di Mario Lombardo

Il dibattito attorno alla pena di morte negli Stati Uniti è tornato a riaccendersi in questi giorni in seguito alla raccapricciante esecuzione di un condannato a morte in un carcere dell’Ohio, ucciso da un’iniezione letale dopo quasi mezz’ora di agonia. L’atroce spettacolo andato in scena la settimana scorsa in un braccio della morte nello stato del Midwest è stato dovuto con ogni probabilità all’utilizzo di un nuovo mix di farmaci mai testato in precedenza e a cui le autorità hanno fatto ricorso per ovviare all’indisponibilità delle sostanze comunemente usate fino a poco tempo fa.

L’esecuzione del 53enne Dennis McGuire - condannato per lo stupro e l’assassinio di una donna incinta nel 1989 - era stata autorizzata in maniera definitiva dopo che un giudice distrettuale aveva respinto un ultimo ricorso dei suoi avvocati, preoccupati per i possibili effetti delle nuove sostanze da utilizzare nel caso del loro cliente.

Il via libera del tribunale è avvenuto nonostante la mancanza di certezze sull’efficacia del nuovo metodo che, come previsto da vari esperti, ha infatti causato enormi sofferenze al condannato, risolvendosi di fatto in una “punizione crudele e inusuale” in violazione dell’Ottavo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. In precedenza, anche il governatore dell’Ohio, il repubblicano John Kasich, aveva negato una sospensione della condanna, bocciando un’altra richiesta della difesa, la quale aveva sostenuto che McGuire soffriva di disturbi mentali essendo stato vittima di abusi sessuali da bambino.

Secondo i testimoni presenti, in ogni caso, all’inizio la sua esecuzione era sembrata procedere senza problemi. Dopo alcuni minuti, tuttavia, il condannato ha cominciato a respirare rumorosamente e in maniera affannosa, agitandosi convulsamente e aprendo e chiudendo la bocca in continuazione. Dalle descrizioni non è stato possibile accertare se McGuire fosse cosciente o meno durante la procedura.

Di fronte all’orrore dei suoi familiari, McGuire è stato dichiarato morto dopo ben 26 minuti in un’esecuzione che è risultata la più lunga tra quelle portate a termine in Ohio da 15 anni a questa parte, da quando cioè lo stato ha reintrodotto la pena di morte. Secondo un’esperta legale della Fordham University sentita da Al Jazeera, una normale esecuzione tramite iniezione letale dovrebbe durare dai 2 ai 3 minuti, anche se le condanne eseguite nell’ultimo decennio in Ohio hanno talvolta richiesto fino a 10 minuti.

Ad uccidere Dennis McGuire è stata l’introduzione nel suo corpo di due sostanze, un potente sedativo (midazolam) e un antidolorifico (hydromorphone), in sostituzione dei tre farmaci utilizzati nella procedura standard di quasi tutte le esecuzioni avvenute negli USA in questi ultimi anni (cloruro di potassio, pancuronio e pentobarbital).

Come già anticipato, gli effetti della combinazione dei due nuovi farmaci non sono mai stati testati sull’uomo, mentre i medici avevano ipotizzato proprio il genere di sofferenze patite dal detenuto giustiziato giovedì scorso in Ohio.

Il mix dei tre farmaci era stato abbandonato in alcuni stati dopo che le case produttrici ne avevano interrotto le forniture destinate agli USA perché i loro prodotti erano appunto usati nelle procedure di esecuzione capitale.

Le autorità statali, a cominciare proprio dall’Ohio, avevano allora sperimentato nuovi metodi, ricorrendo in particolare ad un singolo farmaco, come l’anestetico tiopental sodico. L’azienda Hospira, che produceva quest’ultima sostanza in un impianto in Italia, ha però ben presto interrotto le forniture a causa delle normative che in Europa impediscono la vendita di farmaci utilizzati per le condanne a morte.

Successivamente, gli stati americani a corto di farmaci letali hanno optato per il solo pentobarbital, ma anche in questo caso la compagnia produttrice - questa volta danese - ha bloccato le vendite alle autorità degli Stati Uniti. I singoli stati, perciò, hanno iniziato una ricerca affannosa di sostanze legali ed efficaci per giustiziare i loro condannati a morte.

Lo stato del Missouri, ad esempio, ha studiato l’ipotesi di ricorrere al propofol, un altro potente e popolare anestetico, anche se la proposta è stata subito abbandonata per il timore che questa sostanza potesse essere boicottata dai produttori europei, causando problemi di approvvigionamento anche per gli ospedali americani.

