- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
L’assalto della Corte Suprema americana ai principali diritti democratici negli Stati Uniti ha fatto segnare un nuovo capitolo questa settimana, con la mancata accettazione da parte del tribunale stesso di un delicatissimo caso relativo ad un noto reporter del New York Times. La vicenda in questione è quella di James Risen, il cui lavoro nel rivelare alcune delle manovre segrete dell’apparato della sicurezza nazionale degli USA potrebbe costargli un lungo periodo dietro le sbarre.
Rifiutandosi di deliberare sul caso “Risen contro Stati Uniti”, la Corte Suprema ha in sostanza confermato la sentenza del luglio scorso di un tribunale d‘Appello della Virginia che si era rifiutato di annullare un ordine emesso nei confronti di Risen per costringerlo a identificare la fonte all’interno del governo americano che gli aveva fornito informazioni riservate.
Il giornalista del Times era entrato in possesso di materiale classificato che descriveva come la CIA avesse cercato di ingannare l’Iran, spingendo i suoi scienziati ad accettare da un doppio agente russo un progetto per un meccanismo di innesco nucleare appositamente alterato. Questa informazione era contenuta in un capitolo del libro di Risen “State of War” del 2006 ed aveva spinto il Dipartimento di Giustizia ad aprire un procedimento penale nei confronti della presunta fonte, identificato nell’ex agente della CIA Jeffrey Sterling.
La causa aveva subito coinvolto Risen ma nel 2011 un giudice federale aveva dato ragione a quest’ultimo, affermando che un processo criminale non rappresentava una sufficiente giustificazione per rivelare le fonti e, nel caso di Sterling, le accuse mosse dal governo potevano essere dimostrate anche senza la testimonianza del giornalista.
L’amministrazione Obama aveva però fatto appello e la già ricordata decisione del tribunale di Richmond, in Virginia, aveva ribaltato il verdetto di primo grado. Due dei tre giudici assegnati al caso avevano cioè sostenuto che il Primo Emendamento della Costituzione americana - che garantisce, tra l’altro, la libertà di parola e di stampa - non può essere applicato ai giornalisti che ottengono notizie riservate e la cui diffusione costituisce un atto criminale.
Risen, perciò, avrebbe potuto essere costretto a testimoniare di fronte ad un Grand Jury nel caso Sterling, dal momento che “un resoconto diretto e di prima mano… sulla condotta criminale oggetto di indagine… non può essere ottenuto con mezzi alternativi”.
La decisione della Corte Suprema di non intervenire nel caso in questione equivale ad un’approvazione sia della sentenza del tribunale d’Appello del 2013 sia della posizione del governo. A differenza dei tribunali inferiori, la Corte Suprema può infatti rifiutare le cause presentate alla propria attenzione senza offrire alcuna spiegazione. La maggior parte dei casi, anzi, viene trattata proprio in questo modo dalla Corte Suprema che può così approvare in maniera tacita i verdetti emessi dai tribunali inferiori senza apparentemente intervenire nel merito.James Risen, da parte sua, ha sempre sostenuto di essere pronto a finire in carcere piuttosto che rivelare il nome della sua fonte. Di fronte alla Corte Suprema, il reporter premio Pulitzer ha affermato che l’attività giornalistica investigativa sulle questioni relative alla sicurezza nazionale potrebbe diventare impossibile se il governo avesse facoltà di costringere a rivelare l’identità delle fonti.
La decisione della Corte Suprema di lasciare inalterata la sentenza della Corte d’Appello di Richmond contro Risen contraddice inoltre una lunge serie di verdetti di vari tribunali americani che, al contrario, in passato hanno riconosciuto il diritto alla protezione garantita dal Primo Emendamento ai giornalisti in relazione alle proprie fonti.
Sia i precedenti verdetti che quello del luglio scorso della Corte d’Appello si sono basati su un’altra decisione della Corte Suprema: “Branzburg contro Hayes” del 1972. In quell’occasione, il supremo tribunale americano aveva in realtà respinto l’interpretazione che il Primo Emendamento possa proteggere tout court i giornalisti dall’obbligo di testimoniare imposto da un Grand Jury.
