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di Michele Paris
A quasi sei anni dall’esplosione della più grave crisi dai tempi della Grande Depressione, il panorama economico e sociale negli Stati Uniti e nel resto dell’Occidente si presenta ben diverso da quello che caratterizzava il periodo antecedente il tracollo avvenuto su scala planetaria. In particolare, i proclami relativi ad una presunta ripresa economica in corso e al ristabilimento dei livelli di occupazione precedenti la crisi sono contraddetti da una realtà segnata da una profonda ristrutturazione dei rapporti di classe con il conseguente irreversibile deterioramento delle condizioni di vita di decine di milioni di lavoratori.
A mettere l’accento sulla vera natura della ripresa economica è stato qualche giorno fa uno studio pubblicato dall’organizzazione americana National Employment Law Project (NELP). I dati si riferiscono agli Stati Uniti del “dopo crisi”, ma il dilagare di precarietà e posti di lavoro drammaticamente sottopagati che viene descritto può essere facilmente riconosciuto dai lavoratori di qualsiasi paese europeo e non solo.
Il cuore della ricerca indica come, durante questi anni teoricamente segnati da un ritorno a livelli accettabili dell’economica a stelle e strisce, abbia avuto luogo una perdita estremamente consistente di impieghi caratterizzati da stipendi considerati “medio-alti”, sostituiti da un numero sproporzionatamente elevato di posti di lavoro sottopagati.
Nel sottolineare come continui a persistere uno squlibrio tra “le industrie che hanno fatto segnare una perdita di posti di lavoro e quelle che hanno registrato la maggiore crescita dall’inizio della ripresa economica”, i ricercatori del NELP rivelano che i settori dell’economia USA che offrono impieghi pagati non più di 13 dollari l’ora hanno perso il 22% dei posti di lavoro complessivi durante la recessione ma ne hanno creati ben il 44% di quelli totali negli ultimi quattro anni.
Poco meno della metà dei posti di lavoro prodotti dalla fine teorica della crisi, cioè, pagano stipendi da fame, mentre i posti di questo genere persi durante la recessione erano stati appena un quinto, o poco più, del totale.
I posti di lavoro svaniti nei settori che rientrano nella fascia a medio (da 13 a 20 dollari l’ora) e ad “alto” reddito (da 20 a 32 dollari l’ora) sono stati invece molti di più: rispettivamente il 37% e il 41% del totale. In queste due fasce, tuttavia, sono stati creati finora appena il 26% e il 30% degli impieghi complessivi dopo l’uscita ufficiale dalla crisi.
A tutt’oggi, così, negli Stati Uniti ci sono 1,85 milioni di posti di lavoro in più nei settori sottopagati rispetto al periodo pre-crisi, mentre quelli che garantiscono stipendi medio-alti sono quasi 2 milioni in meno.
Le paghe più misere sono genericamente elargite agli impiegati di settori come quello della ristorazione o della vendita al dettaglio, i quali garantiscono stipendi medi di nemmeno 10 dollari l’ora, e sono responsabili per il 39% dell’aumento dei posti di lavoro in ambito privato negli ultimi quattro anni.
Particolarmente colpiti sono invece i settori di solito associati con lavori ben pagati, come quelli dell’edilizia o dell’industria manifatturiera, dove il numero di posti creati non ha nemmeno lontanamente eguagliato quelli persi dall’inizio della crisi nel 2008. Nel primo caso, i posti in meno sono il 20% e nel secondo almeno l’11%.
Questo fenomeno appena descritto è del tutto nuovo per i periodi successivi alle crisi cicliche del sistema capitalistico, tanto che, ad esempio, durante la ripresa dopo la recessione del 2001 i settori ad “alto” reddito furono in grado di creare il 40% dei nuovi posti di lavoro complessivi.Se l’analisi dell’istituto di ricerca con sede a New York si concentra sul settore privato, essa evidenzia anche come la situazione attuale sia aggravata dal fatto che l’amministrazione pubblica negli USA durante l’era Obama abbia distrutto in questi anni 627 mila posti di lavoro che garantivano un reddito dignitoso, di cui addirittura il 44% nel solo ambito scolastico.
Il quadro complessivo che esce dallo studio del NELP conferma dunque la vera natura della ripresa economica di questi anni - taciuta da politici, imprenditori e media “mainstream” - tradottasi in un ridimensionamento forzato dei livelli di vita per decine di milioni di lavoratori sufficientemente fortunati da trovare un qualche impiego dopo essere stati licenziati.
Al contrario, la ripresa effettiva ha riguardato quasi esclusivamente i profitti delle grandi aziende e le grandi ricchezze finanziarie, direttamente dipendenti dal processo deliberato di impoverimento di massa e dallo stravolgimento dei rapporti di classe appena descritto.