La selezione di sostanze adatte alle esecuzioni negli USA è complicata poi dal fatto che qualsiasi cambiamento delle procedure stabilite deve passare attraverso lunghi procedimenti legali e di approvazione, dovendo rispettare la già ricordata norma costituzionale che vieta punizioni crudeli e inusuali.

Il ricorso ai due farmaci che hanno ucciso settimana scorsa Dennis McGuire aveva ottenuto infine l’approvazione dei tribunali, così che le prime esecuzioni del 2014 sono state portate a termine con modalità mai testate in precedenza e con drammatiche conseguenze. Già nel corso della procedura di condanna a morte eseguita un paio di settimane fa in Oklahoma, infatti, il detenuto Michael Lee Wilson, poco dopo la somministrazione dell’iniezione letale, aveva esclamato di sentire il proprio corpo “bruciare”.

Nel solo Ohio, invece, ci sono attualmente 138 detenuti nel braccio della morte e questo stato è uno dei pochi ad avere visto aumentare negli ultimi anni il numero di condannati alla pena capitale. Nel 2013, l’Ohio ha giustiziato 6 detenuti e 5 verranno messi a morte nel 2014, un numero superiore soltanto a Texas e Florida. Già in passato, inoltre, questo stato ha avuto problemi con le esecuzioni, come nel settembre del 2009, quando la condanna di Romell Broom venne interrotta dopo due ore e decine di tentativi di individuare una vena per iniettargli il cocktail letale.

Mentre i familiari di Dennis McGuire hanno fatto sapere di volere denunciare le autorità dello stato dell’Ohio per la disastrosa procedura di esecuzione di giovedì scorso, la ricerca di metodi alternativi ed economici per giustiziare i condannati ha fatto già emergere tendenze fascistoidi negli Stati Uniti.

In particolare, due deputati repubblicani delle assemblee statali di Missouri e Wyoming nei giorni scorsi hanno annunciato la prossima presentazione di leggi per autorizzare le esecuzioni capitali tramite fucilazione. Questo metodo è d’altra parte ancora contemplato in alcuni stati americani, tra cui lo Utah, dove dal 1977 a oggi sono stati fucilati tre detenuti, di cui l’ultimo meno di quattro anni fa.

di Michele Paris

Quella che è stata definita come una significativa proposta di riforma dei programmi di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) da parte del presidente Obama si è in realtà risolta venerdì scorso in una strenua difesa degli stessi metodi da stato di polizia rivelati in questi mesi da Edward Snowden. Ciò che l’inquilino della Casa Bianca ha proposto sono infatti modifche puramente cosmetiche che, in ogni caso, troveranno ostacoli probabilmente insormontabili per esssere implementate.

Nella difesa della NSA e delle persone che vi operano, Obama ha ripetutamente falsificato la realtà dei fatti, ricorrendo talvolta ad una rivoltante retorica patriottica per nascondere il quotidiano calpestamento della privacy dei cittadini di virtualmente tutto il pianeta e la sistematica violazione del Quarto Emendamento della Costituzione americana.

Il presidente democratico ha dato l’impressione di parlare ad un pubblico privo di memoria o di conoscenza dei fatti messi in mostra dalla stampa a partire dalla scorsa estate, ricalcando i comunicati ufficiali della NSA per respingere la tesi che l’agenzia di Fort Meade, nel Maryland, ha esaminato i dati telefonici di ogni americano, ripetendo al contrario la pretesa che essa ha operato esclusivamente per difendere il paese da attacchi terroristici.

Cercando di dare una qualche risposta al crescente disgusto nei confronti del governo degli Stati Uniti, Obama ha poi ostentato una certa preoccupazione per la possibile deriva di programmi di sorveglianza senza precedenti, senza però ricordare come il coordinamento e l’approvazione di essi siano da far risalire, in ultima analisi, alla sua stessa persona e che, senza il contributo di inestimabile valore di Snowden, sarebbero rimasti nascosti al pubblico ancora a lungo.

Le cosiddette proposte scaturite dal discorso tenuto presso il Dipartimento di Giustizia prevedono principalmente il trasferimento dell’archivio contenente i dati telefonici dalla NSA alle compagnie di telecomunicazioni private e la necessità di ottenere un’ingiunzione di un tribunale prima di analizzare le informazioni collegate ad un numero di telefono contenute nel database governativo. Inclusa nelle riforme sarebbe anche la proibizione di spiare i leader di paesi alleati.

In relazione al primo punto - opposto dalle stesse compagnie private - Obama avrebbe dato l’incarico al ministro della Giustizia, Eric Holder, di preparare un piano per il trasferimento dei dati telefonici attualmente nelle mani del governo entro il 28 marzo, data in cui l’autorizzazione della NSA di raccogliere informazioni indiscriminate tramite i programmi di intercettazione dovrà essere rinnovata dal Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC).