Tuttavia, uno dei giudici della Corte aveva stilato un parere nel quale invitava i tribunali a trovare “il giusto equilibrio tra la libertà di stampa e l’obbligo di ogni cittadino di fornire la propria testimonianza” se ritenuta “rivelante”.
Per oltre tre decenni, questa sentenza della Corte Suprema è stata interpretata quasi sempre a favore dei giornalisti e a sostegno di un principio democratico fondamentale. Poco dopo il lancio della “guerra al terrore”, però, il clima è cominciato a cambiare anche in questo ambito, così che la stessa sentenza è utilizzata ora sempre più dai tribunali e dal governo per perseguire quei giornalisti e le loro fonti segrete che rivelano notizie riservate, anche se di rilevante interesse pubblico.
Questa involuzione e il conseguente drammatico deterioramento del clima democratico negli Stati Uniti sono confermati anche dal fatto che l’amministrazione Obama continua a condurre una campagna senza precedenti contro le fughe di notizie dall’interno delle agenzie governative. A tutt’oggi, l’amministrazione democratica ha già avviato ben otto procedimenti giudiziari contro presunti responsabili di rivelazioni di informazioni segrete alla stampa, mentre tutte le precedenti amministrazioni combinate si erano fermate a tre.
Consapevole delle resistenze tra la popolazione e la maggior parte dei media contro un simile giro di vite la cui vittima è la libertà di stampa, il Ministro della Giustizia, Eric Holder, proprio settimana scorsa aveva affermato pubblicamente che il suo dipartimento potrebbe non richiedere l’incarcerazione dei giornalisti che si riufiutano di testimoniare.
La dichiarazione è sembrata essere un tentativo di placare le polemiche che sarebbero esplose in seguito all’imminente decisione della Corte Suprema sul caso Risen, peraltro non citato esplicitamente da Holder, anche se essa è stata esposta come una semplice ipotesi e il governo continua a riservarsi il diritto di incriminare i giornalisti che intendono difendere le proprie fonti.
Secondo i principali media americani, comunque, il governo avrebbe mostrato un certo ammorbidimento negli ultimi mesi, come confermerebbe la pubblicazione lo scorso febbraio da parte del Dipartimendo di Giustizia di nuove direttive interne volte a limitare i casi in cui l’accusa nel corso di processi possa costringere i giornalisti a testimoniare.Le nuove norme, in realtà, sono state soltanto l’ennesima manovra diversiva dell’amministrazione Obama, visto che prevedevano il solito compromesso tra le necessità della “sicurezza nazionale e la salvaguardia del ruolo essenziale della libertà di stampa”, concendendo quindi ampia facoltà di interpretazione di una direttiva ufficialmente implementata a favore di quest’ultima.
La battaglia del governo degli Stati Uniti contro giornalisti e fonti di rivelazioni spesso esplosive è d’altra parte risultata più che evidente in questi anni con persecuzioni ai danni, tra gli altri, di Bradley (Chelsea) Manning, Edward Snowden, Julian Assange o John Kiriakou, l’ex agente della CIA processato e incarcerato per avere ammesso pubblicamente il ricorso a metodi di tortura negli interrogatori di presunti terroristi.
La guerra di Washington alla libertà di stampa, infine, era stata palesata clamorosamente anche lo scorso anno, quando era circolata la notizia che il Dipartimento di Giustizia aveva disposto segretamente l’intercettazione delle comunicazioni telefoniche di decine di giornalisti della Associated Press nell’ambito di un’indagine sulla rivelazione di una notizia riservata relativa ad un attentato terroristico sventato dalle autorità.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Carlo Musilli
Jean-Claude Juncker è "un nome, non il nome", secondo Matteo Renzi. Per David Cameron, invece, l'ex premier del Lussemburgo è il più inaccettabile dei conservatori: se sarà lui il prossimo presidente della Commissione europea, la Gran Bretagna dirà addio all'Unione. Stando a quanto riporta Der Spiegel, la minaccia sarebbe arrivata dal primo ministro britannico martedì scorso, durante l'ultimo vertice Ue.