In concreto, tutto ciò si è tradotto in una riduzione di oltre l’8% del reddito medio degli americani tra il 2007 e il 2012, proprio mentre le ricchezze dei miliardari negli Stati Uniti sono più che raddoppiate, salendo ad un totale di 1.200 miliardi di dollari.
Che l’assalto alle condizioni di vita dei lavoratori per la difesa e la promozione degli interessi di una ristretta oligarchia economico-finanziaria non sia il risultato di forze impersonali bensì di politiche deliberate è confermato in primo luogo dal ruolo avuto dall’amministrazione Obama nella compressione delle retribuzioni.
Subito dopo l’esplosione della crisi, infatti, il neo-presidente democratico aveva forzato la bancarotta e la ristrutturazione di General Motors e Chrysler, imponendo tra l’altro il sostanziale dimezzamento degli stipendi per i nuovi assunti in aziende, come quelle automobilistiche, che tradizionalmente fissano i parametri retributivi dell’industria manifatturiera americana.
Anche in questo settore, così, gli stipendi si sono allineati a quelli peggio pagati, perfettamente in linea con gli sforzi di Obama di rivitalizzare e rendere più competitiva l’industria degli Stati Uniti, attraverso la riduzione del gap tra le retribuzioni dei lavoratori indigeni e quelli dei paesi asiatici, latino-americani o dell’Europa orientale.
Le conseguenze di tali sviluppi sono state, da un lato, disoccupazione cronica, stagnazione o taglio degli stipendi, esplosione di lavori temporanei e part-time, smantellamento di diritti e benefit vari conquistati nei decenni scorsi dai lavoratori, con conseguente incremento dei livelli di povertà, mentre dall’altro sono decollati i profitti delle corporation, saliti ad una quota dell’economia pari oggi all’11% contro appena il 3% di nemmeno trent’anni fa.Lo studio pubblicato dal NELP, in ogni caso, si è inserito nel dibattito in corso negli Stati Uniti attorno all’opportunità di innalzare il livello dello stipendio minimo, vale a dire uno dei punti centrali della campagna elettorale di Obama e del Partito Democratico in vista del voto di novembre per il rinnovo di buona parte del Congresso di Washington.
La “battaglia” del presidente e dei suoi colleghi di partito al Campidoglio - impegnati in questi anni a perseguire esattamente l’obiettivo contrario - ha patito però un’umiliante sconfitta proprio settimana scorsa, quando una proposta di legge per alzare la paga minima oraria a livello federale è stata bloccata sul nascere al Senato dall’ostruzionismo repubblicano.
Osteggiata da ampie sezioni dell’imprenditoria americana, questa iniziativa non aveva comunque nessuna possibilità di andare in porto, dal momento che, se anche avesse superato l’ostacolo del Senato, la Camera a maggioranza repubblicana non l’avrebbe con ogni probabilità nemmeno discussa in aula.
La proposta partorita dai democratici, oltretutto, avrebbe portato lo stipendio minimo federale da 7,25 a 10,10 dollari l’ora, ad un livello cioè inferiore - in termini reali - a quello di mezzo secolo fa. Secondo un recente studio, piuttosto, tenendo conto dell’inflazione e dell’aumento della produttività, la retribuzione minima negli Stati Uniti dovrebbe oggi essere fissata ad un livello non lontanto dai 22 dollari l’ora.
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di Fabrizio Casari
Ci hanno preso gusto i golpisti di Kiev. Difensori dell’autodeterminazione dal governo, hanno cominciato una guerra contro chi vuole l’autodeterminazione da loro. Che poi quello rovesciato a Kiev fosse stato legittimamente eletto e quello ora al potere sia abusivo, conta poco. L’offensiva militare contro i separatisti russofoni, che hanno il terribile difetto di rappresentare la storia passata e presente dell’Ucraina, è iniziata ormai da giorni e, davanti alla resistenza di chi non vuole strappare radici e inginocchiarsi all’ultradestra nazistoide governante a Kiev, hanno scelto di usare la mano pesante.
Con i carri armati cercano di riprendere con la forza il controllo di Odessa. Non hanno problemi a scatenare le bande naziste di "Settore destro" che, come da tradizione, fanno il lavoro sporco. Nello specifico quello di dar fuoco alla sede del sindacato dove si erano rifugiate persone in fuga dall’offensiva. Quaranta persone bruciate vive nel compiaciuto silenzio delle cancellerie occidentali che, per molto meno, avevano scatenato una campagna di finta indignazione e contro il governo eletto di Kiev, poi spodestato.
