissima repressione ai danni del movimento islamista. L’iniziativa dei militari egiziani era stata appoggiata in pieno da Arabia Saudita ed Emirati Arabi - nonché dagli Stati Uniti - e aveva incoraggiato ancor più all’azione le milizie anti-islamiste nella vicina Libia.

In un quadro di scontri sempre più violenti e con il rapido deterioramento della situazione interna, si è inserito inoltre nel mese di maggio il tentativo di riportare un qualche ordine nel paese da parte dell’ex generale di Gheddafi, Khalifa Hiftar. Esiliato per decenni negli Stati Uniti in una località a pochi chilometri dal quartier generale della CIA, Hiftar aveva tentato un’offensiva contro gli islamisti nella parte orientale della Libia con il tacito appoggio degli Stati Uniti, raccogliendo il consenso di varie milizie e manifestando chiaramente l’intenzione di riprodurre nel suo paese le vicende egiziane.

L’offensiva guidata da Hiftar si è però arenata dopo alcuni successi iniziali e le elezioni, da lui indette dopo avere sciolto il Congresso Nazionale Generale e licenziato il governo, non hanno prodotto nessun risultato.

Il voto tenuto a giugno aveva peraltro messo in minoranza le forze islamiste nel nuovo parlamento ma l’assemblea ha potuto riunirsi solo qualche settimana fa nella città orientale di Tobruk, mentre il vecchio Congresso Nazionale Generale è stato recentemente reinsediato a Tripoli. L’inconsistenza della nuova Camera è confermata dal fatto che le tre principali città libiche - Bengasi, Misurata e appunto la capitale - dove risiede più della metà della popolazione, rimangono sotto il controllo degli islamisti.

In questo scenario, la Libia è ormai un campo di battaglia tra opposte fazioni nel quale i principi che avevano nominalmente animato la guerra contro Gheddafi sono stati abbandonati anche nelle apparenze, con gli islamisti e i loro sponsor esteri che cercano di contrastare la controffensiva delle milizie rivali, finanziate a loro volta dal petrolio saudita e disposte da qualche tempo ad accettare anche il contributo di ex membri del regime del rais contro cui avevano duramente combattuto.

La progressiva disintegrazione delle strutture statali della Libia dopo la caduta di Gheddafi e la trasformazione di questo paese in una sorta di nuova Somalia hanno dunque responsabilità ben precise. Esse non sono però da ricercare soltanto tra quei regimi arabi che stanno combattendo per procura su tutto il fronte mediorientale e nord-africano per assestare un colpo letale alle forze islamiste rivali, appoggiate in particolare da Qatar e Turchia.

Le responsabilità maggiori sono da attribuire agli Stati Uniti e ai governi europei, oggi silenziosi o impotenti di fronte all’espandersi della crisi libica ma intervenuti prontamente a sostegno della “rivolta” anti-Gheddafi nel 2011 per favorire il crollo del regime dietro motivazioni umanitarie, puntando proprio sulle forze fondamentaliste e le milizie armate violente che hanno continuato in questi anni a fronteggiarsi per la spartizione del potere e delle ricchezze del paese.

di Michele Paris

A sottolineare ancora una volta le gigantesche divisoni di classe negli Stati Uniti è stata recentemente la diffusione della notizia relativa alla costruzione di un edificio di lusso a Manhattan dotato di un’apposita “porta dei poveri”. Questo ingresso separato servirà a evitare che i residenti facoltosi delle nuove abitazioni dell’edificio nell’Upper West Side vengano anche solo accidentalmente in contatto con gli inquilini a basso reddito che si aggiudicheranno i pochi appartamenti messi a disposizione ad affitto regolato.

L’edificio in questione è un grattacielo al numero 40 di Riverside Boulevard con una superba vista sul fiume Hudson e l’estremità meridionale del Riverside Park. Lo spettacolare panorama sarà però visibile solo ai ricchi proprietari dei 219 esclusivi appartamenti che guardano verso il fiume, mentre gli occupanti delle 55 unità più economiche in locazione dovranno accontentarsi di un affaccio sulle strade laterali.

