di Andrea Santoro

A distanza di un mese dall’accordo sulla tregua stipulato dal Governo Ucraino, dalla federazione Russa e dalle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, sotto il controllo dell’OSCE, la situazione non appare migliorare, né tantomeno le promesse del presidente ucraino Poroshenko sul ritiro graduale delle truppe sembrano trovare riscontro nelle notizie che arrivano dalla capitale, dove si continua a sparare e i colpi delle armi pesanti rimbombano quotidianamente nei pressi dell’aeroporto.

L’accordo di pace prevedeva, oltre ovviamente al cessate il fuoco, la ritirata di entrambi gli schieramenti per una distanza di almeno quindici chilometri dalle zone di conflitto e la tutela dei corridoi umanitari. Purtroppo già dalla notte successiva alla firma dell’accordo, quella tra il sei e il sette settembre, si è capito chiaramente che la situazione non sarebbe migliorata in tempi brevi, visto che già dal mattino seguente gli osservatori OSCE riportavano il lancio di missili ad opera del governo ucraino dall’interno dell’aeroporto verso le case dei civili, registrando altre vittime tra i civili.
Ad oggi, otto ottobre, il conteggio dei morti durante la tregua è di ottantotto persone, mentre i feriti sono 316.

I numerosi osservatori internazionali presenti sul luogo riportano come il centro delle città di Donetsk e Lugansk siano al momento tranquille, con negozi aperti, uffici funzionanti e ospedali operativi; ciononostante nella zona nord della città di Donetsk si continua a combattere per il controllo dell’aeroporto, tuttora occupato dalle forze governative che, sfruttando l’intricato tessuto di cunicoli costruito in epoca sovietica, vengono quotidianamente accusate di continuare ad accumulare armi per tentare una nuova avanzata, nonostante quello attuale sia l’unico spazio ormai rimasto all’esercito di Kiev, che sembra però intenzionato a non demordere.

È proprio in questa zona che nelle ultime ore si sono intensificati i combattimenti, dopo che il sei ottobre il municipio di Donetsk ha dato notizia di quattro cittadini morti per mano dell’esercito regolare ucraino, che di fatto assedia un’area russofona che, tramite referendum popolare e la scelta di autodeterminazione, di fatto ignorata se non addirittura derisa da Unione Europea e Stati Uniti, ha scelto di essere indipendente o Stato confederato del territorio russo.

Chiaramente da parte di Kiev non vi è alcuna risposta riguardo le vittime, si preferisce anzi demandare la responsabilità delle violenze ai ribelli, inverosimilmente accusati di sparare sui propri concittadini: il primo ottobre, primo giorno di scuola, un colpo di mortaio sparato a soli quattro chilometri dall’aeroporto ha causato altre sette vittime, tutti civili.

Durante questi trentun giorni di supposta tregua nessun osservatore internazionale ha confermato la presenza di soldati o corpi speciali russi, non escludendo però che possano esserci volontari provenienti da Mosca tra le fila dei ribelli; viceversa l’unica presenza russa confermata è formata dal continuo invio di aiuti umanitari: dopo i primi due convogli in aiuto della città di Lugansk, durante le prime due settimane di settembre sono stati inviati circa duecento camion a Donetsk con duemila tonnellate di cibo, vestiti, acqua e generatori di energia.

La maggioranza dei primi ministri europei ha definito questo transito di aiuti umanitari, vagliati e approvati dall’OSCE, come un gravissimo gesto di prevaricazione nei confronti della sovranità nazionale ucraina da parte della Russia, il presidente Renzi ha inoltre dichiarato a riguardo che bisogna “essere uniti nella condanna del comportamento della Russia e sono inaccettabili le violazioni del diritto internazionale”.

Evidentemente non vengono considerate tali le continue violazioni degli accordi da parte del braccio armato del presidente Poroshenko, soprattutto per quanto riguarda le clausole della tregua: le truppe governative non sono state ritirate entro i quindici chilometri concordati, anzi, al contrario, hanno mantenuto la posizione continuando ad armare quel che resta dell’aeroporto, ormai praticamente raso al suolo.

