di Michele Paris

Dopo il tracollo elettorale registrato dal Partito Socialista (PS) nel voto amministrativo in Francia, il presidente François Hollande ha operato come previsto un immediato cambio di governo, liquidando il primo ministro Jean-Marc Ayrault. L’inquilino dell’Eliseo ha tratto però le conseguenze più nefaste possibili dall’appuntamento con le urne caratterizzato dall’ascesa del Fronte Nazionale, dal momento che le aspettative degli elettori per politiche progressiste mai materializzatesi in questi due anni sono state nuovamente ignorate con la promozione a premier di uno dei ministri più a destra del gabinetto uscente.

A determinare la perdita di ben 155 comuni francesi con più di 10 mila abitanti in mano ai socialisti è stata in larghissima misura l’adozione e la programmazione a livello nazionale di “riforme” che hanno gettato le basi per il drastico ridimensionamento del welfare relativamente generoso d’oltralpe. A ciò vanno aggiunte le decine di miliardi di euro in benefici fiscali offerti alle aziende francesi, da recuperare con ulteriori tagli alla spesa sociale, come fissato nel cosiddetto “Patto di Responsabilità” recentemente firmato dagli industriali e da alcune organizzazioni sindacali sotto gli auspici del presidente e del governo.

Dal momento che il non esattamente brillante candidato Hollande era stato premiato nelle presidenziali del 2012 grazie all’impopolarità di Nicolas Sarkozy e alla promessa di sia pure modeste iniziative di stampo progressista, il PS è stato inevitabilmente punito nelle elezioni conclusesi domenica scorsa per avere sostanzialmente proseguito il percorso della destra sotto la spinta dell’Unione Europea e degli ambienti finanziari internazionali.

Nella serata di lunedì, Hollande ha parlato in diretta TV, affermando di avere “personalmente ricevuto il messaggio degli elettori”, per poi annunciare la nomina a nuovo capo del governo del ministro dell’Interno, Manuel Valls, autentica incarnazione della deriva conservatrice degli ultimi decenni del Partito Socialista e delle formazioni socialdemocratiche occidentali.

Non conoscendo l’affiliazione politica di Valls, risulterebbe infatti difficile distinguere il neo-premier francese da un esponente della destra ultra-liberista con tendenze autoritarie se non addirittura razziste. Valls fa parte dell’ala destra del Partito Socialista e ammira apertamente la disastrosa esperienza politica del “New Labour” di Tony Blair, al quale viene spesso accostato.

Le sue posizioni in ambito economico e sulle questioni della sicurezza interna erano emerse già nel corso delle primarie per le presidenziali francesi vinte da Hollande. Nonostante in quell’occasione giunse quinto su sei candidati alla nomination per l’Eliseo, raccogliendo un misero 6%, Valls utilizzò la vetrina come trampolino di lancio della sua carriera politica, ben consapevole dell’utilità di figure dalle credenziali reazionarie in un quadro politico sempre più spostato verso destra.

Valls fu ad esempio molto critico nei confronti della settimana lavorativa di 35 ore, introdotta anni prima sempre da un governo socialista, mentre più in generale manifestò la volontà di procedere con la “modernizzazione” del partito, esemplificata dalla sua proposta di cambiare il nome stesso, togliendo l’aggettivo “socialista” così da mettere fine alla pretesa puramente formale del riferimento al socialismo, definito dal neo-premier francese come un pensiero “obsoleto” e “da diciannovesimo secolo”.

Sul fronte delle politiche legate alla sicurezza, inoltre, nel corso del suo incarico a ministro dell’Interno Manuel Valls ha promosso un rafforzamento dei poteri degli organi di polizia, rispecchiando tra l’altro la parabola dell’ex presidente Sarkozy prima della sua elezione a Capo dello Stato. Particolarmente controverse sono state poi le sue posizioni sui Rom, i cui campi ha continuato a smantellare per poi dichiarare che i membri di questa minoranza etnica che vivono in Francia avrebbero dovuto essere deportati in massa perché “non assimilabili”.

Proprio l’atteggiamento dell’appena nominato primo ministro su tali questioni chiarisce ancora una volta la risposta del tradizionale establishment politico francese alla crescita dell’estrema destra, affrontata cioè incorporando nei propri programmi e nella propria retorica alcuni dei temi cari a quest’ultima, provocando inevitabilmente un ulteriore spostamento a destra del baricentro politico.

Non a caso, d’altra parte, uno dei dati più significativi delle amministrative secondo i media ufficiali francesi sarebbe lo scardinamento del sistema bipolare che vede alternarsi al potere i socialisti e i gollisti dell’UMP (Union pour un Mouvement Populaire), con l’irruzione a pieno titolo del Fronte Nazionale nel panorama politico transalpino.

Una simile evoluzione comporta tuttavia la legittimazione delle istanze neo-fasciste del movimento fondato da Jean-Marie Le Pen e, nuovamente, contribuisce allo spostamento verso destra dell’asse politico generale.

Sul fronte economico, la scelta di Valls dimostra invece quali siano i punti di riferimento di Hollande, vale a dire Bruxelles e i circoli finanziari piuttosto che gli elettori francesi. Il licenziamento del governo Ayrault e la nomina al suo posto di un ministro tra i più convinti sostenitori delle “riforme” di libero mercato intendono rispondere infatti ai malumori espressi per la mancanza di decisione con cui Parigi ha finora condotto gli attacchi alla spesa pubblica e alle condizioni di vita dei lavoratori.