All’unilateralità e assoluta segretezza con cui quest’ultimo approva le richieste di intercettazione delle agenzie governative dovrebbe essere messo un rimedio con la nomina di un rappresentante legale teoricamente deputato alla difesa degli individui obiettivo della sorveglianza. Attualmente, questi ultimi non sono messi nemmeno al corrente dei provvedimenti ai loro danni e, se anche ne vengono a conoscenza, non hanno facoltà di renderli pubblici.

Questa iniziativa, come le altre proposte, dovrà comunque essere approvata dal Congresso dove le resistenze risultano enormi. Oltretutto, proprio qualche giorno fa un giudice americano in rappresentanza del circuito dei tribunali federali aveva inviato una lettera aperta al Congresso e alla Casa Bianca, bocciando categoricamente l’eventuale nomina di un “public advocate” di fronte al FISC.

Nel suo discorso Obama non ha poi proposto, come chiedevano in molti, la subordinazione delle cosiddette “lettere per la sicurezza nazionale” all’approvazione di un tribunale. Queste lettere vengono generalmente emesse da agenzie come l’FBI e sono indirizzate alle compagnie telefoniche, le quali sono obbligate a fornire le informazioni richieste sui loro clienti. L’unica modifica avanzata dal presidente sarebbe limitata alla rimozione della proibizione indefinita di parlare pubblicamente delle lettere stesse.

In definitiva, come hanno dovuto ammettere anche i media ufficiali d’oltreoceano, la grandissima maggioranza dei programmi di intelligence gestiti dalla NSA e le facoltà di questa e altre agenzie governative rimarranno inalterati.

Il grado di disponibilità a collaborare da parte del Congresso nell’attuare le modestissime proposte del presidente è stato poi messo in chiaro già nel fine settimana. I presidenti delle commissioni per i servizi segreti di Camera e Senato - rispettivamente il repubblicano Mike Rogers e la democratica Dianne Feinstein - hanno emesso un comunicato congiunto per ribadire l’importanza della raccolta di massa dei metadati telefonici “per identificare rapidamente possibili minacce terroristiche”. A loro dire, inoltre, questi stessi programmi di raccolta dati della NSA risultano “legali ed efficaci” nella loro forma attuale.

L’apparizione di Obama al Dipartimento di Giustizia è stata perciò una semplice operazione di pubbliche relazioni, richiesta da alcuni settori della classe dirigente americana preoccupati per l’impatto negativo sulla popolazione delle rivelazioni di Snowden. Come ha ammesso lo stesso presidente, d’altra parte, le “riforme” proposte servono unicamente a “mantenere la fiducia degli americani e del resto del mondo” nei metodi di sorveglianza del governo di Washington.

Dalle parole pronunciate venerdì, infine, non poteva non trasparire tutto il risentimento del governo USA nei confronti di Snowden per avere rivelato le attività illegali di sorveglianza della popolazione e le menzogne utilizzate per nasconderne la portata e i veri scopi. Obama ha infatti lasciato intendere la sua approvazione per le accuse di tradimento sollevate contro l’ex contractor della NSA, le cui azioni sono state definite come quelle di “un individuo qualsiasi che non approva la politica del governo e che rivela informazioni classificate”, mettendo a rischio “la sicurezza del nostro popolo”.

di Michele Paris

Il referendum-farsa andato in scena questa settimana in Egitto si è risolto, come ampiamente previsto, con una schiacciante approvazione della nuova carta costituzionale scritta dalla giunta militare al potere. Il voto si è tenuto in un clima di intimidazione e repressione del dissenso, risultando in un esercizio che servirà soprattutto a sanzionare in maniera definitiva il ritorno delle forze armate ad una posizione dominante nel paese nord-africano, nonché a lanciare la candidatura alla presidenza del generale Abdel Fattah al-Sisi.

I due giorni di consultazioni nelle giornate di martedì e mercoledì sono stati caratterizzati da una massiccia mobilitazione delle forze di sicurezza del regime, spesso impegnate a convincere gli elettori recatisi ai seggi a votare a favore della costituzione. Durante le operazioni di voto, svariati scontri e proteste animate dai sostenitori dei Fratelli Musulmani sono stati registrati nel paese, con un bilancio complessivo di almeno una decina di morti e oltre 400 arresti.

L’imponente dispiegamento di polizia ed esercito ha confermato le preoccupazioni all’interno del regime per il possibile riesplodere delle proteste nel paese, dove un certo senso di sollievo e gratitudine per i militari dopo la rimozione dell’impopolare Mursi l’estate scorsa aveva lasciato ben presto il posto al malcontento per il ritorno ai metodi dittatoriali dell’era Mubarak.