In realtà le repubbliche cosiddette “separatiste” della regione del Donbass sono tre, Lugansk, Donetsk e Charkiv, ma soltanto le prime due sono al centro delle contese internazionali ed il motivo è facilmente immaginabile: la zona geografica compresa all’interno del bacino del Donec produce autonomamente il 20% del PIL complessivo ucraino.

Certo è una facile strategia, per i media europei e per i rappresentati nazionali e internazionali, agitare lo spettro del bolscevismo o evocare Putin il malvagio, delegando alle oligarchie la responsabilità di tanto sangue: incolpare il presidente russo di essere un oligarca, per quanto possa avere dei risvolti di concretezza, appare ironico se contrapposto al presidente Poroshenko, personaggio molto influente all’interno dell’economia Ucraina.

Appare singolare inoltre come la volontà popolare di autodeterminazione, così spesso ricordataci e invocata dai portavoce delle Nazioni Unite, venga così ampiamente disattesa: i risultati referendari hanno lasciato spazio a ben poche interpretazioni, considerata un’affluenza media dell’ 80% in Paesi dove l’astensionismo è prassi, cui va aggiunto un risultato che ha visto trionfare il “si” all’indipendenza con una media del 96%.

E ancora: considerato che la cultura locale esprime la propria essenza attraverso la lingua russa, non appare chiaro il motivo per cui le genti ucraine dovrebbero sottostare ad un’autorità sovranazionale quale la comunità europea, da cui, oltre al cambio di moneta, erediterebbero sanzioni e debito pubblico mai contratti.

Nel frattempo è forte l’apprensione tra i civili dell’area del Donbass per le previste esercitazioni congiunte dell’esercito governativo con le forze delle Nazioni Unite e sono già molte le manifestazioni in programma al fine di scongiurare questa possibilità, che potrebbe trasformare l’esercito governativo da occupante illegittimo a forza militare stabile, ripristinando lo status quo precedente al referendum.

Non resta perciò che attendere l’arrivo dell’inverno, che i meteorologi prevedono se possibile ancor più rigido del solito: continua contingentemente l’embargo russo sul gas, e per l’esercito ucraino sarà molto complesso riuscire ad avanzare senza la necessaria ed adeguata attrezzatura. Sono infatti molti i malumori tra i soldati dovuti alla mancanza del materiale necessario, oltre alla consapevolezza che l’inverno, in una Ucraina senza gas, sarà quanto mai lungo e difficile.




di Michele Paris

Pochi giorni dopo una massiccia mobilitazione di vari gruppi di attivisti che si battono contro il cambiamento ambientale e un vertice sul clima andato in scena alle Nazioni Unite alla presenza di decine di leader mondiali, l’Unione Europea ha avanzato una proposta che, se convertita in legge, contribuirebbe in maniera determinante all’aumento dell’inquinamento atmosferico.

Al centro della questione c’è il petrolio estratto dalle cosiddette sabbie bituminose (“tar sands”) nello stato del Canada occidentale dell’Alberta, considerato molto più inquinante in termini di emissioni di gas serra durante il suo ciclo di vita rispetto al greggio tradizionale. Con la decisione di Bruxelles, questo genere di petrolio potrebbe essere ora equiparato a quello meno “sporco”, visto che verrebbe lasciato cadere l’obbligo di etichettare il greggio raffinato sul territorio europeo in base alla provenienza e al livello di inquinamento prodotto.

Il provvedimento si inserisce ironicamente nella Direttiva UE sulla Qualità dei Carburanti, in discussione da cinque anni, che dovrebbe promuovere un consumo compatibile con i cambiamenti climatici, in modo da ridurre le emissioni di anidride carbonica nel vecchio continente del 20% rispetto al 1990 entro il 2020. In particolare, dalla stessa direttiva è prevista poi una riduzione delle emissioni di gas serra dei mezzi di trasporto del 6% rispetto al 2010 entro il 2020.