Sempre dal lato del fiume, i ricchi proprietari potranno accedere alle loro residenze grazie a una porta d’ingresso dedicata e vietata invece ai vicini di casa più poveri, confinati per l’accesso alle abitazioni a una “poor door” affacciata sulla 62esima strada.

L’edificio di 33 piani è tuttora in fase di costruzione ad opera della compagnia Extell Development che, sfruttando un regolamento municipale di New York, ha ottenuto sgravi fiscali per svariati anni e la possibilità di aggiungere un numero di unità abitative superiore a quanto previsto dal piano regolatore in cambio della realizzazione di alcuni appartamenti da offrire a un canone accessibile per inquilini con redditi relativamente bassi.

Se la legge prevede teoricamente che le unità a prezzo di mercato e quelle a canone regolato siano “integrate”, i costruttori hanno facoltà di creare ingressi separati per ricchi e poveri se decidono di mettere in vendita, invece che affittare, gli appartamenti o gli attici più lussuosi.

Simbolo esemplare delle disparità sociali che caratterizzano gli Stati Uniti e del disprezzo che la nuova aristocrazia nutre nei confronti delle classi “inferiori”, le “porte dei poveri” sono peraltro una realtà già presente in varie parti della città di New York.

Oltre al caso di Riverside, il New York Times questa settimana ha raccontato ad esempio del complesso residenziale Edge Community nel quartiere alla moda di Williamsburg, a Brooklyn. Anche qui, in un palazzo con vista sull’East River, gli affittuari più poveri devono passare attraverso un ingresso distinto e la separazione dai proprietari benestanti appare totale, dal momento che ai primi non è consentito utilizzare - nemmeno a pagamento - le strutture a disposizione di questi ultimi, come la palestra.

Nel caso del complesso al 40 di Riverside Boulevard, i prezzi di vendita potrebbero toccare cifre da capogiro. In un edificio vicino, ad esempio, un attico con 7 camere da letto è stato recentemente venduto per oltre 25 milioni di dollari.

Le 55 unità in affitto che occuperanno il sesto piano dell’edificio, invece, avranno canoni agevolati grazie a sussidi della città e dello stato di New York e verranno affittati a 850 dollari al mese per un appartamento con una camera da letto e a 1.100 dollari per quelli con due.

Nonostante siano ben al di sotto delle quote di mercato di Manhattan e della zona residenziale dell’Upper West Side, i canoni non sono poi troppo convenienti per i “fortunati” inquilini a cui saranno assegnate le abitazioni, visto che andranno a individui o famiglie con redditi al di sotto dei 50 mila dollari l’anno.

La notizia dell’approvazione durante l’estate del palazzo con la “porta dei poveri” ha creato parecchio imbarazzo per l’amministrazione del sindaco democratico Bill de Blasio, le cui fortune politiche sono dovute in buona parte ad una retorica progressista ed egalitaria che ha comunque poche corrispondenze con la realtà.

Secondo il vice-sindaco con delega all’urbanistica, Alicia Glen, la creazione di due porte d’ingresso separate andrebbe contro i “principi di uguaglianza” propagandati dall’attuale amministrazione di New York, la quale starebbe perciò lavorando ad un cambiamento della legge. Le modifiche alle norme che disciplinano il piano regolatore della città e che hanno permesso l’iniziativa dei costruttori dell’edificio di Riverside erano state però approvate anche dallo stesso de Blasio nel 2009 in qualità di membro del consiglio comunale.

I legami del sindaco con l’industria edile newyorchese erano apparsi d’altra parte evidenti nella campagna elettorale dello scorso anno e il suo stesso piano di creare circa 80 mila unità abitative “a basso costo” nei prossimi dieci anni si basa in larga misura su progetti legati ad accordi con i singoli costruttori che beneficeranno di fondi pubblici o sgravi fscali, come è accaduto appunto per il palazzo di Riverside in costruzione.