Dopo la durissima repressione ai danni dei Fratelli Musulmani seguita alla deposizione di Mursi, la giunta militare un paio di mesi fa aveva approvato un nuovo provvedimento per mettere fuori legge qualsiasi manifestazione di protesta organizzata senza l’approvazione delle autorità. Inoltre, durante le settimane precedenti al referendum è stata di fatto impedita la possibilità di fare una qualche campagna per il “No”, tanto che, secondo i media internazionali, sette persone sono state arrestate solo per avere cercato di appendere manifesti elettorali che invitavano a votare contro la costituzione. I media nazionali, inoltre, avevano tutti indistintamente appoggiato il documento voluto dai militari, aggiungendo così la loro voce alla campagna del regime.

In un clima simile, l’unico modo per esprimere l’opposizione alla nuova carta costituzionale è sembrato essere l’astensione. L’affluenza alle urne, nonostante la mancanza di dati ufficiali, è apparsa infatti estremamente debole. Secondo l’inviato al Cairo del New York Times, ad esempio, in molti seggi della capitale la folla di votanti è sembrata nettamente inferiore rispetto al referendum del 2012, così che soldati e agenti di polizia sono stati spesso più numerosi degli elettori stessi.

Il regime aveva sollecitato gli egiziani a recarsi in massa ai seggi elettorali, in modo da ottenere una qualche legittimazione per le proprie azioni dei mesi scorsi. In particolare, i militari intendevano mostrare al paese e alla comunità internazionale che il numero dei votanti in questa occasione sarebbe stato molto più alto rispetto alla consultazione del dicembre 2012, quando per il referendum sulla costituzione voluta dal governo Mursi votò appena un terzo degli aventi diritto. Per la sola giornata di martedì, secondo quanto affermato da un ministro del governo, l’affluenza sarebbe stata del 28 per cento, mentre fonti del ministero dell’Interno hanno stimato quella complessiva attorno al 55%.

Questi numeri, quasi certamente gonfiati, indicano comunque una diffusa insofferenza o, quanto meno, apatia nei confronti della giunta militare al potere. Inoltre, per spiegare il voto di molti che hanno dato parere favorevole alla nuova costituzione, è necessario tenere in considerazione la persistente avversione verso il precedente governo dei Fratelli Musulmani - oltretutto continuamente denigrato dai militari - e il desiderio di ritrovare stabilità nel paese dopo tre anni di caos e tensioni.

In ogni caso, i dati provvisori del voto sono stati pubblicati giovedì dall’organo di stampa del regime Al Ahram, secondo il quale i “sì” avrebbero sfiorato addirittura il 98%. I numeri risultano particolarmente eccezionali in alcuni dei 27 governatorati egiziani, come quello di Luxor, dove i “sì” sarebbero stati oltre 2 milioni contro poco più di 3.500 “no”. I dati definitivi saranno diffusi sabato prossimo, mentre a breve dovrebbe essere emesso un decreto che annuncia le elezioni presidenziali e parlamentari.

La nuova costituzione era stata redatta da una speciale commissione di 50 membri, nominata anch’essa per decreto dal regime. Gli autori della carta appena approvata avevano rimosso alcuni discussi articoli ispirati alla legge islamica voluti dai Fratelli Musulmani, aggiungendo a loro volta delle norme che intendono rafforzare sensibilmente l’influenza di due istituzioni sulle quali si era basato anche il precedente regime di Mubarak: il potere giudiziario e, appunto, le forze armate.

A queste ultime, soprattutto, verrà assegnato uno status del tutto privilegiato e poteri eccezionali per reprimere qualsiasi forma di opposizione o aperto dissenso. Tra gli articoli più inquietanti spiccano quelli che consentono processi di fronte a tribunali militari per i civili e che creano un Consiglio Nazionale per la Difesa dominato dai militari, con il controllo assoluto sui bilanci delle forze armate e a cui spetteranno le decisioni in materia di sicurezza nazionale. Inoltre, i vertici militari avranno facoltà di nominare il ministro della Difesa nei prossimi governi.

Sul referendum di martedì e mercoledì ha così puntato tutto il comandante delle forze armate, generale Sisi, il quale ha poi anticipato la sua candidatura alla presidenza dell’Egitto riferendosi al presunto mandato popolare ottenuto con il voto a favore della costituzione.

L’operazione referendaria fa parte della cosiddetta “road map” appoggiata anche dall’Occidente per ristabilire la “democrazia” nel paese ma, in realtà, consente al regime militare solo di provare a legittimare il sanguinoso colpo di stato del luglio scorso ai anni del presidente Mursi. In quell’occasione, i militari avevano agito sull’onda delle crescenti manifestazioni contro il governo islamista, sostanzialmente per bloccare sul nascere una seconda rivoluzione dopo quella del 2011 contro Mubarak.