Bruxelles ha così abbandonato una proposta precedente che intendeva assegnare alle “tar sands” un valore di intensità di Co2 pari a 107, contro il 93,2 del greggio convenzionale, mentre il limite massimo che potevano raggiungere i raffinatori in Europa era fissato al 93,3.  Secondo il nuovo metodo allo studio, invece, le compagnie petrolifere che riforniscono le raffinerie europee non saranno più tenute a distinguere il petrolio derivato dalle sabbie bituminose, aprendo la strada alle importazioni di quest’ultimo in grandi quantità.

L’annuncio dell’UE di questa settimana è giunto pressoché in concomitanza con l’arrivo sulle coste della Sardegna di un carico di 700 mila barili di greggio “tar sands” proveniente dall’Alberta, dopo quello approdato in Spagna nel mese di maggio. Secondo alcuni gruppi ambientalisti, la nuova iniziativa dei vertici di Bruxelles potrebbe far salire le importazioni europee di greggio canadese dall’attuale 0,01% a quasi il 7% in sei anni, con tutte le conseguenze immaginabili in termini di emissioni di Co2.

L’inversione di rotta dell’UE sull’identificazione del petrolio da raffinare in territorio europeo è la conseguenza di un’aggressiva attività di lobby del governo canadese, tradottasi secondo il gruppo ambientalista Friends of the Earth Europe in circa 110 incontri a Bruxelles soltanto tra il settembre 2009 e il luglio 2011.

“Le pressioni del Canada sono state immense” ha affermato alla stampa un anonimo funzionario europeo, anche perché lo sfruttamento delle “tar sands” dell’Alberta e la remunerazione degli enormi investimenti fatti dalle compagnie petrolifere in questo settore dipendono dall’individuazione di nuovi mercati, finora non facili da trovare a causa anche della più che giustificata fama che accompagna questo genere di greggio.

Il Canada, inoltre, intende ottenere una vittoria in Europa anche alla luce della sorte dell’oleodotto Keystone XL che dovrebbe trasportare il greggio “tar sands” dall’Alberta al Golfo del Messico, negli Stati Uniti, e la cui costruzione è ferma in attesa dell’approvazione del governo americano. Il via libera alle sabbie bituminose in Europa, così, potrebbe trasformarsi in uno stimolo per l’amministrazione Obama a dare l’OK al progetto nonostante le resistenze negli stati che dovrebbero essere attraversati dall’oleodotto.

La vicenda dell’equiparazione del petrolio estratto dalle sabbie bituminose a quello convenzionale ha messo dunque in luce in maniera esemplare gli interessi a cui risponde non solo il governo canadese ma anche quelli da questa parte dell’oceano e la stessa Unione Europea. Soprattutto, la Gran Bretagna e l’Olanda pare siano stati i paesi più attivi nel chiedere la revisione della versione precedente della direttiva UE, dal momento che le compagnie petrolifere BP e Royal Dutch Shell sono coinvolte in progetti di “tar sands” nello stato canadese dell’Alberta.

Ancor più, al di là delle manifestazioni di protesta e dei vertici dall’utilità praticamente nulla, il dietrofront di Bruxelles sul tipo di petrolio più inquinante e distruttivo per il paesaggio da cui si estrae mostra l’impossibilità di mettere in atto un piano razionale ed efficace di lotta al cambiamento climatico nel quadro degli attuali sistemi produttivo e politico.

La legge del profitto sovrasta infatti di gran lunga qualsiasi necessità ambientale e umana, per quanto grave appaia la situazione del pianeta, mentre la politica risponde ovunque esclusivamente agli interessi di una classe ben precisa che, come risulta evidente, non solo sono in contrasto con quelli della grandissima maggioranza della popolazione ma possono minacciare addirittura l’esistenza dell’intera umanità.

Estremamente significativo è infine il fatto che la bozza di legge europea sulla classificazione del petrolio da raffinare - che dovrà essere approvata dai singoli paesi membri prima di passare all’attenzione del parlamento europeo - è stata decisa nell’ambito dei negoziati tra Bruxelles e Ottawa su un trattato di libero scambio firmato il mese scorso tra l’UE e il governo ultra-conservatore canadese.