Umoristica la richiesta di Bruxelles di una “commissione indipendente” sui fatti: non solo non c’è nessuna istituzione indipendente in Ucraina, ma per vedere cosa pensano i golpisti d’ispirazione nazista di presunte indipendenze, basta andare proprio ad Odessa. Quella dell’Europa, dunque, più che una presa di posizione sembra l’esibizione di un certificato di esistenza in vita.
Né i quaranta morti provocati da tanto coraggio smuovono i media occidentali, italiani e statunitensi in testa, che inneggiano alla guerra; vuoi per la loro indefessa militanza occidentale, vuoi perché la guerra fa vendere copie oltre che armi, vuoi perché veder sparare offre il vantaggio di poter scriverne senza l’incombenza di dover conoscere la storia. Eppure, la ricostruzione di Kiev di quanto avvenuto è talmente ridicola che, da sola, ha obbligato l’UE a far finta di chiedere un’indagine indipendente. E se non lo fanno? Gli tolgono una "A" dal rating di golpisti?
Hanno fretta i golpisti ucraini. Anche perché il loro vero comandante in capo, John Brennan, il direttore della CIA che da Kiev dirige le operazioni, ha imposto l’obbligo di avere ragione della rivolta entro l’11 Maggio, data nella quale i rivoltosi hanno indetto un referendum sul modello di quello che ha vinto in Crimea. Peraltro, il 25 Maggio sono state indette le elezioni in Ucraina e, per quella data, la piazza dev’essere sgombra dalle macerie della storia e dai fastidiosi ingombri della democrazia rappresentativa; votare nel pieno di una guerra toglierebbe charme alle ipocrisie di Obama in mondovisione, e poi i missili Nato hanno bisogno di spazio, non di discussioni sulla legittimità e opportunità della loro presenza.
Gli accordi di Ginevra sono ormai morti e sepolti sotto la montagna di bugie che l’Occidente aveva rifilato a Mosca, sulla falsariga di quelle già raccontategli dopo la caduta del muro di Berlino. Il riferimento è alle generiche quanto false rassicurazioni fornite da Washington e Bruxelles circa l’utilizzo dei territori dell’ex Patto di Varsavia per allargare ad Est l’Alleanza Atlantica e minacciare la Russia. “Nessuno vuole puntarli sulla Russia”, dicevano le diverse amministrazioni statunitensi; eppure l’Est Europa è diventato quasi una sola postazione missilistica Nato con testate puntate su tutta la Federazione Russa e sull’Iran.La questione non è non è se i golpisti ucraini avranno o no ragione sul piano militare dei rivoltosi: la disparità delle forze in campo, sotto tutti i punti di vista, è enorme. Quindi il dubbio non è su quanto sta avvenendo sul terreno, ma su quanto potrà avvenire. Si tratta infatti di capire come reagirà il Cremlino. Fino a quando Mosca deciderà di vedersi rosicchiare interi blocchi storicamente appartenenti alla sua sfera d’influenza, per consentire agli USA di portare una minaccia militare direttamente ai propri confini? Fino a quando permetterà di trasformare i suoi confini in basi Nato, alterando così non poco l’equilibrio militare e i tempi e i luoghi della reazione rapida ad un eventuale attacco americano alla Russia?
Sarebbe stupido pensare che una eventualità del genere sia fantascienza: quanto avvenuto dall’epoca di Reagan fino a quella di Bush indica come il progetto di estensione ad Est della Nato sia il principale obiettivo per garantire il dominio militare unipolare assoluto da parte di Washington sull’intero pianeta. E se non si vuole sostenere la parte ideologica dell’Occidente democratico contro l’orso russo, si deve riconoscere che una parte sostanziale del riarmo russo ha a che vedere proprio con questa situazione.
Mosca si trova infatti davanti ad un bivio pericolosissimo. Diversamente da quanto era in gioco fino al 1989 - una guerra totale tra due sistemi politici nemici - oggi la questione non è quanto e come garantire la reciproca difesa dei due sistemi, magari con una politica militare centrata sulla deterrenza. Oggi lo scontro tra i due sistemi non esiste più, entrambi appartengono allo stesso ceppo.
Non c’è più, quindi, antagonismo tra i sistemi, semmai concorrenzialità. Ed è questa che deve allarmare maggiormente Mosca. L’interdipendenza con l’Occidente rende Mosca più attaccabile di quando viveva nel suo isolamento. Ma può permettersi di subire le scorribande Nato ai suoi confini, di veder trasformare la Federazione Russa in una gabbia circondata da armi e governi ostili?