Secondo quanto riportato dal New York Post qualche mese fa, cinque progetti di lusso della compagnia Extell Development sono costati alla città quasi 22 milioni di dollari in mancati introiti fiscali solo nel primo anno dopo la loro costruzione. Grazie al programma comunale di sgravi, questi edifici hanno fruttato in tasse appena 567 mila dollari. Complessivamente, gli incentivi assicurati ai costruttori sia per nuovi progetti sia per ristrutturazioni creano annualmente un buco nelle casse comunali di circa 1 miliardo di dollari.

Più in generale, la drammatica situazione abitativa per milioni di persone a New York è il risultato di politiche pubbliche che da tempo puntano pressoché eslcusivamente sull’edilizia privata e che danno mano libera ai costruttori nei loro progetti, tutt’al più in cambio di qualche manciata di inadeguate unità abitative da assegnare ai redditi più bassi.

Queste pratiche, in definitiva, finiscono per contribuire alla creazione di nuove ulteriori residenze ad altissimo costo per super ricchi e speculatori, di cui New York abbonda, molte delle quali - 34 mila secondo i dati relativi al 2011 - non abitate per almeno dieci mesi all’anno a fronte di un numero di senzatetto che nella città ha superato ormai i 60 mila.

La disponibilità di immobili a cifre relativamente ragionevoli in una delle dieci metropoli con i maggiori livelli di disuguaglianza del pianeta è inoltre estremamente limitata. Il canone d’affitto medio mensile a Manhattan sfiora oggi i 4 mila dollari ed è raddoppiato in pochi anni nonostante le retribuzioni siano rimaste invariate.

Con simili costi, a cui vanno aggiunti quelli nettamente più alti del resto degli Stati Uniti per beni alimentari, trasporti ed energia, poco meno della metà degli abitanti di New York deve sopravvivere con un reddito annuo che si aggira attorno ai 36 mila dollari.

Infine, coloro che non fanno parte delle classi privilegiate si ritrovano a dovere fronteggiare una concorrenza spietata per i pochi alloggi “economici” disponibili, come confermano le 50 mila richieste presentate recentemente per soli 124 appartamenti in affitto a canoni compresi tra 349 e 1.588 dollari in un progetto residenziale nel distretto di Sugar Hill a Harlem.

di Mario Lombardo

La dissoluzione del governo francese nella giornata di lunedì e la nascita di un nuovo Esecutivo il giorno successivo sono soltanto le più recenti manifestazioni delle crescenti divisioni interne alle élites francesi, ed europee in genere, attorno alle politiche economiche da perseguire in una situazione di persistente affanno economico dovuto alla profonda crisi del capitalismo occidentale.

Le dimissioni del primo ministro Manuel Valls e il nuovo incarico assegnatogli da François Hollande si sono tradotti in un governo ancora più spostato a destra di quello uscente. Se dodici ministri hanno conservato i loro incarichi, tra cui Laurent Fabius agli Esteri e Jean-Yves Le Drian alla Difesa, le nuove entrate appaiono significative, a cominciare dal nuovo ministro dell’Economia, il 36enne Emmanuel Macron. Ex banchiere d’affari e già consigliere economico del presidente, Macron è uno dei rappresentanti della destra del Partito Socialista, discepolo, come il premier Valls, del rigore e del libero mercato.

La nascita del terzo governo in soli due anni di presidenza Hollande è stata dovuta alla rivolta interna all’esecutivo Valls, nato appena cinque mesi fa, a causa delle politiche di austerity che hanno fatto precipitare i livelli di popolarità dei leader socialisti ai minimi storici.