Come ha spiegato il Financial Times, d’altra parte, la Francia è sotto pressione per rimettere in ordine le proprie finanze, visto oltretutto che ha già ottenuto dall’Unione Europea due anni di tempo in più - fino al 2015 - per ridurre il deficit di bilancio al 3% del PIL, attestato ora al 4,3%.

Prevedibilmente, la notizia dell’arrivo di Valls all’Hôtel Matignon ha suscitato le proteste dei partiti a sinistra del PS. Secondo Libération, ad esempio, Jean-Luc Mélenchon, Pierre Laurent e Olivier Besancenot - leader rispettivamente del Partito della Sinistra (Parti de Gauche, PG), del Partito Comunista Francese (PCF) e del Nuovo Partito Anticapitalista (Nouveau Parti Anticapitaliste, NPA) - hanno definito la nomina decisa da Hollande un “tradimento” e hanno poi fatto appello ai Verdi (Europe Écologie-Les Verts, EE-LV) ad abbandonare il governo per costruire insieme un’alleanza alternativa.

Il riferimento al “tradimento” è legato al fatto che queste formazioni avevano appoggiato nel 2012 la candidatura alla presidenza di Hollande, alimentando nell’elettorato l’illusione di potere esercitare pressioni sul governo socialista, così da convincerlo ad adottare una serie di politiche progressiste.

Due anni più tardi, con la scelta di Manuel Valls per guidare un governo nominalmente socialista e i successi elettorali del Fronte Nazionale, la realtà francese vede tuttavia un netto dominio delle forze di destra, con prospettive ancora più cupe in vista dell’imminente voto per il Parlamento europeo.

di Mario Lombardo

Nonostante gli scandali che negli ultimi mesi hanno messo seriamente in crisi il governo islamista turco, il partito del primo ministro, Recep Tayyip Erdogan, ha incassato una netta vittoria nelle elezioni amministrative andate in scena nella giornata di domenica. Il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) ha addirittura incrementato la quota di consensi ottenuta nella precedente tornata elettorale del 2009, anche se ha ceduto terreno rispetto alle parlamentari di quattro anni fa, confermando un qualche riflesso negativo dovuto ai problemi del premier e al tempo stesso la sostanziale incapacità da parte dell’opposizione secolare di capitalizzare le tensioni che stanno attraversando il paese euro-asiatico.

L’AKP ha superato il 45% su scala nazionale, vale a dire più di 6 punti in più rispetto alle ultime amministrative, mentre quasi 5 punti sono stati invece persi dal partito di Erdogan dal 2011 a oggi. I due principali partiti di opposizione hanno fatto segnare solo modesti miglioramenti, con il CHP (Partito Popolare Repubblicano) che ha sfiorato il 28% (+ 2% rispetto al 2011) e la formazione di estrema destra MHP (Partito del Movimento Nazionalista) che è salita al 15% (+2%).

Sul voto di domenica, Erdogan aveva investito buona parte del proprio capitale politico e, pur non apparendo sulle liste elettorali, era stato protagonista della campagna del suo partito, chiedendo ai turchi di non lasciarsi influenzare da procedimenti giudiziari e rivelazioni della stampa, definiti come un tentativo di abbattere in maniera anti-democratica il governo in carica.

L’obiettivo della battaglia di Erdogan era e continua a rimanere il movimento islamista Hizmet del predicatore e accademico Fethullah Gülen, residente negli Stati Uniti da dove controlla un vasto numero di istituzioni scolastiche e, secondo molti, mantiene contatti molto stretti con ambienti della magistratura turca, responsabile dell’avvio di svariati procedimenti giudiziari per corruzione ai danni di membri del governo.

Contro l’ex alleato Gülen e i suoi fedeli il primo ministro ha tuonato nella serata di domenica nel corso di un discorso ad Ankara poco dopo la diffusione dei primi risultati. Con tono minaccioso che prospetta una resa dei conti nel prossimo futuro, Erdogan ha affermato che “domani ci saranno alcuni che fuggiranno”, ma “li seguiremo fin nelle loro caverne… ed essi pagheranno per le loro azioni”.

Un’ulteriore accelerazione autoritaria potrebbe così essere all’ordine del giorno in Turchia dopo la legittimazione elettorale ottenuta dall’AKP. Ciò farebbe seguito non solo alla repressione delle proteste anti-governative esplose fin dall’estate scorsa in molte parti del paese, ma, ad esempio, anche alla legislazione che assegna all’esecutivo maggiori poteri sulla magistratura e di controllo su internet, nonché alla più recente chiusura di Twitter e YouTube. Quest’ultimo sito è stato bloccato a causa della diffusione settimana scorsa di un filmato nel quale diplomatici e membri dell’intelligence discutono l’ipotesi di pianificare un finto attacco contro gli interessi turchi in Siria, così da giustificare un’aggressione militare contro Damasco.

La vittoria dell’AKP, in ogni caso, non ha potuto nascondere le tensioni nel paese, confermate dagli scontri in alcune province nel giorno del voto che hanno fatto addirittura una decina di morti. La Turchia d’altra parte rimane estremamente polarizzata, con ampi settori della popolazione sempre più ostili al governo di Ankara, soprattutto tra i più giovani e la borghesia urbana tradizionalmente secolare, risentita, tra l’altro, dall’ondata islamista che ha investito il paese da un decennio a questa parte.

L’AKP, infatti, utilizza l’arma della religione per mobilitare le classi tradizionalmente più emarginate nella storia della Turchia repubblicana, prospettando loro un’emancipazione che, in realtà, si è tradotta più che altro nell’arricchimento relativo di una nuova borghesia islamista e - smisurato - di una ristretta cerchia di imprenditori legati al partito, tra cui gli stessi membri della famiglia Erdogan.