Sulla linea di praticamente tutti i trattati commerciali di questi anni, anche quest’ultimo rappresenta in sostanza un gigantesco regalo per le multinazionali, alle quali viene riconosciuta la facoltà di perseguire i propri profitti senza alcun intralcio, sia riguardo le questioni ecologiche sia quelle dei diritti dei cittadini.

Proprio in ambito petrolifero, il trattato tra UE e Canada include infatti una serie di clausole che sembrano scritte direttamente dai vertici delle compagnie petrolifere che operano nel paese nord-americano, limitando quasi del tutto il potere del governo di regolamentare la loro attività, anche di fronte a eventuali disastri ambientali.

di Rosa Ana De Santis

A scriverlo è il Papa dei grandi cambiamenti: Francesco. Quelli che per alcuni sono soprattutto mediatici e di marketing, in un curioso assonante tandem con il Presidente del Consiglio Renzi, che già solo l’accostamento appare blasfemo. Eppure, quando si tratta di divorziati e di eucarestia non si fa accademia per la curia o nei seminari della formazione, ma si tocca in vivo il quotidiano di numerosi credenti e di tante famiglie.

Lo avevo già annunciato il Papa con un sondaggio da estendere a vescovi e parroci: la Chiesa deve aprirsi ai divorziati e comprendere meglio la nuova società che ha di fronte. Il Cardinale Erdo, presidente dei vescovi europei, nella sua relatio per le sfide pastorali ha parlato proprio di sacramenti ai divorziati e anche di coppie gay. I numeri parlano chiaro: la gente, anche quella che va in Chiesa ogni tanto, non si sposa, spesso nemmeno civilmente.

Oggi un divorziato può partecipare alla liturgia cattolica, ma non ai sacramenti soprattutto nella propria parrocchia per non “dare scandalo” alla comunità. Una sorta di discrezionalità che di fatto però tiene i divorziati ai margini della comunità dei fedeli, in una spiacevole ghettizzazione, che oltre ad essere anacronistica (il che in termini ecclesiali potrebbe non importare granché) rappresenta una contraddizione per quanti riescono ad ottenere annullamenti ultraterreni presso il Tribunale della Sacra Rota.

Il cardinale auspica uno snellimento delle procedure relative al tribunale ecclesiastico ma bisogna intendersi se sia questo il cuore di un problema che invece sembra più avere a che fare con un’incapacità della Chiesa moderna di soccorrere e aiutare le persone ferite dalla vita. Non è questa misericordia quella che porta in trionfo lo scandalo del Secondo Testamento, del Vangelo?

Di fronte alla proposta sono nomi importanti quelli di chi apertamente si è dissociato: Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede; Raymond Leo Burke, prefetto della Segnatura apostolica, Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato di scienze storiche; Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna e Velasio De Paolis, presidente della prefettura degli affari economici e molto vicino all’oscurantismo del papa polacco.

Bisogna scegliere se la via sia quella della semplificazione dei processi della Sacra Rota o la chiusura ortodossa per cui un matrimonio contratto come sacramento abbia validità sine die. Questa seconda via sembrerebbe quella in grado di restituire dignità e credibilità a un’Istituzione che di fatto ha messo in vendita i sacramenti per i più abbienti, gli unici in grado di pagare le laute parcelle dei notabili del Vaticano.

Ma se un sacramento come il matrimonio non può essere annullato, così come il battesimo e la cresima, per quale ragione ne discenderebbe la conseguenza che il divorziato non possa accedere al sacramento della Comunione? Forse un divorziato può rinunciare al battesimo; ha facoltà di togliersi la cresima? Sembra che al dunque la vera remora della Chiesa sia ancora quella di proteggere lo scandalo, di colpevolizzare il vissuto umano, di coltivare la moralità a colpi di anatemi.

Quella moralità che non sembra turbarsi quando numerose coppie scelgono il matrimonio in Chiesa per folclore e scenografia, pagando tasse di uso pari a location prestigiose e non avendo messo mai piede per una celebrazione eucaristica. Le cresime prematrimoniali prescritte come prassi burocratiche sono forse moralmente d’esempio? O la vendita delle indulgenze denunciata da Lutero resta vigente?