Il numero uno di Downing Street ritiene che la scelta di Juncker "destabilizzerebbe così tanto il suo governo - si legge sul settimanale tedesco - che Londra sarebbe costretta ad anticipare il referendum sulla permanenza nell'Unione europea", e il risultato a quel punto sarebbe certamente favorevole all'uscita, perché "un uomo degli anni Ottanta non può risolvere i problemi dell'Europa di oggi". Questa posizione ieri ha incassato anche l'autorevole sostegno del Financial Times, d'accordo con la necessità di rintracciare un "volto nuovo".
Cameron si sarebbe rivolto in particolare alla cancelliera tedesca Angela Merkel, che però venerdì scorso - dopo qualche esitazione - ha confermato l'appoggio della Germania alla candidatura di Juncker.
In termini generali, le conclusioni cui giunge il premier inglese possono essere condivisibili: dopo essersi riempiti la bocca per mesi di espressioni propagandistiche come "rinnovamento" e "cambio di rotta", i leader europei cadrebbero nella più grottesca incoerenza se scegliessero come presidente della Commissione l'ex numero uno dell'Eurogruppo, un veterano simbolo della nomenclatura che negli ultimi anni ha governato a Bruxelles. Sarebbe come ammettere che ogni cambiamento è possibile soltanto nel magico regno delle vuote ciarle.
D'altra parte, scartare a priori Juncker non è affatto semplice. Era lui il candidato ufficiale del Partito popolare europeo, lo schieramento che - pur avendo perso milioni di voti rispetto alle consultazioni del 2009 - si è classificato primo alle recenti elezioni comunitarie. Spetterebbe quindi a lui il tentativo di creare una nuova squadra di governo a Bruxelles, come ha riconosciuto perfino Alexis Tsipras, candidato dalla sinistra alternativa rappresentata dal GUE.
Negare a Juncker questa possibilità significherebbe far prevalere gli interessi delle cancellerie sul volere degli elettori, che per la prima volta si sono espressi (o avrebbero dovuto esprimersi) sapendo a monte chi fossero i candidati presentati dai diversi schieramenti per la guida della Commissione (in prima linea per il Partito socialista europeo c'era il tedesco Martin Schulz, mentre i liberali avevano mandato avanti il fiammingo Guy Verhofstadt). Che senso ha avuto fare quei nomi se ora basta una manovrina di palazzo vecchio stile per ribaltare tutto?
In ogni caso, stavolta i leader di governo degli Stati membri non avranno l'ultima parola: spetterà a loro il compito d'indicare il nome del nuovo presidente della Commissione, ma l'elezione finale dovrà passare per il voto del Parlamento europeo, il che renderà probabilmente ancora più difficoltoso il superamento degli interessi contrapposti.
Il problema fondamentale riguarda però le alternative. Se non Juncker, chi? Oltre a Cameron si oppongono alla nomina del Ppe l'ungherese Viktor Orban, lo svedese Fredrik Reinfeldt, l'olandese Mark Rutte e il finladese Jyrki Katainen. Nessuno di loro, è evidente, punta all'elezione di qualche più illuminato progressista. Al contrario, per questi signori il non plus ultra sarebbe un ometto scialbo e poco incline al perseguimento dell'ideale comunitario. Il premier britannico, dal canto suo, accentua ogni giorno di più la propria attitudine antieuropea per esigenze di politica interna. Il governo di Londra deve farsi interprete del crescente sentimento di ostilità dell'elettorato nei confronti di Bruxelles se vuole sperare di porre un limite all'avanzata dell'Ukip, partito di estrema destra e acerrimo nemico dell'Ue, che alle elezioni ha registrato un vero e proprio boom (il suo leader, Nigel Farage, ha incontrato Beppe Grillo in vista di una possibile alleanza con M5S nel Parlamento europeo).
Fin qui, i nomi più accreditati al posto di Juncker sono tre: il polacco Tusk, il finlandese Katainen e l'irlandese Kenny, tutti più o meno esplicitamente auto-candidati. La settimana scorsa si è detto perfino che Renzi potrebbe cercare di entrare nella partita proponendo il nome di Enrico Letta, ma si tratta di un'eventualità assai remota.