I timori del governo per una batosta elettorale erano in ogni caso diffusi, come dimostra sia l’isteria del premier e dei suoi uomini alla vigilia del voto sia i probabili brogli che, pur non avendo alterato l’esito finale, sono stati segnalati in moltissimi seggi.

Ad Ankara, poi, l’esito della corsa per la carica di sindaco rimane in bilico, con i due principali candidati divisi da una manciata di voti che si sono dichiarati entrambi vincitori. Il CHP - il cui candidato, Mansur Yavas, sfidava il sindaco uscente dell’AKP, Melih Gökcek - ha annunciato un’azione legale per un riconteggio dei voti dopo che gli ultimi risultati avevano evidenziato un leggero margine di vantaggio per l’AKP.

La posta in gioco era molto alta anche a Istanbul, dove Erdogan stesso aveva ricoperto la carica di sindaco negli anni Novanta e il partito del fondatore della Turchia moderna, Mustafa Kemal “Atatürk”, cercava di dare una spallata all’AKP per gettare le basi di una riscossa nazionale. Anche qui i due candidati con il maggior numero di voti hanno rivendicato il successo alla chiusura delle urne ma nelle ore successive il margine a favore dell’AKP è andato allargandosi.

Il CHP, dunque, non è stato in grado di intercettare i sia pur presenti segnali di declino della popolarità di Erdogan e dell’AKP, continuando ad essere visto invece come il partito delle élite secolari turche ed una minaccia alla libera espressione della religione islamica tra la popolazione più osservante.

Il suo leader, Kemal Kiliçdaroglu, ha da parte sua escluso che la prestazione del partito sia stata un fallimento, ammettendo però in un’intervista rilasciata al quotidiano Hürriyet che gli sforzi fatti in campagna elettorale per fare in modo che “le masse non si sentissero alienate” sono stati tutt’altro che convincenti.

Le attenzioni dei media turchi ed occidentali si stanno comunque già concentrando sulle prossime mosse di Erdogan, il quale dovrà decidere se partecipare alle elezioni presidenziali della prossima estate oppure se intenderà candidarsi per un quarto mandato alla guida del governo nel voto per il rinnovo del parlamento nel 2015. Quest’ultima scelta appare a molti la più probabile alla luce dei risultati delle municipali di domenica, anche se una nuova candidatura di Erdogan a primo ministro dovrà essere preceduta da una modifica delle regole interne al partito che prevedono un massimo di tre incarichi per i propri membri.

Al di là dei risultati elettorali e dei toni trionfalistici di Erdogan, la posizione del governo continuerà con ogni probabilità ad essere precaria nei prossimi mesi, così come minaccia di protrarsi ulteriormente l’instabilità politica. Ciò è dovuto in primo luogo all’evolvere dei guai giudiziari di vari esponenti del governo ma anche al deteriorarsi di un’economia a lungo indicata come modello da seguire per i paesi emergenti e ora in evidente affanno anche a causa dell’altissimo livello di indebitamento del paese e del proprio settore privato.

Inoltre, le sconsiderate scelte di politica estera di Erdogan e del suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu, hanno messo la Turchia in una posizione delicata, in particolare riguardo la crisi in Siria. Ankara ha appoggiato infatti fin dall’inizio e in maniera decisa l’opposizioni anti-Assad, finendo per importare la minaccia fondamentalista alimentata oltre il confine meridionale e rischiando di entrare direttamente in un conflitto rovinoso contro la volontà della grande maggioranza della popolazione.

Il governo Erdogan, poi, aveva appoggiato in pieno il nuovo regime dei Fratelli Musulmani in Egitto, subendo perciò una grave umiliazione in seguito al colpo di stato militare che nel luglio scorso al Cairo depose il presidente Mohamed Mursi e diede vita al riallineamento strategico nella regione.

A ciò deve aggiungersi infine la posizione di relativa indipendenza mostrata dalla Turchia riguardo le relazioni con l’Iran, mantenute in buona parte sia a livello diplomatico che economico. Il rapporto con Teheran ha contribuito ad alterare almeno in parte i rapporti con gli Stati Uniti, tanto che in molti ritengono che a Washington ci sia ben poca opposizione alla campagna di destabilizzazione condotta dal movimento di Fethullah Gülen ai danni del governo dell’AKP in questi mesi.

di Michele Paris

A quasi un anno di distanza dalle bombe alla maratona di Boston, che fecero tre morti e centinaia di feriti, i punti oscuri e gli interrogativi circa i responsabili, i testimoni e l’eventuale coinvolgimento del governo americano rimangono tuttora irrisolti. In particolare, la morte per mano dell’FBI del 27enne ceceno Ibragim Todashev, amico dei fratelli Tsarnaev, accusati di essere i responsabili dell’attentato, continua a rimanere avvolta nel mistero anche dopo le recenti indagini giornalistiche e la pubblicazione di due rapporti ufficiali da parte delle autorità americane.

Immigrato dalla Russia ed appassionato di arti marziali, Todashev è stato assassinato al termine di un interrogatorio di quasi cinque ore nella notte tra il 21 e il 22 maggio dello scorso anno nel suo appartamento di Orlando, in Florida. Il giovane era finito al centro delle indagini sugli attentati di Boston a causa dei suoi legami con Tamerlan Tsarnaev, il maggiore dei due fratelli ceceni, ucciso in uno scontro a fuoco con la polizia pochi giorni dopo le esplosioni.

Secondo la ricostruzione ufficiale, Todashev aveva confessato agli agenti che lo stavano interrogando di essere coinvolto nell’omicidio di tre spacciatori, avvenuto l’11 settembre 2011 a Waltham, nel Massachusetts. In questo crimine sembrava avere avuto un ruolo lo stesso Tamerlan Tsarnaev, anche se le autorità, per ragioni tutt’altro che chiare, non avevano indagato a fondo, nonostante i legami molto stretti di quest’ultimo con gli assassinati.