Da allora, la giunta militare guidata da Sisi ha fatto più di mille morti tra i Fratelli Musulmani e altri oppositori, appropriandosi nondimeno della retorica rivoluzionaria dei movimenti che avevano dato la spallata all’ex dittatore e presentandosi come l’unica istituzione in grado di garantire la soddisfazione delle aspirazioni democratiche della popolazione.

Ciò è stato possibile soltanto grazie all’appoggio assicurato al golpe militare e alla repressione ai danni dei Fratelli Musulmani da parte delle varie formazioni giovanili, liberali e “di sinistra” che si opponevano al governo Mursi, anch’esse maggiormente spaventate da una mobilitazione popolare contro il sistema che dal ritorno della dittatura.

Nonostante qualche timida critica nei confronti dei metodi sempre più autoritari del regime, infine, gli Stati Uniti e gli altri governi occidentali hanno in larga misura approvato il referendum per la nuova costituzione, assurdamente salutato come l’inizio di un’era di democrazia in Egitto.

Particolarmente significativo appare proprio l’atteggiamento di Washington, dove, in concomitanza con il voto in Egitto, il Congresso ha approvato, all’interno del bilancio federale per l’anno in corso, lo stanziamento di oltre 1,5 miliardi di dollari a favore delle forze armate del paese nordafricano.

Questo finanziamento - erogato annualmente dagli USA al Cairo in cambio dell’allineamento agli interessi americani e israeliani in Medio Oriente - era stato a lungo in dubbio dopo la deposizione di Mursi, poiché una legge degli Stati Uniti proibisce lo stanziamento di fondi a favore di regimi dittatoriali o golpisti.

Per non perdere un alleato fondamentale in un’area cruciale del pianeta, tuttavia, il Congresso americano e la Casa Bianca hanno finito per ignorare le loro stesse leggi, stabilendo che la giunta militare egiziana dovrà soltanto dar prova di seguire la propria “road map verso la democrazia”, di cui il referendum di questa settimana rappresenta appunto una tappa fondamentale.

di Michele Paris

Proprio mentre gli Stati Uniti e i loro alleati stavano terminando un incontro a Parigi per rilanciare la campagna per il rovesciamento del regime in Siria, sulla stampa internazionale è apparsa la notizia che membri dei servizi segreti di alcuni paesi europei si sono recati a Damasco nei mesi scorsi per incontrare esponenti del governo Assad, con i quali avrebbero scambiato informazioni sui guerriglieri jihadisti attivi nel paese mediorientale.

Basandosi su rivelazioni di anonimi funzionari europei e mediorientali, il Wall Street Journal ha pubblicato mercoledì un articolo che conferma ancora una volta l’apparente schizofrenia delle politiche occidentali nei confronti della crisi siriana, divise tra l’appoggio a formazioni fondamentaliste, utilizzate per dare la spallata al regime, e i timori degli effetti collaterali prodotti dal proliferare di gruppi estremisti che potrebbero minacciare gli stessi interessi occidentali.

In particolare, gli incontri andati un scena a Damasco sarebbero serviti alle agenzie di intelligence occidentali per raccogliere informazioni su circa 1.200 jihadisti residenti in Europa e trasferitisi in Siria in questi tre anni per unirsi ai “ribelli” che si battono contro Assad. Le preoccupazioni che hanno spinto i governi di Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna ad intraprendere una simile iniziativa sarebbero legate al possibile ritorno di questi estremisti in patria per organizzare attentati terroristici.

La notizia era stata anticipata martedì da un’intervista rilasciata alla BBC dal vice primo ministro siriano, Faisal Mekdad, il quale aveva rivelato le visite di membri dei servizi segreti occidentali a Damasco ma senza elencare i paesi coinvolti nel dialogo con il regime.

Secondo Mekdad, addirittura, questi incontri sarebbero la prova delle divisioni esistenti tra i rappresentanti politici e i servizi di sicurezza in alcuni paesi che appoggiano l’opposizione anti-Assad. “Francamente”, ha poi affermato il numero due della diplomazia siriana, “la disposizione [di questi paesi] sembra essere cambiata” nei confronti del regime.

All’interno dei governi che avevano puntato tutto sulla rimozione di Assad, infatti, circolano da tempo molti dubbi su una strategia che ha alimentato gravissime violenze settarie con il rischio di destabilizzare l’intera regione e creare un nuovo serbatoio di terrorismo nel cuore del Medio Oriente.