Nonostante il premier italiano sia anche il segretario del partito più votato d'Europa e dal primo luglio inizi il semestre italiano di presidenza Ue, sulla strada di Letta ci sono almeno due ostacoli insormontabili: primo, il vertice della Commissione è tradizionalmente riservato a Paesi che non rientrano fra le maggiori potenze (il presidente uscente è il portoghese Josè Manuel Barroso); secondo, all'Italia è già stata concessa una casella internazionale d'importanza capitale come la presidenza della Banca centrale europea, in mano a Mario Draghi.
A prescindere dalle qualità personali e al grado d'indipendenza di un candidato alternativo a Juncker, è evidente che la scelta di un nome di compromesso dimostrerebbe ancora una volta quanto il potere europeo sia in mano a un'oligarchia. Dopo aver concesso agli elettori un potere decisionale, si sceglierebbe di sottrarglielo a giochi fatti, ora che la campagna elettorale è finita. Come a dire "abbiamo scherzato". Proprio quello che ci vuole per combattere l'antieuropeismo.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Emanuela Muzzi
Londra. Anche nel Regno Unito la prospettiva di un’alleanza Grillo-Farage ha sollevato polemiche: nonostante la foto della “strana coppia” nessuno crede che MS5 e UKIP si spartiranno poltrone a Strasburgo. Ed il motivo è la sostanziale differenza di vedute dei due partiti, o meglio, dei due movimenti pseudo populsti. Anche il grillino Giuseppe Brescia ha fatto i necessari distinguo:“L’Ukip è un partito xenofobo, il nostro no”.
Ha ragione il parlamentare grillino: infatti l’M5S non è un movimento xenofobo, è un movimento misogino. E questa è una “differenza di vedute” insormontabile. Tra l’anti UE e anti immigrazione Farage e l’antitutto (soprattutto anti-donne del Pd quando avversarie politiche) c’è una differenza ‘filisofica’ di fondo. Il razzismo violento contro gli immigrati dall’Unione europea nel Regno Unito promosso dal capo dell’Independent Party ha una costanza pericolosa che gli è valsa il 29.1% dei voti e 24 poltrone a Strasburgo (il primo partito contro il Labour 25.4%, the Conservatives 24.6%).
E’ un movimento reattivo premiato dagli elettori britannici che credono così di potersi difendere dalla competizione degli skilled workers e colletti bianchi in fuga principalmente da Francia, Polonia, Spagna e Italia; laureati e “masterizzati” preparatissimi che fuggono da crisi, corruzione e pressioni politiche che li schiacciano e li escludono. Se Farage se la prende più o meno apertamente con gli immigrati dei paesi dell’Est è perché è un furbo. Sa molto bene che la retorica sul tasso di delinquenza in Romania (e Bulgaria) ha sempre successo sugli elettori di tutti i livelli sociali; è la retorica vincente per prendere voti.
Chi vive a Londra sa molto bene che gli immigrati più temuti dai British sono quelli che gli stanno di fatto togliendo i posti di lavoro qualificati; nella finanza o nelle banche ad esempio, dove gli italiani sono richiestissimi per il livello di preparazione. Ma anche in ambito medico o della ricerca. Gli inglesi non sono anti europei ed anti immigrazione perchè qualche decina di migliaia di camerieri o commessi italiani o spagnoli scappa dal paese d’origine per sopravvivere; sono contro l’immigrazione qualificata.
Se la prendono con i cittadini UE per un motivo che evidentemente gli esponenti del M5S non sanno e non capiscono nella loro ignoranza sostanziale (e maleducazione formale): ovvero che per la legge britannica non se la possono prendere con i cittadini immigrati provenienti dai paesi del Commonwealth o con persone di razze diverse, ovvero con il colore della pelle diverso. E questo perché c’è una legge molto severa che punisce la discriminazione razziale e che regola ad esempio la distribuzione dei benefit o l’assegnazione dei posti di lavoro; le stesse applications per i posti di lavoro vengono condotte in base a criteri di rappresentanza in percentuale delle diverse etnie e dei generi (maschio-femmina).Ma che vogliate che ne sappiano i grillini di queste cose; per loro basta aprire bocca, fare due battute usando i parametri “culturali” berlusconiani ed è fatta; gli italliani gli vanno dietro, li votano con la stessa coscienza con la quale hanno votato Berlusconi, perché se prima la droga elettorale era la televisione ora è il web, e Grillo, (animale mediatico) lo ha capito molto bene.