Le parole pronunciate nel fine settimana dagli ormai ex ministri dell’Economia, Arnaud Montebourg, e dell’Educazione, Benoît Hamon, hanno portato alla luce del sole e in maniera clamorosa le resistenze di una parte della classe dirigente d’oltralpe al percorso scelto dall’Eliseo per cercare di portare la Francia fuori da una crisi economica sempre più preoccupante.

Per Montebourg, “la marcia forzata verso la drastica riduzione del defcit pubblico è un’aberrazione economica, un’assurdità finanziaria e un disastro politico”. Simili giudizi, difficilmente contestabili, hanno pesato come macigni sulla sorte di un governo creato in seguito alla svolta a destra di Hollande dopo il tracollo dei socialisti nelle elezioni amministrative di primavera ma che ancora includeva qualche esponente dell’ala “sinistra” del partito al governo.

Hamon, da parte sua, in un’intervista pubblicata sul quotidiano Le Parisien, ha criticato il sostanziale appiattimento di Parigi sulle posizioni di Berlino, sostenendo che “la Merkel non può essere l’unica persona a fissare l’agenda europea”, visto che “la Germania persegue i propri interessi individuali” e non quelli dell’Unione. Altrettanto correttamente, entrambi i ministri uscenti hanno poi attribuito la costante crescita di partiti di estrema destra come il Fronte Nazionale (FN) precisamente alle impopolari politiche di rigore del governo a guida Socialista.

Inevitabilmente, le bordate di Montebourg e Hamon hanno portato alla loro sollevazione dai rispettivi incarichi, sia pure sotto forma di dimissioni, dopo le dure reazioni di Hollande e Valls nella giornata di lunedì. A lasciare il governo è stata anche il ministro della Cultura, Aurélie Filippetti, ugualmente protagonista nei giorni precedenti di critiche aperte alla fissazione per l’austerity del presidente e del primo ministro.

L’emersione della diatriba interna al governo francese è coincisa con le recenti affermazioni dello stesso presidente Hollande, il quale aveva pubblicamente ribadito i propositi di risanamento forzato delle finanze di Parigi, pur ammettendo le difficoltà incontrate e la quasi certa impossibilità di centrare per quest’anno - e probabilmente anche per il prossimo - gli obiettivi fissati per l’eurozona in assenza di una significativa crescita economica.

A pesare sulla situazione francese sono, tra l’altro, i 50 miliardi di euro di tagli alla spesa pubblica voluti da Hollande entro la fine del suo mandato nel 2017 e i 40 miliardi in tagli al carico fiscale delle aziende transalpine, ufficialmente per favorire investimenti e assunzioni.

Le sezioni della classe dirigente francese a cui fanno riferimento personalità come i tre ex ministri Socialisti nutrono un profondo risentimento verso Hollande per avere perso l’occasione, dopo il suo ingresso all’Eliseo, di mettere il proprio paese alla guida di un fronte europeo che avrebbe dovuto opporsi ai diktat tedeschi sul rigore, destinati ad intensificare le tensioni sociali nel continente, e promuovere invece politiche di crescita.

Un allentamento dell’austerity allo scopo di arginare le derive populiste viene tuttora richiesto a gran voce da vari governi dell’Unione - tra cui quello di Renzi in Italia - ma, a ben vedere, ricette come quelle promosse senza successo da Montebourg in Francia hanno una portata progressista decisamente marginale.

Il modello a cui queste forze di “sinistra” fanno riferimento, d’altra parte, è sostanzialmente quello seguito dagli Stati Uniti dopo la crisi e la brevissima stagione di aumento della spesa pubblica per rilanciare in maniera diretta la crescita economica, basato cioè principalmente su un’aggressiva politica monetaria della Fed che ha contribuito ad alimentare una nuova pericolosa bolla speculativa.