La rivelazione delle visite dell’intelligence europea a Damasco è perciò la conferma dell’esistenza almeno di alcune sezioni delle classi dirigenti occidentali che ritengono i gruppi integralisti dell’opposizione siriana più pericolosi dello stesso regime, in alcuni casi fino a prospettare la riapertura di un qualche dialogo con Assad e la sua cerchia di potere.

Questo ripensamento, inoltre, sembra riguardare ormai anche alcuni paesi mediorientali che avevano appoggiato senza riserve l’opposizione, comprese le formazioni islamiste.

È il caso della Turchia, da dove il presidente, Abdullah Gül, nel corso di un’apparizione di fronte agli ambasciatori accreditati ad Ankara, martedì ha fatto appello al governo del premier Erdogan a ricalibrare la propria strategia siriana, evidenziando la necessità di cercare una strada diplomatica per risolvere la crisi nel vicino meridionale.

Le fonti del Wall Street Journal, come è ovvio, hanno tenuto a sottolineare che lo scambio di informazioni rivelato mercoledì riguarda soltanto la questione degli estremisti legati ad al-Qaeda e “non rappresenta un’apertura diplomatica più ampia”.

Queste rassicurazioni sono rivolte soprattutto all’opposizione “moderata” appoggiata dall’Occidente che sta decidendo se inviare una propria delegazione a Ginevra la prossima settimana per l’apertura dei negoziati di pace con il regime.

I “ribelli” filo-occidentali temono infatti che i loro sponsor stiano preparando una svolta strategica in Siria, basata sull’accettazione della permanenza al potere del presidente Assad nel prossimo futuro, perché considerato come il partner più affidabile per combattere l’estremismo sunnita. Un simile riallineamento trarrebbe origine dalla collaborazione del regime nella distruzione del proprio arsenale di armi chimiche, seguita all’accordo tra USA e Russia del settembre scorso dopo il fallito tentativo americano di scatenare un’aggressione militare contro la Siria.

Anche se le rivelazioni del Journal indicano come i contatti tra il regime e le agenzie di intelligence europee siano recenti, essendo avvenuti tra novembre e dicembre, è difficile stabilire se quella che può essere considerata un modesta apertura verso Assad sia da considerarsi come il percorso che i governi occidentali intendono perseguire nell’immediato futuro.

Infatti, l’inizio del nuovo anno è stato segnato, almeno pubblicamente, da una rinnovata offensiva contro il regime, suggellata ad esempio dai toni minacciosi espressi dagli “amici della Siria” nel fine settimana a Parigi e dall’annuncio americano di volere riprendere la fornitura di aiuti “non letali” all’opposizione siriana. Ciò è coinciso con la guerra scatenata dall’opposizione armata “moderata”, in collaborazione con milizie fondamentaliste, contro un’altra fazione ribelle, l’organizzazione legata ad al-Qaeda denominata Stato Islamico dell’Iraq e della Siria.

La strada dello scontro e quella dell’apertura sembrano in realtà essere seguite parallelamente dai governi occidentali, in modo da scegliere la più opportuna una volta chiarite le potenzialità del vertice “Ginevra II” che dovrebbe partire il 22 gennaio. Un diplomatico occidentale di stanza in Medio Oriente ha infatti confermato al Wall Street Journal che “dopo Ginevra potrebbero esserci delle aperture” verso il regime, sempre che quest’ultimo si mostri disponibile a qualche concessione.

Gli incontri di Damasco, oltre a raccogliere informazioni sul jihadismo esportato in Siria dall’Europa, potrebbero essere serviti anche ad un altro scopo ed esso è legato, come spiega lo stesso articolo del Journal, al tentativo da parte degli “USA e dei loro alleati di creare un governo provvisorio accettabile sia per Damasco che per l’opposizione”.

In questo quadro, l’intelligence europea può avere sondato il terreno in Siria per trovare elementi all’interno del regime disponibili ad un accordo con i “ribelli”, a cominciare dal consigliere speciale per la sicurezza di Assad, Ali Mamlouk, protagonista degli incontri con i rappresentanti dei servizi segreti europei e indicato da un diplomatico occidentale, sentito dallo stesso quotidiano newyorchese, come un “importante candidato di compromesso” per guidare un eventuale governo di transizione.

I governi occidentali citati dall’articolo del Wall Street Journal, in ogni caso, si sono quasi tutti rifiutati di commentare le rivelazioni. Solo un portavoce dell’agenzia per la sicurezza interna spagnola ha confermato che Madrid ha condiviso informazioni con Damasco circa cittadini spagnoli trasferitisi in Siria per unirsi ai gruppi jihadisti.