Comunque vada, se Farage si mette con Grillo ci guadagna soltanto, dato che le poltrone a Strasburgo sono una questione di numeri, il voto può essere libero, i punti in comune se li inventeranno e così via.
Ma dal punto di vista “italiano” il sodalizio di Grillo con i razzisti xdenofobi di Farage è grave, perché sarebbe un’alleanza contro gli italiani. Un’alleanza in Europa con chi è contro i cittadini italiani pur nascondendolo abilmente e diplomaticamente.
Evidentemente degli Italiani e del Paese a “Beppe” non gliene importa nulla, lo ha dimostrato chiaramente con la vicenda degli insulti alla Presidente della Camera. A Strasburgo sarà il nuovo Borghezio: un MEP di cui vergognarsi.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Le speranze della giunta militare al potere in Egitto di ottenere una qualche legittimità attraverso le elezioni presidenziali di questa settimana sono crollate clamorosamente di fronte all’impressionante manifestazione di sfiducia decretata dalla popolazione nei confronti del nuovo regime. In particolare, l’impopolarità del superfavorito, generale Abdel Fattah al-Sisi, è apparsa in tutta la sua umiliante evidenza dall’infimo livello di partecipazione al voto e dai tentativi disperati del regime sia per convincere gli egiziani a recarsi alle urne sia per manipolare i risultati della consultazione.
Come risultava chiaro da tempo, il vincitore del voto di questa settimana non poteva essere che lo stesso Sisi, alla luce sia del clima intimidatorio creato nel paese sia del fatto che nessun altro candidato appariva sulle schede elettorali se non il nasseriano Hamdeen Sabahi, descritto come oppositore di “sinistra” dai media occidentali.
Quest’ultimo ha così fornito una minuscola parvenza di pluralismo alle elezioni, anche se, secondo i dati del governo, alla fine ha raccolto appena il 3% dei consensi espressi, cioè ancora meno delle schede bianche o nulle (3,7%). Il presidente eletto Sisi, invece, si è aggiudicato addirittura il 93,3% dei voti.
La vera battaglia si disputava però sull’affluenza, come ben sapevano i militari, in grado di schiacciare ogni opposizione politica dopo il golpe contro il governo di Mohamend Mursi e dei Fratelli Musulmani nel luglio scorso ma ben più in difficoltà nel convincere gli egiziani ad esprimere il loro appoggio al regime.
Così, dopo che i due giorni scelti per il voto - 26 e 27 maggio - hanno mostrato seggi praticamente vuoti in tutto il paese, Sisi e la sua cerchia di potere sono finiti nel panico e hanno messo in atto una serie di provvedimenti che hanno evidenziato ancor più il fallimento dell’operazione elettorale. Dapprima è stata creata una nuova festività per prolungare eccezionalmente le operazioni di voto nella giornata di mercoledì, mentre in seguito è stato diffuso l’annuncio che i mezzi pubblici avrebbero trasportato a titolo gratuito gli elettori diretti ai seggi.
Parallelamente, il regime ha minacciato sanzioni di svariate decine di dollari per gli astenuti e i media ufficiali hanno ospitato patetici appelli al voto lanciati da esponenti del governo e da alcuni leader religiosi, sia musulmani sia cristiani copti.
Alla fine, le autorità egiziane hanno fissato il dato dell’affluenza attorno al 47%, un numero già di per sé modesto eppure, con ogni probabilità, gonfiato in maniera consistente. Secondo un anonimo diplomatico occidentale sentito dalla Reuters, ad esempio, i votanti sarebbero stati tra i 10 e i 15 milioni, vale a dire tra il 19% e il 28% dell’elettorato.Seri dubbi sull’attendibilità dei risultati diffusi dalle autorità li ha sollevati anche il Centro Egiziano per gli Studi sui Media e l’Opinione Pubblica (Takamol Masr), i cui ricercatori hanno rivelato al quotidiano indipendente Al-Masry Al-Youm che nei primi due giorni del voto l’affluenza sarebbe stata appena del 7,5%. Il dato più alto - 10,5% - è stato registrato nel governatorato di Qena, nell’Alto Egitto, mentre nella località balneare di Marsa Matrouh solo l’1,2% degli elettori si è recato alle urne tra lunedì e martedì.