Ciò ha beneficiato solo una fascia ristretta della popolazione, più che altro in seguito ad un vero e proprio boom artificiale dei listini di borsa, senza peraltro dare una scossa all’inflazione e determinando una crescita dell’economia reale poco più che anemica. Gli effetti sul mercato del lavoro sono stati inoltre trascurabili, dal momento che la riduzione del livello ufficiale di disoccupazione è stata determinata in larga misura dalla rinuncia da parte di milioni di americani alla ricerca di un’occupazione.

Le proposte di mettere in atto simili politiche di “stimolo”, oltretutto, sembrano spesso rappresentare una sorta di copertura per far digerire altre “riforme” come quella del lavoro, inesorabilmente destinato alla totale flessibilizzazione come strumento in apparenza imprescindibile della crescita economica.

Sul fronte francese, le tensioni manifestatesi in questi giorni rivelano anche le crescenti preoccupazioni per il rafforzamento della posizione economica e politica della Germania dovuto al percorso rigorista intrapreso dall’Unione Europea. Il mantenimento di livelli di competitività relativamente solidi del sistema tedesco costituisce infatti per molti a Parigi una minaccia alla posizione della seconda economia europea, al contrario in piena stagnazione.

Le questioni economiche, in questo caso, si intrecciano con quelle strategiche, come dimostra la vicenda ucraina e il complicarsi dei rapporti con la Russia, e hanno portato in Francia all’intensificarsi delle voci che chiedono una politica estera indipendente e che fanno appello a un nazionalismo più spinto, non solo tra le fila del Front National.

Lo stesso Montebourg, dopo la nomina a ministro dell’Industria nel primo governo della presidenza Hollande guidato da Jean-Marc Ayrault, aveva ad esempio proposto l’imposizione di tasse sulle importazioni per proteggere l’industria domestica. Le sue battaglie in questo senso non avevano comunque impedito la chiusura di importanti impianti, come quelli di Peugeot-Citroën nei pressi di Parigi e del colosso dell’acciaio ArcelorMittal in Lorena, nonostante le minacce di nazionalizzazione di quest’ultimo.

La formazione del governo Valls bis testimonia dunque della profonda crisi del Partito Socialista francese, confermata dall’allontanamento sempre più evidente di Hollande dalla base elettorale che aveva consentito il suo successo su Sarkozy nel 2012.

Questa realtà potrebbe riflettersi ben presto in Parlamento, soprattutto in vista della legge di bilancio per il 2015, che sarà introdotta a partire dal mese di ottobre, e della prossima discussione sulla liberalizzazione del settore dei servizi, puntualmente definito dai media come “altamente regolamentato”. Una quarantina di deputati socialisti di “sinistra”, sentendosi emarginati all’interno del nuovo esecutivo, potrebbe così opporre una qualche resistenza alle prossime iniziative del governo, rendendo ancora più complicato il futuro del presidente.

Le divisioni e i malumori, tuttavia, secondo la maggior parte dei commentatori difficilmente esploderanno ulteriormente a breve, soprattutto in presenza di numeri che condannerebbero il Partito Socialista nel caso di nuove elezioni.

Lo stesso ministro dimissionario Filippetti, infatti, ha ad esempio già escluso possibili fratture alla “sinistra” del partito, affermando il proprio supporto per il nuovo governo, orientato ancora più a destra dopo il reincarico al primo ministro Valls.

di Michele Paris

Nonostante le proteste degli abitanti della cittadina di Ferguson, nel Missouri, siano sensibilmente diminuite negli ultimi giorni, la repressione delle forze di polizia contro i manifestanti pacifici in seguito alla morte del 18enne di colore Michael Brown continua a suscitare un forte senso di repulsione in tutti gli Stati Uniti.

L’avanzato processo di militarizzazione della polizia americana, in particolare, è risultato evidente, spingendo il governo di Washington a moltiplicare i propri sforzi per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica sia dai metodi sempre più autoritari a cui ricorrono le forze dell’ordine sia dalle esplosive questioni sociali che hanno determinato la clamorosa esplosione di rabbia nel cuore del paese.