In ogni caso, l’interrogatorio sarebbe ad un certo punto degenerato e l’unico agente dell’FBI presente nell’appartamento, per evitare di essere aggredito da Todashev, ha sparato sette volte con la sua pistola senza lasciargli scampo.

Dopo dieci mesi di indagini, questa settimana un procuratore dello stato della Florida, Jeffrey Ashton, ha finalmente reso pubbliche le sue conclusioni. Oltre a scagionare l’agente dell’FBI che ha ucciso Todashev, il rapporto mostra una serie di contraddizioni che si scontrano sia con i risultati di un’altra indagine del Dipartimento di Giustizia, sia con le ricerche estremamente approfondite condotte dal giornalista americano Dave Lindorff per il magazine on-line Counterpunch.

Innanzitutto, il procuratore Ashton sembra essere giunto a conclusioni diverse da quelle suggerite dalle informazioni raccolte dagli stessi investigatori del suo ufficio e da quelle fornite dal coroner di Orlando, il cui rapporto è stato peraltro tenuto nascosto al pubblico dietro richiesta dell’FBI.

Le dichiarazioni seguite alla morte di Todashev delle due persone che erano nella stanza con l’interrogato - il già ricordato agente speciale dell’FBI di Boston e un agente della polizia dello stato del Massachusetts - sono ad esempio contrastanti in svariati punti. Secondo l’agente della polizia statale, attorno alla mezzanotte, Todashev avrebbe acconsentito a rilasciare una deposizione per confessare il suo coinvolgimento nel triplice omicidio del 2011, quando improvvisamente si sarebbe messo a gridare, avrebbe ribaltato il tavolo del soggiorno sul quale l’uomo dell’FBI stava scrivendo, per poi correre verso il breve corridoio che conduce alla porta d’ingresso.

Qui, Todashev avrebbe impugnato un bastone della lunghezza di un metro e mezzo che si trovava contro il muro vicino alla porta, scagliandosi poi contro lo stesso agente di polizia. A quel punto, il collega dell’FBI avrebbe sparato a Todashev, il quale è dapprima caduto sulle ginocchia e poi si è rialzato caricando nuovamente. Altri spari sono subito seguiti, finché il sospettato è crollato senza vita sul pavimento.

La versione dell’agente dell’FBI presentava invece i fatti in maniera parzialmente diversa su alcuni particolari cruciali. L’agente speciale sostenne cioè che, mentre stava scrivendo la deposizione, si è sentito colpire nella parte posteriore della testa da Todashev, il quale subito dopo è corso verso la cucina cercando in maniera concitata un’arma o un qualche strumento nei vari cassetti.

Nel frattempo, l’agente dell’FBI aveva estratto la sua pistola e intimato inutilmente a Todashev di alzare le mani. Il ceceno, verosimilmente con un coltello, è poi tornato nel soggiorno per aggredire gli agenti e quello dell’FBI ha sparato tre o quattro colpi mandandolo a terra. Todashev si è però rialzato e i colpi successivi lo hanno messo definitivamente fuori gioco.

Le due versioni riportano comportamenti diversi da parte di Todashev, ma quella finale dell’FBI le combina entrambe in maniera sospetta e tutt’altro che trascurabile vista la rilevanza del caso, descrivendo il sospettato intento a cercare un’arma dei cassetti della cucina per poi lanciarsi sugli agenti in soggiorno con un bastone di metallo che, tuttavia, secondo la testimonianza del poliziotto si trovava nel corridoio.

Ancora più controversa appare la ricostruzione relativa alla sequenza dei colpi esplosi. Todashev è stato colpito sette volte, di cui tre alla schiena. Se, perciò, almeno uno dei due resoconti degli agenti dovesse corrispondere al vero, Todashev deve essere stato colpito di fronte, così che i primi quattro colpi, come spiega il rapporto del medico legale, hanno perforato l’aorta e il ventricolo sinistro. In questo caso, se anche il 27enne ceceno avesse trovato la forza di rialzarsi per tornare ad attaccare gli agenti, è estremamente improbabile che possa essersi diretto verso la porta d’ingresso, come suggeriscono gli spari alla schiena.

Uno dei sette spari, come appare dalle immagini dell’autopsia, ha inoltre colpito Todashev nella parte superiore della testa. Questo sparo, vista l’ovvia letalità, deve essere stato necessariamente l’ultimo e difficilmente può essere giustificato con le ricostruzioni delle versioni ufficiali, sembrando piuttosto un colpo finale per assicurarsi della morte del sospettato quando era già a terra agonizzante.

Dalle immagini scattate nell’appartamento dopo le analisi dell’FBI e fornite a Lindorff dalla suocera di Todashev, si nota poi come le uniche macchie di sangue visibili siano lontane dal tavolo del soggiorno dove l’interrogatorio e il tentativo di aggressione ai danni dell’agente dell’FBI avrebbero avuto luogo. Il sangue si trova invece all’inizio del corridoio che conduce all’ingresso e anche i muri risultano privi di macchie, rendendo verosimile concludere che Todashev sia stato colpito solo quando si trovava in quella zona dell’appartamento e, forse, quando già era a terra.