Da questi numeri è difficile credere che l’affluenza sia miracolosamente esplosa mercoledì, come confermano i resoconti dei giornali occidentali che hanno continuato a raccontare di seggi deserti anche durante la terza giornata di voto.
Il rifiuto della grande maggioranza degli egiziani a rispondere agli appelli dei militari rappresenta uno schiaffo diretto allo stesso Sisi, il quale in campagna elettorale aveva chiesto un’affluenza pari almeno al 75% per ottenere un mandato popolare sufficientemente solido a legittimare la presa illegale del potere dei militari e le prossime politiche di lacrime e sangue che si prospettano per il paese nordafricano.
I dati governativi riguardanti l’affluenza, sia pure poco credibili, sono inoltre inferiori a quelli registrati nel secondo turno delle presidenziali del giugno 2012 vinte da Mursi, quando votò poco più della metà degli aventi diritto.
Brogli e abusi sono stati comunque numerosi nonostante i risultati abbiano nascosto a malapena la sostanziale umiliazione subita dal regime. Alcuni osservatori inviati ai seggi dallo staff elettorale di Hamdeen Sabahi sono finiti ad esempio agli arresti dopo che era stato loro impedito di monitorare le operazioni di voto e di spoglio.
La disillusione diffusa tra gli elettori è stata ammessa anche dai media occidentali, dove i governi avevano generalmente accettato il voto per la scelta del presidente come meccanismo per normalizzare la situazione egiziana, segnata da mesi di violenze e da una durissima repressione. La mano pesante del regime militare si è fatta sentire soprattutto nei confronti dei Fratelli Musulmani, i cui sostenitori sono stati soggetti ad assassini, arresti e condanne di massa, talvolta alla pena capitale, al termine di processi-farsa.
Allo stesso modo, la repressione ha colpito anche attivisti e membri delle organizzazioni studentesche che avevano animato la rivoluzione anti-Mubarak a inizio 2011 e che, in gran parte, avevano appoggiato i militari nella deposizione di Mursi sull’onda delle proteste popolari contro il governo dei Fratelli Musulmani.
I mesi scorsi, infine, sono stati segnati da una lunga serie di scioperi in molti settori dell’economia egiziana, scaturiti dalle pessime condizioni di lavoro e dal continuo deterioramento del potere d’acquisto dei lavoratori.
Come in molti altri paesi caratterizzati da una situazione economica di grave crisi, anche l’Egitto sotto la guida di Sisi e dei militari sarà chiamato ora ad adottare misure radicali che peggioreranno ulteriormente le condizioni di vita di decine di milioni di persone. Il compito del neo-presidente sarà però decisamente complicato alla luce della vastissima disapprovazione manifestata verso il regime dagli egiziani in queste elezioni.
Il nuovo governo e i militari - la cui posizione dominante nel panorama politico, sociale ed economico dell’Egitto è stata fissata nella Costituzione recentemente approvata - dovranno perciò ricorrere ancor più a metodi dittatoriali che, peraltro, non hanno risparmiato in questi mesi, riportando il paese in una situazione simile a quella dell’era Mubarak.Da Washington non sono ancora giunte reazioni ufficiali significative al voto in Egitto, a conferma probabilmente delle difficoltà americane a far digerire all’opinione pubblica domestica il sostegno ad un processo di transizione verso la “democrazia” rivelatosi ormai come una farsa.
L’amministrazione Obama, dopo avere appoggiato il governo dei Fratelli Musulmani, aveva finito per avallare il colpo di stato contro Mursi di fronte al pericolo delle crescenti tensioni sociali nel paese. Gli USA avevano poi legittimato la giunta militare guidata da Sisi, pur mantenendo pubblicamente un certo atteggiamento critico, vista la durezza della repressione scatenata dal nuovo regime contro i propri oppositori interni, e sospendendo temporaneamente una parte degli aiuti finanziari elargiti annualmente alle Forze Armate egiziane.