Se quindi da un lato, ovviamente, Mosca non può desiderare ( e nemmeno permettersi) una guerra ed ha perfettamente chiaro che non può ripetersi in Ucraina quanto avvenuto in Georgia, dall’altro non può nemmeno rimanere a guardare lo sfondamento del cuscinetto territoriale che doveva essere rappresentato proprio dall’Ucraina, che negli accordi serviva proprio a dividere la Federazione Russa dalla periferia dell’impero a guida Nato.E, per quanto enorme, non è l’unica preoccupazione che agita Mosca. Il rischio oggettivo rappresentato dall’avere la Nato ai suoi confini si unirebbe a quello del possibile nuovo innesco dell’islamismo caucasico, che potrebbe riesplodere proprio in presenza di una limitata capacità di risposta militare russa, determinata dal doversi muovere vicino a polveriere di diversa natura. E’ per questo che il complesso militar industriale che guida il presidente Obama come un puparo con il burattino, ha deciso di sfidare fino in fondo Mosca, ritenendo, nella peggiore delle ipotesi, di dover sostenere un confronto militare tattico e limitato ai Balcani.
I militari americani confidano che Mosca indietreggerà davanti alla prospettiva di una guerra ai suoi confini, anche per non rischiare di veder rinfocolarsi le tensioni nei territori asiatici e caucasici, che finirebbero per porre la Russia al centro di focolai di guerra che diverrebbero incontrollabili.
Negli USA sono diversi i columnist americani che soffiano sul fuoco, ma arrivano anche forti critiche da personaggi che hanno fatto la storia della politica estera statunitense, come Kissinger e Brzezinski, i quali ritengono un gravissimo errore sfidare apertamente Mosca mettendola con le spalle al muro. Tutto da dimostrare, infatti, che Mosca chini il capo. Proprio per il sottofondo culturale del nazionalismo russo, quello della debolezza militare è un lusso insopportabile. Davvero installare missili in Ucraina può valere un conflitto? Davvero qualche migliaio di tonnellate di grano e mais e l’umiliazione del concorrente Putin valgono il rischio di una guerra nel cuore dell’Europa?
Europa che, sulla scorta di quanto avviene per le sue politiche economiche, delega alla Germania il da farsi. E non solo non ritiene di dover prendere in considerazione l’idea di battersi per la pace, di porsi come forza d’intermediazione per evitare una guerra nel suo continente, ma nemmeno di assumere una posizione frutto di una discussione sui suoi interessi geostrategici, che risultano evidentemente diversi e divaricanti da quelli di Washington. Tanto per fare un esempio, ci sarebbe il gas russo che Mosca potrebbe decidere di non fornirci più: dovrebbe essere sostituito da quello statunitense.
Ma questa, oltre ad essere una soluzione solo futuribile, comporterebbe un aggravio pesante di costi per gli europei. Washington certamente guadagnerebbe, l’Europa certamente ci rimetterebbe. Ma del resto, perché l’impero dovrebbe favorire le colonie d’oltremare? Guerre nostre, affari loro.
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di Michele Paris
Una nuova esecuzione capitale risoltasi nel più completo disastro in un penitenziario dell’Oklahoma ha mostrato ancora una volta la sempre più evidente incapacità da parte delle autorità degli Stati Uniti di garantire il rispetto della legge e un minimo di umanità nell’applicazione della più barbara delle punizioni imposte ad un condannato per i suoi crimini.
Nel penitenziario di McAlester, contea di Pittsburg, martedì erano previste ben due condanne a morte, programmate a distanza di due ore l’una dall’altra. Alle 18 sarebbe dovuta scoccare l’ora del detenuto Clayton Lockett, 38enne condannato per l’omicidio di una giovane donna nel corso di una rapina nel 1999. Alle 20, poi, in programma c’era l’esecuzione di Charles Warner, finito nel braccio della morte per avere violentato e ucciso nel 1997 la figlia di 11 mesi dell’allora fidanzata.
La procedura ai danni di Lockett era iniziata regolarmente con una prima iniezione di un sedativo denominato midazolam allo scopo di rendere incosciente il condannato. Successivamente, avrebbero dovuto essere somministrate altre due sostanze, un bloccante muscolare (vecuronio) e del cloruro di potassio per indurre l’arresto cardiaco.
Dopo una decina di minuti dall’avvio delle procedure, Lockett è stato dichiarato in stato di incoscienza dal personale addetto all’esecuzione, ma ben presto ha iniziato ad agitarsi violentemente per provare a liberarsi dal lettino a cui era assicurato, respirando rumorosamente e cercando di alzare la testa per parlare.