Insomma al Papa spetta l’arduo compito di ripristinare una linea di coerenza. Apparirà forse meno problematico, c’è da ritenere, che un divorziato che forse non potrà più contrarre matrimonio in Chiesa (il che è comprensibile dottrina alla mano: come non si può essere battezzati due volte) possa prendere l’Eucarestia come tutti in nome della misericordia di Dio che dovrebbe abitare nelle sedi della sacra Rota.

Sua Santità potrà dirci poi, nelle more di questo Terzo Testamento, se finora o fino a quando i preti pedofili chiusi nelle celle del Vaticano o soltanto trasferiti di parrocchia in parrocchia, sempre per la regola aurea di non dare scandalo, abbiano potuto accedere al sacramento dell’Eucarestia. E se la misericordia che è stata loro rivolta sia la stessa finora negata ai divorziati.

di Michele Paris

I bombardamenti della coalizione assemblata senza molto senso dall’amministrazione Obama per combattere le forze dello Stato Islamico (ISIS) si stanno concentrando in questi giorni nel territorio siriano al confine con la Turchia per cercare di impedire ai fondamentalisti sunniti di conquistare la città curda di Kobane.

L’assedio ha già provocato la fuga di quasi 200 mila civili verso la Turchia, scatenando le proteste dei curdi non solo in questo paese - dove sono stati affrontati duramente dalla polizia - ma anche in varie città europee per chiedere ai governi occidentali un maggiore impegno contro la minaccia jihadista che incombe sugli appartenenti alla loro etnia in Siria.

Al di là dell’ironia delle richieste di aiuto a governi che hanno contribuito in maniera diretta alla nascita dell’ISIS, un intervento ancora più deciso dell’Occidente o dei paesi arabi in Siria non farebbe che peggiorare una situazione già catastrofica. Inoltre, le centinaia di incursioni aeree già portate a termine in Siria e in Iraq non hanno per ora ostacolato in maniera significativa l’avanzata dei guerriglieri estremisti.

Questa realtà è comunque servita a giustificare il coinvolgimento di altri paesi nella guerra lanciata dagli Stati Uniti. La Turchia, in particolare, dopo il voto del parlamento a favore di un intervento militare contro l’ISIS, ha dispiegato le proprie forze armate al confine con la Siria. Allo stesso tempo, Ankara sta impedendo ai membri della minoranza curda in Turchia di raggiungere il campo di battaglia in Siria per unirsi alla resistenza dei curdi che vivono oltre il confine meridionale.

Nonostante il presidente Erdogan e il primo ministro Davutoglu si siano recentemente convertiti alla necessità di combattere l’ISIS dopo averlo favorito in tutti i modi come arma contro Damasco, è difficile non osservare una nuova convergenza di obiettivi tra Ankara e la stessa organizzazione fondamentalista nel territorio siriano a maggioranza curda.

La Turchia, cioè, pur avendo ceduto alle pressioni USA per combattere l’ISIS in cambio della rimozione del regime di Assad, non intende in nessun modo aiutare intenzionalmente le milizie curde siriane (Unità di Protezione Popolare, YPG), dal momento che esse hanno legami molto stretti con il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) in territorio turco. Un intervento esterno contro l’ISIS potrebbe finire infatti per alimentare le tendenze indipendentiste curde da entrambi i lati del confine turco-siriano, aprendo un nuovo pericoloso fronte per il governo di Ankara, già sopraffatto dalle conseguenze disastrose della sua politica estera a dir poco contraddittoria.

A confermare i reali scopi turchi nel conflitto in Siria è stato qualche giorno fa il premier Davutoglu che ha chiarito nel corso di un’intervista alla CNN come Ankara sia pronta ad assistere gli Stati Uniti, purché ci sia “una chiara strategia”, grazie alla quale, “dopo l’ISIS, i nostri confini siano protetti”.

In altre parole, l’obiettivo finale del governo islamista di Erdogan e Davutoglu è appunto la destituzione con la forza di Assad. A tale fine, quest’ultimo viene dipinto dall’ex ministro degli Esteri turco come una minaccia per la Turchia, anche se appare evidente come sia la stessa condotta irresponsabile di Ankara a favore dell’opposizione armata siriana - incluso l’ISIS - ad essersi trasformata in un boomerang, creando una gravissima situazione di minaccia alla sicurezza nazionale del paese euro-asiatico.