Secondo l’investigatore privato assunto dalla famiglia Todashev per indagare sull’assassinio ci sarebbe un altro fatto inquietante. Il muro al di sopra delle macchie di sangue presentava cioè una parte dalla quale sembrava essere stata rimossa una pallottola. Se ciò fosse vero, l’FBI avrebbe chiaramente manomesso la scena del crimine. I sospetti in questo senso sono supportati dal fatto che lo stesso “Bureau” giunse nell’appartamento di Orlando poco dopo la sparatoria - attorno alla mezzanotte e mezza del 22 maggio - e consentì l’ingresso per i rilievi all’ufficio del medico legale solo attorno alle due del mattino.

Queste circostanze hanno spinto la suocera di Todashev a sostenere apertamente che il genero è stato assassinato in maniera deliberata mentre stava cercando di fuggire dall’appartamento e non in prossimità del tavolo del soggiorno dove stava avvenendo l’interrogatorio.

Lindorff spiega inoltre un’altra incongruenza delle versioni ufficiali, questa volta in relazione ai metodi di indagine dell’FBI. Dal momento che la procedura comune della polizia federale nel corso degli interrogatori prevede la presenza di almeno due agenti, appare insolito che il sospettato di un triplice omicidio che stava per confessare le sue responsabilità fosse lasciato con un solo agente (oltre al poliziotto del Massachusetts). Questa pratica è dovuta al fatto che l’FBI non registra i propri interrogatori e, quindi, un secondo agente deve confermarne il corretto svolgimento.

Nella serata del 21 maggio scorso, in realtà, era presente un secondo agente dell’FBI, ma quest’ultimo si era assentato dall’appartamento e si trovava all’esterno dell’edificio con il compito di intercettare e bloccare l’ingresso di un amico di Todashev, Khusen Tamarov. Tamarov, come avrebbe egli stesso spiegato successivamente in varie interviste, era stato chiamato dall’amico per assistere all’interrogatorio dell’FBI perché Todashev temeva che “qualcosa di brutto stava per succedergli”.

Quando Tamarov arrivò presso l’abitazione di Todashev, l’agente che lo attendeva in strada lo invitò ad andarsene, accompagnandolo anzi ad un ristorante lontano dall’appartamento che era solito frequentare. Successivamente, non avendo ottenuto risposta ad alcuni SMS inviati all’amico, Tamarov tornò verso la casa di Todashev, ormai presidiata dalle auto della polizia.

La testimonianza di Tamarov non è comunque rientrata nelle indagini del procuratore Ashton perché all’amico di Todashev, dopo essersi recato in Russia per assistere al suo funerale, è stato impedito di rientrare negli Stati Uniti nonostante in possesso di regolare Carta Verde e senza alcun precedente penale.

Altri amici e membri della famiglia di Todashev hanno subito lo stesso trattamento nei mesi scorsi, deportati cioè nei loro paesi di origine o infastiditi dall’FBI. La fidanzata e convivente di Todashev, Tatiana Gruzdeva, venne ad esempio arrestata lo scorso ottobre in seguito ad una sua visita all’ufficio immigrazione di Orlando, dove intendeva chiedere i documenti necessari per lavorare negli USA.

La giovane moldava è stata poi sommariamente deportata in Russia malgrado il suo permesso per rimanere negli Stati Uniti sarebbe scaduto di lì a dieci mesi. Secondo la stessa Gruzdeva e i suoi legali, le autorità americane avrebbero motivato l’espulsione con i contatti che quest’ultima ha intrattenuto con la stampa dopo i fatti di Boston e la morte di Todashev.

Alla luce delle circostanze relative ai fatti descritti, nonché dei silenzi e dei tentativi di insabbiamento della verità da parte dell’FBI, del Dipartimento di Giustizia e dell’ufficio del procuratore della Florida, è più che legittimo sospettare che dietro alla morte di Todashev e agli stessi eventi legati alle bombe di Boston ci siano questioni a dir poco esplosive.

Per cominciare, la pericolosità di Tamerlan Tsarnaev era stata segnalata più volte dai servizi segreti russi e sauditi, i quali avevano messo in evidenza come il più vecchio dei due fratelli accusati dell’attentato avesse legami con i fondamentalisti islamici attivi in Cecenia e nel Daghestan.

Ciononostante, gli americani non fecero nulla per impedire nel 2012 un viaggio di Tsarnaev proprio nel Caucaso, dove con ogni probabilità ebbe contatti con questi ambienti estremisti. L’FBI, oltretutto, aveva già indagato Tsarnaev in relazione agli omicidi del 2011 a Waltham, nel Massachusetts, ed era anche finito su una lista di osservati speciali per possibili legami con il terrorismo internazionale. Di tutto ciò, però, la polizia di Boston non è mai stata messa al corrente, anche se nelle settimane precedenti il 15 aprile 2013 erano circolati avvertimenti di possibili attentati in occasione della importante maratona.

Un altro punto poco o per nulla indagato dai media potrebbe risultare rivelatore. Uno zio dei fratelli Tsarnaev, Ruslan Tsarni, è stato cioè il fondatore del Congresso delle Organizzazioni Internazionali Cecene (CCIO), nient’altro che una copertura della CIA per fornire armi ai ribelli della repubblica autonoma russa nel Caucaso.

La sede del CCIO risultava essere presso un indirizzo di Rockville, nel Maryland, corrispondente all’abitazione di Graham Fuller, vice-direttore del Consiglio per l’Intelligence Nazionale della CIA durante la presidenza Reagan e agente segreto operativo in molti paesi, tra cui Afghanistan, Yemen e Arabia Saudita, prima di lasciare ufficialmente l’agenzia nel 1988 a causa del suo coinvolgimento nello scandalo Iran-Contras. A conferma dei legami tra Tsarni e Fuller, entrambi hanno poi confermato che la figlia di quest’ultimo era stata sposata con lo zio dei fratelli Tsarnaev negli anni Novanta.