L’importanza strategica del Cairo per gli Stati Uniti è però difficile da sopravvalutare e i rapporti con i militari continuano ad essere estremamente solidi. La scommessa della Casa Bianca è perciò quella di ristabilire la piena partneship con l’Egitto una volta stabilizzata la situazione interna e la trasformazione - puramente esteriore - di un regime violento e repressivo in un governo legittimamente eletto.
L’insofferenza degli egiziani manifestata durante il voto che ha portato come previsto alla presidenza il generale Sisi rischia però di creare più di un intralcio alla definitiva normalizzazione dei rapporti bilaterali, lasciando gli americani in bilico tra le proprie esigenze strategiche e la necessità di continuare a ostentare il proprio ruolo di presunti sostenitori dei principi democratici.
- Dettagli
- Scritto da Administrator
- Categoria principale: Articoli
- Categoria: Esteri
di Michele Paris
Soltanto tre mesi fa, i leader di Stati Uniti e Unione Europea erano intenti a condannare con toni molto duri il governo dell’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich per la presunta repressione messa in atto contro i manifestanti anti-governativi nelle strade di Kiev. Oggi, al contrario, da Obama alla Merkel, da Cameron a Hollande, gli sponsor occidentali del regime golpista e del neo-presidente, Petro Poroshenko, l’oligarca uscito vincitore dalle elezioni-farsa di domenica scorsa, si complimentano per le operazioni militari in corso contro i ribelli “filo-russi” nelle regioni orientali dell’Ucraina, risoltesi in un numero di vittime tra i civili già di gran lunga superiore a quello registrato durante gli scontri che avevano preceduto il colpo di stato di febbraio.
L’invio di carri armati, aerei ed elicotteri da guerra era iniziato lunedì in concomitanza con la conquista momentanea dell’aeroporto di Donetsk da parte dei ribelli. L’iniziativa di Kiev si è risolta in un bagno di sangue, con un bilancio povvisorio di un centinaio di morti, di cui almeno la metà civili. Secondo il vice-primo ministro ucraino, Vitaly Yarema, “l’operazione anti-terrorismo continuerà fino a che non rimarrà un solo terrorista sul territorio” del paese, così che ancora mercoledì sono state segnalate incursioni aeree ed esplosioni nella stessa Donetsk, ma anche a Slovyansk e in altre città orientali.
L’escalation decisa a Kiev è coincisa soprattutto con l’esito del voto per le presidenziali, come aveva chiarito lo stesso Poroshenko già nel suo discorso seguito alla difussione dei risultati. Il miliardario ucraino, arricchitosi grazie al saccheggio delle proprietà dello stato dopo il crollo del comunismo, aveva infatti promesso di rinvigorire una campagna anti-terrorismo in fase di stallo, così da spegnere la rivolta in un periodo di tempo calcolabile in “ore” piuttosto che in mesi.
Quello che sta accadendo in Ucraina orientale con l’avallo dell’Occidente conferma quindi come il voto di domenica sia stato precisamente lo strumento non solo per legittimare un regime installato illegalmente e con il contributo decisivo di forze apertamente neo-naziste, ma anche per fornire alle nuove autorità la copertura necessaria a portare a termine un autentico massacro.
A questo scopo viene ripetutamente sottolineato nei media occidentali il solido mandato che il presidente eletto Poroshenko avrebbe ricevuto dai cittadini ucraini. Il 54% delle preferenze ottenute non può però far dimenticare le condizioni in cui il voto ha avuto luogo. Per cominciare, le presidenziali si sono svolte con le operazioni militari già in corso contro i ribelli, condotte sia dalle forze regolari che da milizie di estrema destra giunte in Ucraina orientale da Kiev, reponsabili della morte di oltre 40 “filo-russi” - tra cui donne incinte e bambini - in un singolo cruento episodio registrato il 2 maggio scorso a Odessa.Inoltre, le elezioni si sono tenute alla presenza in territorio ucraino di personale militare e di intelligence degli Stati Uniti con il compito di coordinare la repressione con le autorità di Kiev, nonché nel pieno di un’escalation militare americana e della NATO rivolta contro la Russia che ha interessato svariati paesi dell’ex blocco sovietico e le acque del Mar Nero.