Lo stesso Erdogan nella giornata di martedì ha poi lanciato l’allarme per l’imminente caduta della città di Kobane nelle mani dell’ISIS, tornando a chiedere, per fermare questi ultimi, una no-fly zone sulla Siria settentrionale, con una logica difficile da comprendere se non in funzione di una guerra aperta contro Assad.

Identica richiesta era già stata avanzata settimana scorsa dallo stesso ex premier turco e non era stata esclusa dal numero uno del Pentagono, Chuck Hagel, e dal capo di Stato Maggiore USA, generale Martin Dempsey.

Che la Turchia e le monarchie ultra-reazionarie del Golfo Persico siano le vere responsabili della destabilizzazione del Medio Oriente lo ha sostenuto apertamente anche il governo americano. L’ormai nota “gaffe” del vice-presidente Biden di giovedì scorso durante un intervento all’università di Harvard non è stata altro che l’ammissione involontaria, da parte di un politico notoriamente “sprovveduto” per gli standard di cinismo che caratterizzano la politica di Washington, del fatto che l’ISIS è innegabilmente una creazione degli alleati americani nella lotta contro Assad.

Biden, se mai, è stato fin troppo reticente, visto che ha taciuto le responsabilità del suo governo, protagonista principalmente attraverso la CIA quanto meno della supervisione delle attività di reclutamento, addestramento e finanziamento delle formazioni islamiste impegnate contro il regime siriano.

Il possibile intervento delle forze armate turche, in ogni caso, si accompagna alla continua escalation bellica statunitense in Iraq e in Siria dietro le spalle degli americani, con buona pace di quanti avevano creduto alle promesse di Obama circa un conflitto di portata limitata.

I vertici militari USA hanno ad esempio annunciato l’impiego per la prima volta di elicotteri da guerra Apache contro l’ISIS in Iraq, in pratica smentendo la pretesa della Casa Bianca di non avere intenzione di utilizzare truppe di terra. Questi velivoli, infatti, oltre a garantire una maggiore efficacia, espongono i piloti a notevoli rischi di abbattimento, annullando così quasi del tutto le differenze tra una guerra aerea e una condotta con forze di terra.

Inoltre, possibili eventuali abbattimenti di elicotteri USA o la cattura di soldati americani da parte dell’ISIS fornirebbero un’altra occasione per intensificare l’impegno di Washington nel conflitto in corso e avvicinare sempre più il momento della resa dei conti con il regime di Damasco.

Un impegno, quello che vede come al solito gli USA in prima linea, che potrebbe anche riguardare la NATO, come ha confermato il neo-segretario dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, rievocando sinistramente la guerra scatenata nel 2011 per “liberare” la Libia dal regime di Gheddafi.

L’ex primo ministro norvegese, nell’ennesimo paradosso della guerra all’ISIS, ha annunciato che le forze NATO sarebbero pronte a intervenire a “difesa” di Ankara nel caso le violenze in Siria dovessero sconfinare in Turchia, facendo appunto scattare l’obbligo di soccorrere un qualsiasi paese membro se attaccato.

I responsabili della devastazione dell’Iraq e della Siria, in definitiva, sembrano essersi trasformati ora in vittime di un regime, come quello di Assad, che non ha però mai minacciato in nessun modo i propri vicini. Anzi, è proprio Damasco la vittima da oltre tre anni delle manove di questi ultimi e dei governi occidentali, disperatamente alla ricerca di una vittoria strategica cruciale in Siria, tanto da appogiare il fondamentalismo sunnita per poi combatterlo - o dare l’impressione di volerlo combattere - una volta sfuggito di mano.

di Michele Paris

Le elezioni anticipate andate in scena domenica in Bulgaria hanno prodotto il Parlamento più frammentato nella storia post-sovietica del paese dell’Europa orientale. A conquistare il maggior numero di seggi è stato comunque il partito di opposizione di centro-destra GERB (Cittadini per lo Sviluppo Europeo della Bulgaria), il quale dovrà però cercare partner di governo al di fuori delle forze normalmente considerate come alleati naturali, con il risultato di dar vita a un nuovo debole esecutivo che sarà chiamato ad affrontare delicate questioni politiche, economiche e strategiche nell’immediato futuro.