Anche senza conferme da Londra, Parigi o Berlino, in ogni caso, questi governi - come quello di Washington, che non avrebbe però inviato i propri agenti a Damasco - stanno discutendo da tempo dei pericoli legati ad una delle conseguenze dirette delle loro manovre, vale a dire il ritorno in patria di guerriglieri passati attraverso un processo di radicalizzazione in Siria.

Reclutati nelle moschee delle città europee o americane, i jihadisti con passaporti occidentali raggiungono solitamente il sud della Turchia e, facendo lo stesso percorso delle armi e del denaro destinato ai “ribelli”, oltrepassano il confine siriano per raggiungere gruppi armati che sono stati spesso protagonisti di violenze e soprusi ai danni della popolazioni civile.

Secondo i dati del governo britannico, Londra avrebbe finora privato della cittadinanza una ventina di persone che hanno preso parte al conflitto in Siria. Da Parigi, invece, il presidente Hollande ha affermato proprio martedì che almeno 700 cittadini francesi hanno già lasciato il paese per raggiungere i “ribelli” siriani, mentre un pubblico ministero transalpino ha aggiunto che altre centinaia di persone sarebbero pronte a partire, tutte per combattere una battaglia che ha sostanzialmente lo stesso obiettivo perseguito dai governi dei loro paesi di origine in Occidente.

di Mario Lombardo

Con l’inizio della settimana ha preso il via in Thailandia il blocco della capitale, Bangkok, minacciato dall’opposizione anti-governativa che chiede da mesi le dimissioni immediate del primo ministro, Yingluck Shinawatra, per procedere con una serie di “riforme” del sistema politico. Alle prime manifestazioni di protesta nella giornata di lunedì hanno preso parte più di 100 mila manifestanti, mentre il governo e gli altri centri di potere thailandesi stanno cercando di trovare una soluzione alla crisi che eviti lo scivolamento nel caos di un paese sul quale continua a pesare la minaccia di un nuovo colpo di stato militare.

Il primo giorno della paralisi di Bangkok ha così costretto alla chiusura molte scuole, negozi ed uffici pubblici, alcuni dei quali hanno però riaperto già martedì. Svariate arterie stradali della capitale sono state inoltre occupate dalle manifestazioni, così che la metropoli di quasi 8 milioni di abitanti è apparsa insolitamente priva di traffico in alcune aree del centro.

Sempre martedì, poi, i partecipanti alle proteste, coordinate dal cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), hanno marciato verso i palazzi dei ministeri degli Esteri, del Lavoro e del Commercio, occupandoli simbolicamente ed evacuandoli poco dopo. Le proteste sono rimaste per ora pacifiche, anche se maggiori tensioni potrebbero causare nei prossimi giorni gli eventuali blocchi del quartier generale della compagnia Aerothai, che gestisce il traffico aereo nel paese, e della sede della Borsa, come minacciato da un gruppo allineato al PDRC, la Rete degli Studenti e del Popolo per la Riforma della Thailandia.

Per cercare di calmare gli animi, la premier Yingluck ha invece proposto un incontro tra le varie parti per discutere una recente proposta avanzata dalla Commissione Elettorale di rimandare di un mese le elezioni anticipate previste per il 2 febbraio, indette dallo stesso capo del governo dopo lo scioglimento del Parlamento seguito alle dimissioni di massa dei deputati del Partito Democratico di opposizione.

Il portavoce del PDRC, Akanat Promphan, ha però fatto sapere che la sua organizzazione non parteciperà alla riunione, così come in precedenza il leader dei manifestanti, l’ex vice-premier e già deputato del Partito Democratico, Suthep Thaugsuban, aveva assicurato i suoi sostenitori che non ci sarebbe stato alcun negoziato né compromesso con il governo.

Yingluck, perciò, dopo avere ribadito la sua intenzione di rimanere al proprio posto fino alla data del voto, mercoledì dovrebbe limitarsi ad incontrare i membri della Commissione Elettorale. Il vertice si terrà significativamente presso una base dell’aeronautica thailandese, a conferma del ruolo fondamentale delle forze armate. Queste ultime hanno finora ufficialmente appoggiato la soluzione elettorale pur essendo state protagoniste nel 2006 di un golpe che rimosse dalla guida del governo il fratello dell’attuale premier, Thaksin Shinawatra, al culmine di una crisi dai contorni simili a quella odierna.

A dimostrazione dei timori diffusi tra le forze di governo, un portavoce dell’esecutivo qualche giorno fa aveva parlato di un piano segreto dell’opposizione per provocare un colpo di stato militare tramite la messa in scena di un attacco violento contro gli stessi manifestanti. L’unico episodio riconducibile ad una possibile provocazione è stato per ora registrato nella mattinata di lunedì, quando alcuni colpi di arma da fuoco sono stati esplosi in un locale di fronte alla sede del Partito Democratico a Bangkok.