L’inquietante spettacolo offerto dalla polizia dopo l’esecuzione di Brown il 9 agosto scorso da parte dell’agente Darren Wilson, ha presentato agli americani una realtà con la quale dovranno fare i conti in maniera sempre più frequente nel prossimo futuro e decisamente più consona ad uno stato di polizia che ad un’autentica democrazia.

Le proteste contro l’ennesimo assassinio di cittadini disarmati da parte della polizia sono state cioè accolte dalle autorità con il ricorso a mezzi militari, ad agenti in tenuta da combattimento, a gas lacrimogeni, a proiettili di gomma e ad aperte minacce con fucili puntati contro manifestanti e giornalisti. Il governatore democratico del Missouri, Jay Nixon, aveva inoltre dichiarato lo stato di emergenza e il coprifuoco per svariati giorni.

Questa manifestazione di forza è stata la diretta conseguenza di una serie di programmi promossi dal governo federale con l’apposito scopo di militarizzare le forze di polizia. Attraverso di essi, i dipartimenti di polizia degli Stati Uniti ricevono da anni armamenti ed equipaggiamenti militari direttamente dal Pentagono, spesso grazie a finanziamenti a fondo perduto.

Uno di questi programmi è denominato “1033” ed è gestito appunto dal Dipartimento della Difesa. Grazie ad esso, le forze di polizia locali americane hanno già ottenuto materiale bellico per oltre 4 miliardi di dollari. Uniformi da combattimento, strumenti per la visione notturna, armi da guerra, elicotteri militari, veicoli blindati e altro ancora sono i mezzi utilizzati solitamente dai soldati americani per reprimere ogni resistenza contro l’imperialismo USA in paesi come Iraq e Afghanistan, ma sempre più frequentemente gli stessi mezzi e metodi vengono impiegati sul suolo domestico per spegnere qualsiasi focolaio di protesta contro una classe dirigente screditata e in una situazione di grave crisi sociale.

Sui programmi di fornitura di armi alle forze di polizia si è così aperto un certo dibattito pubblico negli Stati Uniti, tanto che lo stesso presidente Obama si è visto costretto ad annunciare una “revisione” dei criteri con cui il governo opera in questo ambito.

Secondo i principali media, la Casa Bianca potrebbe addirittura prendere in considerazione lo stop ai trasferimenti di equipaggiamenti militari ma, più probabilmente, ci si limiterà tutt’al più a verificare se “alle forze di polizia statali e locali viene fornito adeguato addestramento e se il governo federale controlla a sufficienza il corretto uso del materiale” ottenuto da queste ultime.

Voci autorevoli all’interno dell’establishment politico di Washington hanno d’altra parte già fatto capire che non ci sarà alcuna marcia indietro in merito ad un programma di militarizzazione che è stato intensificato dopo l’11 settembre del 2001, ufficialmente per meglio combattere la minaccia terroristica.

La senatrice democratica del Missouri, Claire McCaskill, nel fine settimana ha ad esempio sottolineato l’efficacia degli equipaggiamenti militari a disposizione delle forze di polizia locali. La “revisione” voluta da Obama si concretizzerà, tra l’altro, in alcune audizioni di fronte a commissioni del Congresso, tra cui quella del Senato per la Sicurezza Nazionale di cui la stessa McCaskill fa parte.

Il modo di procedere della classe dirigente americana in presenza di eventi che rivelano gravissime violazioni dei diritti democratici negli Stati Uniti appare ormai consolidato, così come evidenti risultano gli obiettivi.

L’esempio più macroscopico era stata la risposta alle rivelazioni di Edward Snowden sui programmi di intercettazione illegali dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA). In questo caso, l’amministrazione Obama aveva dato l’impressione di prestare attenzione al malcontento provocato nel paese dalle colossali violazioni della privacy, appoggiando l’operato di una speciale commissione con l’incarico di proporre idee di “riforma” della NSA e una legislazione volta ufficialmente a “limitare” il monitoraggio di massa dei cittadini.