Il dato più significativo del voto è stato quello dell’astensione, con circa la metà degli elettori bulgari che non si sono presentati alle urne in un chiaro segnale della profonda disaffezione verso una classe politica che negli ultimi anni ha presieduto ad una crisi dopo l’altra, senza scalfire la realtà di un paese che rimane il più povero dell’Unione Europea.

L’altro sintomo della frustrazione diffusa verso l’establishment politico tradizionale è stata l’insolita dispersione del voto, come conferma il fatto che per la prima volta otto formazioni politiche hanno superato la soglia di sbarramento, fissata al 4%, per poter ottenere seggi nell’unica camera del parlamento bulgaro (Assemblea Nazionale).

Il GERB dell’ex e probabile futuro primo ministro Boyko Borisov ha ancora una volta capitalizzato l’avversione verso il Partito Socialista Bulgaro, ottenendo più voti di quelli dei suoi due principali rivali combinati. Quasi il 33% dei consensi, tuttavia, non permettono al GERB nemmeno lontanamente di contare sulla maggioranza assoluta in maniera autonoma.

Le speranze di Borisov di far nascere un governo di coalizione relativamente stabile sono state inoltre spazzate via dalla modesta affermazione del Blocco Riformista, indicato alla vigilia come partner naturale del GERB. Formato da cinque partiti minori di centro-destra, infatti, il Blocco ha convinto appena il 9% dei votanti.

I vertici del GERB nella giornata di lunedì hanno comunque già fatto sapere di essere disponibili a imbarcare in una coalizione di governo anche il Fronte Patriottico, un’alleanza elettorale all’insegna del nazionalismo che ha conquistato il 7,3% dei consensi. Una qualche forma di collaborazione con il prossimo governo potrebbe essere creata poi con il partito di estrema destra anti-semita ATAKA, il quale ha perso quasi 3 punti percentuali rispetto alle elezioni del maggio 2013, assestandosi attorno al 4,5%.

La performance del GERB non sembra essere dunque in nessun modo un attestato di fiducia della maggioranza degli elettori bulgari, tanto più che un recente sondaggio Gallup aveva evidenziato come il 59% degli interpellati si fosse detto contrario a un nuovo incarico a primo ministro per Borisov.

Il partito che ha maggiormente patito il voto anticipato è stato quello Socialista (BSP) che è passato dal 26,5% del 2013 a poco più del 15% di domenica. Gli altri tre partiti che entreranno in parlamento sono poi il Movimento per i Diritti e le Libertà o DPS (14,8%), che rappresenta la minoranza turca, Bulgaria Senza Censura (5,7%), del giornalista televisivo Nikolay Barekov, e l’Alternativa per lo Sviluppo della Bulgaria o ABV (4,2%), dell’ex presidente Georgi Parvanov.

La seconda tornata elettorale in poco più di un anno in Bulgaria è dovuta al crollo avvenuto la scorsa estate del governo di minoranza appoggiato dal Partito Socialista e dal DPS e guidato dal premier “indipendente” Plamen Oresharski. La crisi dell’esecutivo era stata prodotta dalla modesta performance dei partiti che lo sostenevano nelle elezioni europee ma, in realtà, la sua già precaria stabilità era stata scossa più volte da proteste popolari contro la corruzione dilagante e la nomina di un magnate delle comunicazioni alla guida dell’agenzia per la sicurezza nazionale, così come, successivamente, dalla pessima gestione di una rovinosa inondazione nel mese di giugno e da una tuttora poco chiara crisi bancaria che durante l’estate aveva causato una corsa al ritiro dei risparmi depositati presso due istituti bulgari.

Le dimissioni del governo Oresharski avevano portato così alla formazione di un gabinetto ad interim di “tecnici” guidato dall’ex membro del Partito Socialista, Georgi Bliznashki, che ha condotto il paese fino al voto del fine settimana.