Come è quasi sempre accaduto in occasione di minacce di terrorismo sventate o portate a termine negli Stati Uniti nell’ultimo decennio, anche le bombe di Boston sono state dunque opera di individui che il governo conosceva molto bene.

Ciò spinge a pensare che l’attentato possa essere il risultato di un’operazione sfuggita di mano all’FBI e che i rapporti dei fratelli Tsarnaev o dello stesso Todashev con il fondamentalismo ceceno siano stati utilizzati dal governo USA per i propri obiettivi strategici, verosimilmente in funzione anti-russa. Tanto più che i tre ceceni avevano ottenuto asilo in America senza particolari prove di persecuzioni o minacce ricevute in patria nei loro confronti.

Per i complottisti, addirittura, le esplosioni di Boston potrebbero essere state favorite dalla CIA o dall’FBI, non necessariamente prevedendo gli esiti letali che sono seguiti, magari per fornire l’occasione all’apparato della sicurezza nazionale di mettere in atto quella che è sembrata una vera e propria esercitazione sul campo nella gestione di crisi o rivolte. La metropoli del Massachusetts è stata infatti virtualmente paralizzata per parecchie ore mentre i due fratelli Tsarnaev venivano inseguiti dalle forze di polizia, in una situazione di effettiva sospensione delle libertà democratiche.

In questo quadro, l’assassinio di stato di Ibragim Todashev appare chiaramente come un tentativo di togliere di mezzo uno scomodo testimone, messo a tacere, come sostiene la combattiva suocera del giovane ceceno, per impedire che venissero rese pubbliche informazioni scottanti sul coinvolgimento del governo in un atto di terrorismo sul suolo americano.

di Mario Lombardo

Una recente sentenza della Corte Costituzionale thailandese, assieme all’aggravamento dei guai giudiziari del primo ministro Yingluck Shinawatra e ad un imminente appuntamento elettorale, ha contribuito in questi giorni a rianimare le proteste di piazza contro il governo di Bangkok, riesplose ormai dallo scorso novembre dopo due anni di relativa pace nel paese dell’Asia sud-orientale.

A riportare i sostenitori dell’opposizione, della monarchia e dell’esercito nelle strade della capitale è stata innanzitutto la decisione del più alto tribunale della Thailandia di annullare le elezioni per la camera bassa del Parlamento, tenute il 2 febbraio scorso e vinte nettamente dal partito di governo (Pheu Thai). L’annullamento non è stato dovuto a brogli o irregolarità, bensì al fatto che le operazioni non sono avvenute in un unico giorno, rendendo il procedimento incostituzionale.

In effetti, 28 distretti del paese non avevano potuto votare, a causa però del blocco degli uffici elettorali proprio da parte dei manifestanti anti-governativi organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC), i quali avevano impedito la registrazione dei candidati. In altri 5 distretti elettorali, poi, le urne sono rimaste chiuse in seguito ai disordini causati sempre dall’opposizione il giorno del voto.

Di fronte a questi ostacoli, la Commissione Elettorale si era rifiutata di registrare i candidati in sedi alternative, giudicando più opportuno rimandare la consultazione nei distretti in questione pur sapendo di mettere a rischio la costituzionalità dell’intera operazione di voto.

Sia la Corte Costituzionale che la Commissione Elettorale, d’altra parte, sono considerate vicine all’opposizione. La prima, in particolare, dopo essere stata trasformata dai militari in seguito al colpo di stato del 2006 che depose l’allora premier, Thaksin Shinawatra, ha vari precedenti nei quali ha favorito politicamente i rivali di quest’ultimo.

Nel 2007, ad esempio, il tribunale sciolse il partito di Thaksin - Thai Rak Thai - e l’anno successivo avrebbe fatto lo stesso con il suo successore – Partito del Potere Popolare – basando la propria sentenza su accuse di frode elettorale.

L’annullamento delle elezioni, perciò, è l’ennesimo tentativo del potere giudiziario thailandese di estromettere dal governo i sostenitori di Thaksin, spianando di fatto la strada ad un regime non eletto per salvaguardare gli interessi delle élite minacciate dall’evoluzione del quadro politico dell’ultimo decennio.

Intanto, i manifestanti guidati dall’ex vice-primo ministro e già deputato del Partito Democratico di opposizione, Suthep Thaugsuban, nella giornata di mercoledì hanno marciato a Bangkok per il terzo giorno consecutivo. Queste manifestazioni, secondo gli organizzatori, dovrebbero servire a raccogliere partecipanti ad una protesta ancora più massiccia in programma sabato prossimo per promuovere nuovamente la “riforma” del sistema thailandese prima di procedere con nuove elezioni.

La protesta anticiperà di un solo giorno il voto per il rinnovo di poco più della metà del Senato e che l’opposizione non ha alcuna intenzione di boicottare. Anzi, in questo caso i militanti anti-governativi intendono utilizzare l’appuntamento elettorale a loro favore per esercitare ancora maggiori pressioni sul governo.

Secondo l’ordinamento thailandese, solo 77 membri del Senato su 150 vengono scelti dagli elettori, mentre i rimanenti seggi sono assegnati da una speciale commissione formata da alcuni dei più importanti esponenti del potere giudiziario, tra cui i presidenti della Corte Costituzionale e della Commissione Elettorale.

Potendo contare dunque sulla nomina di senatori ben disposti verso la causa dell’opposizione, a quest’ultima basterà conquistare una manciata di seggi nel voto popolare di domenica per avere la maggioranza dei tre quinti nella Camera alta, necessari per rimuovere dal proprio incarico la premier Yingluck.