La stanza è stata allora oscurata in modo da nascondere quanto stava accadendo ai testimoni presenti, mentre il direttore del sistema penitenziario dell’Oklahoma, Robert Patton, è stato raggiunto da una telefonata, in seguito alla quale ha abbandonato le operazioni assieme ad altri tre addetti del carcere.
Più tardi, lo stesso Patton ha affermato in una conferenza stampa che la prima sostanza non ha avuto l’effetto desiderato, poiché le vene di Lockett sarebbero “esplose”. L’esecuzione è stata interrotta ma, 43 minuti dopo la prima iniezione, il condannato è deceduto a causa di un forte attacco cardiaco. Nonostante le ricostruzioni dei testimoni, le autorità dello stato hanno sostenuto che Lockett è rimasto costantemente in stato di incoscienza fino alla morte.
Patton ha notificato l’accaduto al procuratore generale dello stato e alla governatrice dell’Oklahoma, Mary Fallin, la quale ha disposto una sospensione di 14 giorni per la seconda esecuzione in programma martedì, in attesa di un’indagine sulla procedura prevista dall’Oklahoma per la messa a morte dei condannati.Ciò che è accaduto nel carcere di McAlester non è in ogni caso un evento senza precedenti negli Stati Uniti ed è inoltre il risultato di una battaglia legale dai contorni talvolta surreali attorno al protocollo finora mai testato e che ha coinvolto i legali dei due condannati, i politici e i massimi tribunali dell’Oklahoma.
Il ricorso ad un nuovo protocollo - in Oklahoma come in altri stati - si era reso necessario in seguito all’impossibilità di reperire le tre sostanze tradizionalmente usate per le iniezioni letali. I fornitori quasi tutti europei di queste ultime, infatti, hanno da qualche tempo bloccato le esportazioni dei medicinali in questione verso gli Stati Uniti proprio a causa del loro utilizzo nelle esecuzioni capitali.
Con l’assottogliamento delle scorte, molti stati hanno iniziato così a studiare soluzioni alternative per non interrompere la macchina della morte, ricorrendo ad esempio a nuovi cocktail o a singole sostanze, spesso di molto dubbia efficacia e quasi sempre reperiti presso fornitori segreti o non certificati, facendo aumentare seriamente il rischio di infliggere sofferenze equiparabili a torture ai condannati a morte.
Il protocollo appena fallito in Oklahoma era già stato impiegato recentemente in Florida, dove però la quantità del sedativo midazolam era stata cinque volte superiore. Secondo gli esperti, se questa sostanza non viene somministrata nella giusta dose, le due successive possono provocare dolori atroci e sensazione di soffocamento con il condannato ancora cosciente, come è accaduto appunto martedì a Clayton Lockett.
Nello stato dell’Oklahoma, peraltro, lo scorso mese di gennaio un’altra esecuzione era finita tra le polemiche, quella del condannato Michael Lee Wilson, il quale dopo la somministrazione del primo sedativo - in questo caso pentobarbital, solitamente utilizzato nell’eutanasia animale - aveva escalamato di sentire il proprio corpo “bruciare”.
Dopo i problemi con il pentobarbital, l’Oklahoma aveva valutato la possibilità di un mix di midazolam e idromorfone, un potente analgesico, criticato da molti medici perché avrebbe potuto risultare sostanzialmente nel soffocamento dei condannati. Infatti, ciò è quanto era accaduto a Dennis McGuire, giustiziato con questo metodo il 16 gennaio in Ohio dopo quasi mezz’ora di orrore e sofferenze.
Dopo vari tentativi, la decisione di adottare il protocollo impiegato nell’esecuzione di Clayton Lockett si è risolta in una nuova violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti che proibisce punzioni “crudeli e inusuali”.
Per evitare ciò, i legali dello stesso Lockett e di Charles Warner nel mese di febbraio avevano avviato un’azione legale contro lo stato dell’Oklahoma dopo che le autorità avevano annunciato ufficialmente il nuovo cocktail letale.La lunga diatriba legale aveva spinto il 21 aprile scorso la Corte Suprema dello stato a bloccare le due esecuzioni, così da poter valutare un altro aspetto cruciale, vale a dire la costituzionalità di una legge approvata dal parlamento locale dell’Oklahoma nel 2011 per tenere segreta l’identità dei produttori delle sostanze usate nella procedura con iniezione letale.
La governatrice repubblicana dello stato, però, aveva subito dichiarato che i giudici della Corte Suprema statale erano andati al di là delle proprie competenze nel fermare le esecuzioni. Un deputato dell’assemblea legislativa dell’Oklahoma aveva addirittura presentato richiesta di impeachment contro i cinque giudici che avevano votato a favore della sospensione. Il 23 aprile, infine, la stessa Corte Suprema aveva finito per cedere con un clamoroso voltafaccia, deliberando che i due condannati non avevano il diritto di essere informati circa i fornitori delle sostanze che sarebbero state impiegate per la loro esecuzione.