Episodi simili potrebbero ripetersi in concomitanza con l’escalation della crisi e far scattare un qualche intervento dei militari. Tanto più che settimana scorsa il potente comandante delle forze armate, generale Prayuth Chan-ocha, aveva avvertito che l’esercito è pronto a intervenire per “proteggere il paese” nel caso una delle parti “violi la legge e l’altra risponda con la violenza”.

Rappresentando gli interessi dei tradizionali centri di potere thailandesi - di cui le forze armate fanno parte - gli organizzatori delle proteste di questi mesi hanno d’altra parte come obiettivo un colpo di mano dei militari per rimuovere l’attuale governo, quanto meno se non fosse possibile ottenere la loro principale richiesta.

Quest’ultima, come è ormai noto, è la creazione di un “consiglio del popolo” non eletto e formato da personalità legate agli ambienti reali, al potere giudiziario e agli stessi vertici militari, con il compito di implementare una serie di “riforme” che sradichino l’influenza della famiglia Shinawatra dal sistema politico thailandese e rendano impossibili anche future minacce agli equilibri di potere consolidati.

La colpa dell’ex premier in esilio Thaksin agli occhi dell’opposizione è sostanzialmente quella di avere emarginato i tradizionali detentori del potere in Thailandia, utilizzando metodi sempre più autoritari e al limite della legalità per prolungare la permanenza alla guida del paese e favorire i suoi enormi interessi economici.

Nel mettere in atto questo progetto, il clan Shinawatra ha costruito una solida base elettorale soprattutto nelle aree rurali settentrionali, solitamente emarginate dal sistema e che hanno beneficiato di limitate politiche di riforma sociale, come la creazione di un sistema sanitario virtualmente gratuito.

Proprio il timore di una mobilitazione di queste forze e l’esplosione di uno scontro sociale di vaste proporzione sembra essere stato finora il deterrente di una possibile evoluzione della crisi thailandese verso la dittatura militare o l’imposizione di un governo non legittimato dal voto popolare. Lo stesso governo e i gruppi extra-parlamentari vicini alla famiglia Shinawatra, peraltro, stanno cercando di gettare acqua sul fuoco, così da evitare il ripetersi della crisi del 2010, quando a manifestare contro il governo del Partito Democratico imposto dai militari furono i sostenitori di Thaksin e la loro protesta fu repressa nel sangue.

In quell’occasione, come potrebbe accadere a breve, una parte delle centinaia di migliaia di manifestanti appartenenti alle classi più disagiate cominciò ad avanzare richieste di giustizia sociale che andavano ben al di là del programma politico di Thaksin e della sua cerchia. Anche per questa ragione, dunque, i leader delle cosiddette “camicie rosse” continuano ora ad escludere una mobilitazione contro il PDRC, augurandosi che siano le elezioni a riportare la calma nel paese sotto la guida di un nuovo governo dell’attuale premier.

Anche nel caso le elezioni anticipate dovessero andare regolarmente in porto, però, il partito di governo - Pheu Thai - sarebbe con ogni probabilità esposto agli attacchi di un’opposizione che ha deciso di boicottare le urne. A causa delle manifestazioni di protesta, infatti, il processo di registrazione delle candidature per il Parlamento è risultato incompleto, visto che ne sono state presentate a sufficienza solo per coprire il 94 per cento dei seggi della Camera bassa. La costituzione thailandese richiede invece che la quota minima sia almeno del 95 per cento.

Con un simile scenario, la pressoché certa vittoria del partito Pheu Thai finirebbe al centro di una contesa legale che potrebbe stravolgere l’esito del voto, portando ad un nuovo colpo di stato giudiziario, come avvenne nel 2008 con la rimozione in un’aula di tribunale del governo guidato dai sostenitori di Thaksin.

I tentativi di percorrere questa strada sono d’altra parte già risultati evidenti qualche giorno fa, quando la Commissione Nazionale Anti-Corruzione ha aperto un procedimento legale contro oltre 300 parlamentari - quasi tutti del partito di governo - i quali rischiano il bando da qualsiasi attività politica per avere votato a favore di una modifica alla costituzione per rendere elettivi tutti i seggi del Senato thailandese.

Questa iniziativa, successivamente bocciata dalla Corte Costituzionale, era stata adottata dal governo e, assieme al tentativo di fare approvare un’amnistia che avrebbe consentito a Thaksin di rientrare in patria nonostante la condanna a suo carico per corruzione e abuso di potere, nel mese di novembre aveva innescato le proteste che stanno tuttora agitando il paese del sud-est asiatico.


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