In realtà, nonostante alcune limitazioni del tutto trascurabili, queste iniziative hanno portato all’istituzionalizzazione dei programmi di intercettazione e la stessa cosa punta a fare ora la Casa Bianca attorno alla questione della militarizzazione delle forze di polizia.

Il punto di partenza della “revisione” annunciata da Obama è infatti l’indiscussa legittimità - in realtà tutt’altro che certa - dei programmi federali che prevedono il trasferimento di equipaggiamenti militari alla polizia. Dal momento che essi vengono considerati legittimi, ciò che resta da fare non sarebbe altro che garantire la massima professionalità degli agenti che ne fanno uso e limitare il ricorso ad essi soltanto in caso di reale necessità.

Con un’iniziativa che dovrebbe portare alla correzione degli eccessi visti a Ferguson, dunque, ogni possibile discussione sul processo di trasformazione della polizia americana in una forza militare o para-militare viene neutralizzata sul nascere.

Prima ancora dello sforzo appena descritto, la classe dirigente americana aveva poi cercato di soffocare le proteste in Missouri e in altre località del paese con un altro sistema consolidato, quello delle politiche identitarie.

Tutti i commenti e le dichiarazioni di opinionisti “mainstream” e politici di entrambi gli schieramenti in questi giorni hanno cioè mancato deliberatamente di citare, in merito ai fatti di Ferguson, le fondamentali questioni di classe legate alle proteste e alla violenza endemica della polizia americana, concentrandosi convenientemente su quelle razziali.

In questo modo, le tensioni sociali, frutto dei crescenti livelli di povertà e delle gigantesche disuguaglianze di reddito che gravano sia sui bianchi sia sui neri negli Stati Uniti, vengono contenute, sia pure sempre più faticosamente, con la mobilitazione di leader o personalità di spicco di colore che invitano alla calma e al dialogo.

Ciò è apparso evidente in seguito alla nomina dell’afro-americano Ron Johnson, capo della polizia stradale dello stato del Missouri, a responsabile dell’ordine a Ferguson dopo i primi scontri tra i manifestanti e il dipartimento di polizia cittadino.

Ancor più, il ruolo di veri e propri professionisti del contenimento delle tensioni sociali è ricoperto dai politici democratici di colore e dai leader della comunità afro-americana, come il reverendo Al Sharpton. Quest’ultimo, recentemente rivelatosi ex informatore dell’FBI, si è adoperato per calmare gli animi a Ferguson, chiedendo ai manifestanti di avere fiducia nell’amministrazione Obama e nella stessa polizia del Missouri, confermando così la sua funzione di agente della Casa Bianca con l’incarico di incanalare le proteste contro il sistema in ciò che resta dell’ormai innocuo “progressismo” Democratico.

Lo stesso Sharpton, dopo avere partecipato sabato a una manifestazione contro la polizia nel “borough” di Staten Island, a New York, in seguito all’assassinio nel mese di luglio da parte di un agente del venditore ambulante di sigarette Eric Garner, ha parlato lunedì a Ferguson in occasione dei funerali di Michael Brown.

Sulla morte di Brown, intanto, un apposito “grand jury” sta valutando i fatti del 9 agosto per avviare un eventuale procedimento di incriminazione contro l’agente di polizia responsabile. I timori per un possibile scagionamento di quest’ultimo sono ampiamente diffusi vista l’impunità di cui regolarmente godono i poliziotti responsabili di decine di omicidi negli USA solo negli ultimi mesi.

A mettere in guardia da un esito di questo tipo sono ancora una volta soprattutto i leader di colore, giustamente preoccupati che un’altra ingiustizia possa innescare nuove manifestazioni di protesta sempre più difficili da tenere sotto controllo, non solo tra la popolazione di Ferguson ma anche nel resto degli Stati Uniti.


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