Svariati altri stati americani stanno facendo i conti con cause legali per le stesse ragioni, con i difensori dei condannati che cercano di evitare la ripetizione di quanto è già accaduto quest’anno in Ohio e in Oklahoma, dove pericolosi cocktail di sostanze di dubbia provenienza sono stati testati su detenuti usati come cavie.
In Texas, ad esempio, un procedimento è attualmente in corso davanti alla Corte Suprema dello stato per forzare le autorità a rivelare i fornitori dei medicinali selezionati per l’iniezione letale. Una legge sulla segretezza è stata approvata nel 2013 anche dalla Georgia, dove ugualmente il massimo tribuale dello stato sarà chiamato a breve ad espimersi sull’argomento.
Il ricorso ai tribunali, in ogni caso, non garantisce in nessun modo il rispetto di diritti costituzionali basilari, come conferma non solo il caso dell’Oklahoma ma anche i recentissimi rifiuti da parte delle Corti Supreme di Missouri e Louisiana anche solo di considerare le cause presentate alla loro attenzione per togliere il segreto sugli approvvigionamenti delle sostanze letali.
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di Mario Lombardo
Alcuni giorni fa, un tribunale federale americano ha condannato a pene detentive relativamente pesanti tre manifestanti anti-NATO al termine di quello che è apparso a molti come una parodia di un procedimento legale in un paese democratico. I tre imputati, come è spesso accaduto negli ultimi anni negli Stati Uniti, non hanno in realtà rappresentato alcuna minaccia “terroristica” e i più che discutibili crimini di cui erano accusati sono derivati unicamente dall’attività istigatoria nei loro confronti di due infiltrati della polizia.
Il verdetto è stato emesso dal giudice della contea di Cook, nell’Illinois, Thaddeus Wilson e ha stabilito per Brian Church, Brent Betterly e Jared Chase pene rispettivamente di 5, 6 e 8 anni, al termine delle quali seguiranno per tutti altri 2 anni di libertà condizionata.
Già lo scorso mese di febbraio, i tre giovani alla sbarra erano stati giudicati colpevoli per i reati di possesso di materiale incendiario e di utilizzo di metodi violenti per disturbare la quiete pubblica. La giuria prescelta per il processo li aveva però scagionati dall’accusa più grave, quella di terrorismo secondo il dettato di una legge dell’Illinois approvata all’indomani dell’11 settembre 2001 e fino ad ora mai usata in aula nello stato del Midwest americano.
Il procuratore Anita Alvarez aveva condotto una durissima battaglia contro i tre imputati, insistendo sulle loro tendenze terroristiche e chiedendo ancora alla vigilia della decisione sull’entità della pena da parte del giudice Wilson fino a 14 anni di carcere nonostante la sentenza di febbraio. Church, Betterly e Chase sono in carcere già da più di 700 giorni e il periodo scontato dietro le sbarre verrà dedotto dalla loro pena definitiva.
Secondo i loro legali, nel caso dovesse essere riconosciuta la buona condotta, i tre potrebbero uscire dal carcere tra 6 e 18 mesi. Jared Chase, inoltre, soffre di una patologia neurodegenerativa chiamata malattia di Huntington, a causa della quale, secondo un neurologo chiamato a testimoniare durante il processo, il condannato 29enne, oltre a dovere essere assistito per ogni sua necessità nel prossimo futuro, potrebbe avere un’aspettativa di vita non superiore ai dieci anni.In ogni caso, le disavventure legali dei tre uomini erano iniziate nel maggio del 2012 in seguito alla loro partecipazione alle proteste organizzate contro il vertice della NATO andato in scena a Chicago. In quell’occasione, secondo svariate organizzazioni a difesa dei diritti civili, le autorità americane erano ricorse a “violenze indiscriminate” per disperdere i manifestanti, arrestando centinaia di persone e ferendone alcune decine.
Church, Betterly e Chase vennero invece presi di mira probabilmente per le simpatie da loro nutrite nei confronti dei cosiddetti Black Bloc. L’arresto fu effettuato dalle forze di polizia in un appartamento del “south side” di Chicago mentre i tre uomini - secondo l’accusa - erano intenti a versare benzina in alcune bottiglie vuote allo scopo di produrre Molotov da utilizzare in assalti contro alcuni edifici della città, tra cui stazioni di polizia, il quartier generale della campagna elettorale del presidente Obama e l’abitazione del sindaco Rahm Emanuel.