Ancora prima delle tensioni provocate dalla condotta dell’esecutivo uscito dalle elezioni del 2013, in ogni caso, la Bulgaria era finita al centro dell’attenzione della comunità internazionale come uno dei paesi più instabili dell’Unione Europea. Infatti, il governo di centro-destra di Borisov si era a sua volta dimesso nel febbraio 2013 in seguito a proteste popolari oceaniche contro rincari vertiginosi delle tariffe dell’energia elettrica e, più in generale, contro le durissime misure di austerity che avevano colpito una popolazione già impoverita a sufficienza.

A inasprire la persistente crisi politica bulgara negli ultimi mesi è stata anche la vicenda ucraina e il confronto in atto tra l’Occidente e la Russia, che ha provocato di riflesso uno scontro molto duro tra le varie fazioni politiche a Sofia.

La Bulgaria ha legami piuttosto stretti con Mosca nonostante l’ingresso nell’UE e, in particolare, il Partito Socialista - erede del Partito Comunista Bulgaro - vede con un certo favore il mantenimento del rapporto con la Russia, respingendo perciò lo scontro frontale voluto da Washington e Bruxelles. L’evoluzione dei fatti in Ucraina ha però reso sempre più complicata la difesa di una simile posizione, iniettando nella realtà politica - ma anche economica - della Bulgaria un ulteriore fattore destabilizzante.

Oltre ad avere avuto probabilmente un peso nella già ricordata crisi bancaria, i riflessi della questione ucraina si sono fatti sentire soprattutto attorno alla sorte del South Stream, il gasdotto in fase di costruzione che dovrebbe trasportare il gas russo verso l’Europa attraverso il Mar Nero e la Bulgaria fino all’Austria e l’Italia, evitando l’Ucraina.

Con l’aggravarsi della crisi tra Kiev e Mosca, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno esercitato enormi pressioni sul governo di Sofia per sospendere la costruzione della sezione bulgara del gasdotto di proprietà al 50% della russa Gazprom. L’annuncio dello stop ai lavori in Bulgaria era giunto così ai primi di giugno, due giorni dopo la visita a Sofia di un gruppo di senatori americani guidati dal repubblicano John McCain.

L’apparente linea dura bulgara nei confronti della Russia è poi proseguita dopo l’installazione del governo tecnico di Georgi Bliznashki, formato da varie personalità legate all’UE e agli USA. Allo stesso modo, il probabile prossimo primo ministro Borisov ha assicurato che i lavori del South Stream nel suo paese proseguiranno solo con il via libera di Bruxelles, da dove continua a prevalere la volontà di punire il Cremlino.

A complicare il quadro c’è poi la posizione dei paesi beneficiari del gasdotto, come Austria e Italia (l’ENI è coinvolto al 20% nel progetto South Stream), i quali si oppongono alla decisione dell’Unione di sospendere i lavori.

La stessa Bulgaria sembra avere peraltro un atteggiamento ambiguo sulla questione, visto che alcuni lavori del South Stream secondo alcune fonti starebbero proseguendo anche dopo la decisione ufficiale di sospenderli.

Alcune testate nelle scorse settimane avevano ad esempio parlato di tubi giunti nel porto di Varna destinati alla costruzione del gasdotto, mentre più recentemente i vertici della società South Stream hanno affermato che il posizionamento delle tubature sul fondo del Mar Nero inizierà come previsto nel mese di novembre.

Sulla diatriba e sull’orientamento stesso del prossimo governo di Sofia continua infine a intervenire l’Unione Europea con toni intimidatori. Alla notizia della possibile prosecuzione dei lavori del South Stream in Bulgaria - ma anche in Serbia - malgrado l’annuncio ufficiale della sospensione, una portavoce del commissario europeo per l’energia, Günther Oettinger, qualche giorno fa ha agitato nuovamente la minaccia delle procedure di infrazione, in base sia alla violazione delle sanzioni anti-russe adottate da Bruxelles sia alla regola UE che vieta ad una singola compagnia - in questo caso Gazprom - di essere contemporaneamente fornitrice del gas naturale e proprietaria delle infrastrutture in cui esso deve transitare.


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