Il voto, infine, è stato sostanzialmente boicottato dalle popolazioni dell’Ucraina orientale, in larghissima misura ostili al nuovo regime di Kiev, nonostante la propaganda ufficiale descriva i disordini in corso come opera di un ristretto numero di separatisti sostenuti da Mosca se non addirittura “terroristi”.
La repressione in atto, in ogni caso, non è diretta solo contro i “filo-russi” ma serve anche a rafforzare il governo e a intimidire tutta la popolazione in vista dell’implementazione delle misure di liberalizzazione dell’economia richieste come condizione per il prestito da 17 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale.
Alle consuete devastanti “riforme” ha fatto riferimento lo stesso Obama nella dichiarazione rilasciata per salutare il successo di Poroshenko. Quest’ultimo, a sua volta, già domenica aveva prospettato iniziative per creare un “ottimo clima per gli investimenti” e ogni altra misura “necessaria ad attirare il business”, presumibilmente inclusa la repressione violenta ai danni dei ribelli anti-governativi.
Sugli effetti delle ricette imposte dal Fondo Monetario e dall’Occidente sembra puntare la Russia, apparsa in questi giorni tutt’altro che intenzionata a forzare la mano nonostante le promesse di Putin di agire in caso di violenze ai danni della minoranza russofona in Ucraina.
In definitiva, le tensioni sociali che saranno provocate, tra l’altro, dall’aumento delle tariffe energetiche, dalla fine dei sussidi statali o dalle privatizzazioni delle compagnie pubbliche - vale a dire tutto ciò che la partnership con l’Unione Europea porterà in dono agli ucraini - potrebbero fare il gioco del Cremlino, provocando nuove proteste contro le autorità di Kiev nel prossimo futuro e, possibilmente, un nuovo riavvicinamento a Mosca.
La Russia, d’altra parte, ha lanciato più di un segnale di disponibilità a cercare un accomodamento con il nuovo regime di Kiev e con l’Occidente, come conferma la decisione di riconoscere il voto di domenica scorsa e le aperture verso Poroshenko. Putin si trova tuttavia sotto pressione vista la mano pesante mostrata dal governo ucraino nei confronti dei ribelli.I leader di questi ultimi nella cosiddetta Repubblica Popolare di Donetsk, proclamata dopo il referendum sull’autodeterminazione dell’11 maggio, hanno infatti chiesto disperatamente l’aiuto di Mosca per fronteggiare gli assalti di Kiev. Il Cremlino, però, a parte le richieste ufficiali di mettere fine alle operazioni militari per lasciare spazio al dialogo, continua a mostrare poco interesse per un’iniziativa simile a quella messa in atto in Crimea o per un qualche coinvolgimento oltreconfine.
La conferma di questa attitudine russa è giunta ancora mercoledì, quando il braccio destro di Putin, Yuri Ushakov, ha sostenuto di non avere ricevuto nessuna richiesta d’aiuto ufficiale dalla Repubblica Popolare di Donetsk. Sempre mercoledì, però, il ministero degli Esteri russo ha fatto sapere di avere ricevuto richieste urgenti di aiuti umanitari da “persone e organizzazioni nelle aree interessate dal conflitto in Ucraina orientale” e ha promesso che il governo di Mosca intende agire in risposta a questo appello.
L’evoluzione della crisi ucraina svela comunque per l’ennesima volta la vera faccia dell’interventismo dei governi occidentali, interessati a promuovere “rivoluzioni democratiche” o a difendere i “diritti umani” solo quando in gioco ci sono i loro interessi strategici, senza alcuno scrupolo nell’assecondare - come nel caso ucraino - massacri di civili per mano di forze neo-fasciste e regimi golpisti o - come in Libia e in Siria - nell’appoggiare più o meno tacitamente organizzazioni legate al terrorismo internazionale.