In realtà, l’intera vicenda era apparsa da subito come una trappola preparata dalle forze di polizia di Chicago costruita sulle prestazioni di due infiltrati sotto copertura.
Nel corso del processo, infatti, erano emersi elementi che, pur non risparmiando agli accusati pene detentive, avevano dimostrato l’assurdità delle accuse nei loro confronti. Per cominciare, le prove consistevano soltanto in registrazioni segrete di conversazioni inconsistenti, impronte digitali rinvenute su bottiglie vuote di birra che sarebbero state utilizzate per la preparazione di Molotov, nonché benzina e altro materiale fornito interamente dagli agenti di polizia in incognito.
Le conversazioni raccolte dalla polizia, come ha fatto notare la difesa durante il dibattimento in aula, erano caratterizzate più che altro da frasi bizzare ed evidenziavano la mancanza di preparazione dei tre imputati in relazione a possibili azioni dimostrative violente. In una discussione registrata, addirittura, Brian Church rifiutava esplicitamente l’invito di uno dei due agenti infiltrati a provare l’efficacia delle Molotov contro un qualche bersaglio a Chicago.Secondo l’avvocato di Brent Betterly, perciò, “la guerra al terrore non può andare tanto in là” fino a includere il caso in questione e, infatti, la vicenda dei cosiddetti “NATO Three” dimostra ancora una volta come le misure di polizia adottate negli USA dopo l’11 settembre 2001 siano destinate in primo luogo a reprimere e scoraggiare ogni forma di dissenso interno.
Lo stesso Betterly, d’altra parte, nelle fasi finali del processo qualche giorno fa ha ribadito pubblicamente il proprio impegno “pacifico contro le potenze occidentali e le corporations transnazionali”, identificando la sua battaglia morale con quella di tutte le “persone oppresse”.
La sorte dei tre condannati conferma anche come gli Stati Uniti valutino in maniera diametralmente opposta le manifestazioni di protesta a seconda che avvengano all’interno dei confini propri e di quelli di paesi amici o contro governi poco graditi.
Così, ad esempio, mentre i gruppi neo-fascisti che hanno rovesciato un governo democraticamente eletto in Ucraina o i manifestanti violenti finanziati da Washington in Venezuela vengono considerati alla stregua di eroi della democrazia, coloro che protestano contro il sistema negli USA, oppure contro il regime golpista di Kiev o la dittatura militare in Egitto, risultano al contrario minacce - spesso di natura “terroristica” - da eliminare senza nessuno scrupolo.
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di Michele Paris
L’ultima tappa della trasferta in Estremo Oriente del presidente americano Obama è stata caratterizzata dalla firma di un importante trattato decennale con il governo delle Filippine che consentirà ad un contingente delle forze armate statunitensi di tornare ad occupare alcune basi militari nel paese-arcipelago del sudest asiatico. L’intesa, allo studio da tempo, è stata siglata alla vigilia dell’arivo di Obama a Manila dal segretario alla Difesa filippino, Voltaire Gazmin, e dall’ambasciatore USA, Philip Goldberg.
Il testo dell’accordo è stato redatto con la precisa intenzione di occultare sia le modalità della sua applicazione che gli obiettivi reali che hanno portato alla firma, fondamentalmente per via della diffusa ostilità popolare nei confronti della presenza militare della ex potenza coloniale nelle Filippine e per aggirare la proibizione prevista dalla Costituzione di questo paese in merito alla creazione di basi militari straniere permanenti entro i propri confini.
Secondo i due governi, infatti, il trattato bilaterale non sarebbe rivolto al contenimento o all’accerchiamento della Cina, mentre servirebbe unicamente a favorire l’addestramento delle forze armate filippine e la cooperazione in caso di missioni umanitarie o di assistenza in seguito a disastri naturali. La presenza di soldati USA, viene spiegato inoltre, non sarà permanente ma a “rotazione” e l’accesso alle basi filippine avverrà a seguito di “inviti” del governo di Manila.
In realtà, l’accordo appena mandato in porto con le Filippine rientra in pieno nei piani strategici americani per incrementare le pressioni sulla dirigenza cinese e cercare di subordinare gli interessi di Pechino in quest’area del globo a quelli degli Stati Uniti.
La rilevanza dell’accordo è evidente anche dal fatto che esso giunge a oltre due decenni di distanza dalla decisione presa dalle Filippine di chiudere le basi americane sul proprio territorio dopo quasi un secolo di presenza militare a stelle e strisce. La collaborazione in ambito militare tra Washington e Manila, peraltro, era ripresa già a partire dal 2002 e, soprattutto con il pretesto della lotta al terrorismo, alcuni contingenti USA sono stati da allora impiegati nelle Filippine.