Inoltre, il presidente del Senato Nikom Wairatpanich, considerato vicino al governo, è stato sospeso dal suo incarico in attesa di una decisione dell’organo legislativo thailandese sulla possibilità di sottoporlo ad impeachment per avere abusato delle proprie funzioni. Al suo posto è stato nominato il vice, Surachai Liengboonlertchai, decisamente meglio disposto verso l’opposizione se dovesse essere chiamato, come prevede la costituzione, a scegliere un primo ministro ad interim nelle prossime settimane.

Ciò potrebbe essere la conseguenza di un procedimento di impeachment che minaccia di essere aperto a breve anche nei confronti della sorella dell’ex primo ministro in esilio Thaksin. Yingluck è infatti indagata dalla Commissione Nazionale Anti-Corruzione - anch’essa schierata a fianco dell’establishment thailandese - per avere gestito in maniera sconsiderata un piano di acquisto di riso dai coltivatori indigeni a prezzi superiori a quelli di mercato. Questo progetto, che contribuì al successo elettorale del partito di governo, ha causato gravi perdite per le casse pubbliche, con tonnellate di riso invenduto e decine di migliaia di contadini tuttora senza compenso.

Yingluck avrà tempo fino al 31 marzo per presentare la propria difesa e, nel caso dovesse essere ritenuta colpevole, verrebbe con ogni probabilità rimossa dalla carica di primo ministro e bandita almeno per alcuni anni dall’attività politica.

In questo scenario sempre più teso potrebbe inserirsi anche l’intervento dei sostenitori del governo, le cosiddette “Camicie Rosse”, i cui leader negli ultimi giorni hanno rilasciato dichiarazioni minacciose. Questi gruppi filo-governativi formati in gran parte da contadini e membri delle classi più disagiate del nord del paese, che hanno beneficato maggiormente delle limitate politiche di riforma sociale dei fratelli Shinawatra, hanno già manifestato qualche giorno fa contro la sentenza della Corte Costituzionale e hanno annunciato una nuova manifestazione per il 5 aprile, possibilmente a Bangkok, facendo aumentare il rischio di scontri violenti con l’opposizione del PDRC.

Secondo alcuni osservatori, al contrario, la sentenza di annullamento delle elezioni del 2 febbraio potrebbe essere l’occasione per superare lo stallo nel paese. Se il Partito Democratico, che aveva boicottato il voto, dovesse decidere di partecipare alle prossime consultazione, si potrebbe aprire infatti un percorso condiviso verso la risoluzione della crisi all’interno del quadro costituzionale.

I segnali provenienti dall’opposizione politica e di piazza, tuttavia, sembrano andare nella direzione opposta, con il leader del PDRC che ha ad esempio già minacciato nuovi disordini se venisse indetta un’altra elezione a breve.

Per Suthep e i suoi seguaci, l’obiettivo rimane quello di creare un “consiglio del popolo” non elettivo che nomini un nuovo esecutivo per “riformare” il sistema politico.

Il numero uno del Partito Democratico, l’ex primo ministro Abhisit Vejjajiva, ha anch’egli lasciato poche speranze, dichiarando martedì che la sua formazione non parteciperà al voto finché “le regole continueranno a risultare inaccettabili per la popolazione”. Il riferimento di Abhisit alla popolazione thailandese appare però assurda, visto che il suo partito e i gruppi di protesta anti-governativi rappresentano in larga misura le tradizionali strutture di potere del paese del sud-est asiatico.

In ogni caso, i vertici del Partito Democratico si riuniranno nel fine settimana per stabilire la propria posizione ufficiale in relazione alla questione elettorale, così come i membri della Commissione Elettorale si incontreranno nei prossimi giorni con i rappresentanti dei vari partiti per discutere del voto.

Il clima generale appare però sempre più cupo per il governo, già privato dei pieni poteri fin dallo scioglimento della precedente legislatura, costretto a fare i conti con un’economia in rapido deterioramento e assediato dai tradizionali poteri forti thailandesi, ben intenzionati a mettere fine una volta per tutte alla lunga parentesi di potere del clan Shinawatra.

di Michele Paris

La condanna a morte ai danni di centinaia di membri dei Fratelli Musulmani in Egitto nella giornata di lunedì è stata solo la più recente e clamorosa iniziativa della giunta militare al potere al Cairo per distruggere i suoi oppositori e consolidare la propria posizione in vista delle prossime elezioni presidenziali. Oltre ad avere condannato ben 529 imputati alla pena capitale in primo grado, il tribunale della città di Matay ha iniziato martedì a presiedere anche un altro processo-farsa, nel quale sono coinvolti più di seicento affiliati all’organizzazione dell’ex presidente Mursi, tra cui alcuni dei più alti esponenti dello storico movimento islamista messo fuori legge dal regime.

Mentre i vertici delle forze di sicurezza egiziane e i membri della giunta militare si sono resi protagonisti a partire dal luglio scorso di una violentissima repressione ai danni dei sostenitori del governo e del presidente eletto dei Fratelli Musulmani, facendo più di 1.400 morti, i 529 condannati di lunedì potrebbero essere giustiziati sostanzialmente per la morte di un solo poliziotto.

I fatti incriminati risalgono all’agosto dello scorso anno, quando le forze di sicurezza - poche settimane dopo il colpo di stato contro il presidente Mursi - dispersero una serie di manifestazioni di protesta dei Fratelli Musulmani. Questi ultimi reagirono dando vita a scontri violenti soprattutto nella provincia di Minya, a sud del Cairo, una delle roccaforti degli islamisti. Oltre ad assaltare alcune chiese cristiane, i manifestanti presero d’assedio una stazione di polizia a Matay, incendiandola, uccidendo un agente e tentando di ucciderne altri due. Su quest’ultimo episodio verteva il processo da cui sono scaturite lunedì le condanne a morte.