D’ora in avanti, tuttavia, la presenza americana risulterà più massiccia e, per ammissione del responsabile per l’Asia del Consiglio per la Sicurezza Nazionale USA, Evan Medeiros, i vertici militari americani potrebbero prendere in considerazione l’utilizzo di “svariate strutture” ancora da costruire o già esistenti, tra cui la base navale di Subic, occupata dalle forze degli Stati Uniti fino al 1992.Quella con le Filippine è dunque solo l’ultima e probabilmente più esplicita manovra da parte americana per rafforzare i legami militari con gli alleati asiatici, come è apparso evidente dalla visita di Obama nel continente.
La settimana scorsa in Giappone, ad esempio, il presidente democratico ha ribadito l’impego del suo paese a fianco di Tokyo in caso di “aggressione” da parte cinese in relazione alle isole Senkaku/Diaoyu nel Mar Cinese Orientale al centro di una disputa con Pechino.
Successivamente, in Corea del Sud, la presidente Park Geun-hye ha accettato le richieste americane di rimandare a dopo il dicembre del 2015 il trasferimento da Washington a Seoul del comando militare operativo delle forze armate indigene in tempo di guerra. Inoltre, la Corea del Sud ha dato il via libera all’integrazione del proprio sistema di difesa anti-missilistico con lo scudo anti-balistico che gli USA stanno pianificando nella regione, sempre in funzione anti-cinese.
La prima visita di un presidente americano in Malaysia da quasi mezzo secolo a questa parte, infine, ha portato risultati interessanti per gli Stati Uniti, soprattutto alla luce del fatto che questo paese - a differenza degli altri tre inclusi nel tour asiatico di Obama - non è formalmente un alleato di Washington.
Il comunicato ufficiale del governo malese ha cioè sottolineato la propria adesione ai principi avanzati dagli americani in merito alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale, da risolversi attraverso un arbitrato internazionale e non con trattative bilaterali come vorrebbe Pechino.
Obama e il primo ministro Najib Razak hanno poi annunciato un innalzamento del livello delle relazioni tra i due paesi, legati ora da quella che è stata definita come una “partnership completa”, e ribadito la cooperazione militare in essere da tempo. In cambio, l’inquilino della Casa Bianca ha dato la propria legittimazione al governo autoritaro di Kuala Lumpur, rifiutandosi di incontrare il leader dell’opposizione, Anwar Ibrahim, e tacendo sulle più recenti disavventure giudiziarie di quest’ultimo, vittima recentemente di nuovi procedimenti motivati politicamente.
Come è accaduto in occasione delle precedenti tappe del viaggio di Obama nei giorni scorsi, anche lunedì i media cinesi hanno accolto con estrema diffidenza le iniziative degli USA e dei loro alleati, così come le rassicurazioni del presidente che le intenzioni di Washington nulla avrebbero a che vedere con i tentativi di contenere l’espansione di Pechino.Per l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua, dunque, l’accordo difensivo tra gli Stati Uniti e le Filippine sarebbe “allarmante” e potrebbe spingere il governo di Manila ad intraprendere azioni “sconsiderate”. Secondo lo stesso editoriale, “l’amministrazione del presidente filippino Benigno Aquino ha messo in chiaro le proprie intenzioni: cercare il confronto con la Cina grazie all’appoggio degli USA”, rendendo perciò più difficile, “se non impossibile, una soluzione amichevole alle dispute territoriali” in corso.
L’atteggiamento sempre più provocatorio nei confronti della Cina da parte del presidente Aquino è indubbiamente la conseguenza dell’incoraggiamento americano, anche se gli stessi Stati Uniti, nonostante la retorica, continuano ad essere protagonisti diretti di gesti volti a mettere pressioni su Pechino.
Un articolo pubblicato lunedì dal Wall Street Journal, ad esempio, ha rivelato come il Comando USA dell’area Pacifico abbia già preparato una serie di risposte da mettere in atto in caso di “qualsiasi futura provocazione cinese nel Mar Cinese Orientale e Meridionale”.
Le misure previste - che vanno dall’invio di bombardieri B-2 ad esercitazioni di portaerei nei pressi delle coste della Cina - servirebbero anche a rassicurare gli alleati asiatici preoccupati per una possibile azione da parte di Pechino simile a quella russa in Crimea.
Simili “analisi” giornalistiche, così come gli annunci del governo di Washington, tralasciano però puntualmente di spiegare le vere ragioni della crisi ucraina come del vertiginoso aumento delle tensioni in Asia orientale, da ricercare non nelle ambizioni di Russia o Cina, bensì precisamente nella stessa provocatoria politica estera degli Stati Uniti.