Il mancato rispetto delle basilari norme giudiziarie nel procedimento di primo grado è difficile da sopravvalutare. Per cominciare, i tre giudici che hanno presieduto il processo hanno preso la loro decisione dopo appena due sedute della durata di meno di un’ora ciascuna.

Inoltre, alla difesa non è stato praticamente concesso spazio per esporre la propria versione dei fatti né è stato possibile studiare le oltre tremila pagine di indagini su cui la causa era basata. La stessa richiesta degli avvocati difensori di ricusare uno dei giudici scelti per presiedere il caso non è stata presa in considerazione, nonostante quest’ultimo avesse dei precedenti a dir poco controversi, come l’assoluzione di 11 membri delle forze di sicurezza di Mubarak accusati di avere ucciso dei manifestanti durante la rivoluzione del gennaio 2011.

Secondo i legali della difesa, poi, uno dei condannati sarebbe addirittura paralizzato e costretto su una sedia a rotelle, rendendo quanto meno difficile la sua partecipazione all’assalto contro la stazione di polizia al centro del procedimento.

In ogni caso, dei 545 imputati, solo 150 erano presenti in aula e la maggior parte di essi è stata perciò condannata in absentia. Appena 16 sono stati invece prosciolti. Viste anche le reazioni a livello internazionale, nonché la flagrante violazione di qualsiasi principio di legalità, è probabile che almeno una parte delle condanne a morte verrà ribaltata nei procedimenti di appello già annunciati.

Ciononostante, il verdetto di lunedì e le modalità con cui esso è arrivato rappresentano un tentativo di intimidire gli oppositori del regime militare egiziano e non solo i Fratelli Musulmani. Infatti, le dimensioni della condanna a morte di massa - probabilmente la più pesante da molti decenni a questa parte - la dicono lunga sulle intenzioni dei militari e del potere giudiziario, in larga misura composto ancora da giudici nominati durante l’era Mubarak.

Per dare un’idea della smisuratezza della sentenza, è sufficiente citare alcuni dati riportati dal sito di informazione Ahram Online, secondo il quale in Egitto tra il 1981 e il 2000 nei tribunali civili erano stati condannati a morte 709 imputati, di cui 249 effettivamente giustiziati.

Gli stessi metodi sommari potrebbero essere utilizzati ora nel già ricordato processo ai danni di 683 membri dei Fratelli Musulmani apertosi martedì e subito aggiornato al 28 aprile. Tra di essi spiccano il leader spirituale del movimento, Mohamed Badie, e il numero uno del braccio politico, Saad El-Katatny.

Ad occuparsi del nuovo caso che riguarda un altro assalto ad una stazione di polizia - questa volta nella città di Minya - sarà lo stesso tribunale che ha condannato i 529 imputati nella giornata di lunedì. Alla prima seduta di martedì erano presenti solo 60 imputati, mentre gli avvocati della difesa hanno deciso di boicottarla in segno di protesta, sia per la sentenza del giorno precedente che per le irregolarità riscontrate anche nel nuovo procedimento.

Se gli eventi di questi giorni in Egitto sono stati condannati da molti governi occidentali, le loro dichiarazioni critiche sono apparse spesso di circostanza e, soprattutto, non hanno messo in nessun modo in discussione il presunto percorso di transizione “democratica” che il paese nord-africano starebbe seguendo sotto la guida dei militari.

Gli Stati Uniti, in particolare, tramite una portavoce del Dipartimento di Stato hanno espresso “profonda preoccupazione” per le 529 condanne a morte, senza però minacciare una revisione delle relazioni con Il Cairo.

La responsabile della diplomazia per l’Unione Europea, Catherine Ashton, ha semplicemente ricordato al regime come la pena di morte sia “crudele e inumana” e che il rispetto degli “standard internazionali” è particolarmente importante per “la credibilità della transizione egiziana verso la democrazia”. Né Washington né Bruxelles, come è ovvio, hanno ad esempio prospettato possibili sanzioni come quelle tempestivamente applicate nei giorni scorsi contro la Russia per i fatti di Crimea.

Nonostante la retorica occidentale, quello intrapreso dal più popoloso paese arabo, dopo la rimozione di Mohamed Mursi il 3 luglio del 2013 sull’onda delle proteste oceaniche contro il suo impopolare governo, è in realtà un percorso regressivo che ha riconsegnato il controllo diretto del potere ai vertici militari.

La sentenza draconiana contro i Fratelli Musulmani giunge d’altra parte dopo una lunga serie di iniziative anti-democratiche promosse dalla giunta, tra cui la messa al bando di qualsiasi manifestazione di protesta e della stessa organizzazione islamista, nonché l’approvazione di una nuova costituzione che sancisce la posizione di privilegio dei militari nel paese.

I fatti giudiziari di questi giorni, infine, si inseriscono nei preparativi per il lancio verso la presidenza del leader della giunta militare, generale Abdel Fattah al-Sisi, primo responsabile di arresti e uccisioni di massa nei mesi scorsi in nome del ritorno alla stabilità dell’Egitto.

La sua ascesa, favorita dall’Occidente e dalle forze secolari e progressiste che si opponevano ai Fratelli Musulmani, dopo più di tre anni dalla fine di Mubarak segnerà così la chiusura definitiva della parentesi rivoluzionaria, inaugurando però probabilmente l’inizio di una nuova fase di tensioni interne e di inevitabile confronto con la popolazione egiziana.


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