di Michele Paris

La minaccia americana di infliggere al colosso bancario francese BNP Paribas una maxi-multa da 10 miliardi di dollari ha scatenato un acceso scontro diplomatico tra Washington e Parigi, emerso in particolare durante il recente incontro tra i presidenti Obama e Hollande a margine del G-7. Una delle più grandi banche del pianeta, BNP, è da tempo nel mirino delle autorità d’oltreoceano per avere processato transazioni finanziarie con paesi colpiti da sanzioni decise dal governo degli Stati Uniti.

Tra il 2002 e il 2009, la banca francese avrebbe cioè aggirato le sanzioni imposte dagli USA contro Sudan, Cuba e Iran, principalmente nascondendo l’identità di coloro che erano coinvolti in trasferimenti di denaro in modo da passare attraverso il sistema finanziario americano senza far scattare l’allarme delle autorità.

I vertici di BNP sono stati protagonisti di trattative con svatiati uffici competenti per giungere ad un accordo, tra cui il Dipartimento di Giustizia e quello del Tesoro di Washington, il procuratore distrettuale di Manhattan e il Dipartimento per i Servizi Finanziari dello stato di New York.

Oltre ai 10 miliardi di multa, la banca potrebbe essere costretta ad ammettere di avere commesso un crimine, aprendo così la strada ad ulteriori denunce. Inoltre, anche se le autorità USA sembrano avere ritirato la più grave minaccia di revocare la licenza per operare negli Stati Uniti, BNP potrebbe vedersi sospendere temporaneamente il permesso di processare transazioni finanziare in dollari americani.

Dal febbraio scorso, quando BNP aveva annunciato di avere accantonato 1,5 miliardi di dollari per far fronte a possibili sanzioni negli Stati Uniti, la banca ha perso il 18% del proprio valore di borsa. L’importo della multa di cui si discute, d’altra parte, ammonterebbe a poco meno del totale delle entrate del 2013, vale a dire 11,2 miliardi di dollari e, per gli analisti, potrebbe trascinare l’istituto in “zona pericolo” in concomitanza con i cosiddetti “stress test” bancari dell’Unione Europea.

I 10 miliardi di dollari che potrebbero essere richiesti a BNP hanno suscitato le ire del management della banca e dello stesso governo francese, visto che altre banche nel recente passato hanno concordato con il governo americano multe nettamente inferiori per avere fatto affari con paesi sulla lista nera di Washington.

Le britanniche HSBC e Standard Chartered, ad esempio, avevano pagato rispettivamente 667 milioni e 1,9 miliardi di dollari, mentre l’olandese ING si era accordata per 619 milioni di dollari. Secondo i giornali finanziari, tuttavia, la rilevanza della sanzione ai danni di BNP sarebbe dettata da svariati fattori, tra cui il numero molto più elevato di transazioni “proibite” gestite rispetto alle altre banche, il coinvolgimento diretto dei massimi vertici dell’istituto e la scarsa collaborazione con le autorità americane mostrata da questi ultimi durante l’indagine.

La possibile penalizzazione di BNP Paribas ha spinto molti politici di spicco in Francia a criticare apertamente il governo americano e ad adoperarsi per limitare i danni. Dopo la visita a inizio maggio a New York dell’amministratore delegato, Jean-Laurent Bonnafé, e del governatore della Banca Centrale francese, Christian Noyer, per chiedere clemenza, lo stesso François Hollande ha fatto propria la causa della banca transalpina.

Nell’incontro con Obama settimana scorsa, il presidente socialista ha definito la sanzione da 10 miliardi di dollari “del tutto sproporzionata”, visto che potrebbe avere “conseguenze economiche e finanziarie per tutta l’eurozona”. Della difesa dell’istituto privato si sono fatte carico anche altre importanti personalità francesi, tra cui il ministro dell’Economia, Arnaud Montebourg, che in un’intervista radiofonica ha paragonato la sanzione contro BNP ad una “sentenza di morte”, e l’ex presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, secondo il quale una maxi-multa potrebbe innescare una reazione a catena colpendo tutto il sistema finanziario europeo.

Ancor più del servilismo mostrato dalla classe politica francese verso uno dei maggiori colossi bancari del pianeta, tuttavia, la vicenda di BNP spicca perché ha fornito una nuova occasione per valutare il modo in cui gli Stati Uniti danno l’impressione di perseguire in maniera imparziale chiunque e qualsiasi compagnia si renda responsabile di attività criminose, al di là della sua posizione o del suo peso economico.

Per cominciare, la risposta di Obama alla supplica di Hollande avrebbe dovuto suscitare lo scherno di qualsiasi giornale o televisione realmente liberi. Il presidente americano ha infatti escluso di potere intervenire nel caso BNP, sostenendo che non è possibile per lui “sollevare il telefono per dire al procuratore generale come gestire la causa”. Per Obama, il sistema americano sarebbe fatto in modo tale da “assicurare che la legge non venga in nessun modo influenza da ragioni di convenienza politica”.

Simili affermazioni sono giunte dal capo di un governo che ha fatto di tutto negli ultimi anni per impedire che un solo dirigente di una sola banca responsabile della colossale crisi finanziaria esplosa nel 2008 venisse messo sotto accusa nonostante la più che ampia evidenza di responsabilità, messe in luce - tra le indagini più autorevoli - da un rapporto del Congresso sul crack di Wall Street nel quale è stato esposto nel dettaglio un sistema quasi interamente basato su attività criminali.

La presunta durezza della giustizia americana, inoltre, continua a riguardare in gran parte banche straniere, tutt’altro che casualmente concorrenti di quelle indigene. Oltre alle già citate HSBC, Standard Chartered e ING, le autorità degli Stati Uniti hanno recentemente negoziato una sanzione da 2,6 miliardi di dollari con l’elvetica Credit Suisse, accusata di avere aiutato ricchi americani ad evadere il fisco nascondendo denaro su conti off-shore. Nessuna di queste banche, oltretutto, è stata perseguita per le attività fraudolente che hanno portato alla rovinosa crisi finanziaria del 2008.

Questo giro di vite del governo USA è stato deciso sull’onda delle polemiche piovute sul ministro della Giustizia, Eric Holder, dopo che aveva lasciato intendere che alcuni istituti bancari risultavano troppo grandi per essere incriminati senza creare problemi all’intero sistema finanziario.

L’ipotesi della multa da 10 miliardi di dollari contro BNP, poi, è arrivata anche per dare seguito ad un intervento pubblico di qualche settimana fa dello stesso Holder, nel quale, per smentire le precedenti dichiarazioni, aveva affermato che il suo dipartimento non intende rispariamre nessuna banca di grandi dimensioni.

Alcune banche americane sono state in realtà perseguite ed hanno negoziato sanzioni importanti, anche se sempre tutt’altro che adeguate al livello di criminalità e comunque poco più che irrisorie rispetto ai profitti accumulati. JP Morgan Chase, ad esempio, l’anno scorso ha pagato 13 miliardi di dollari per chiudere una serie di cause civili legate alle truffe dei mutui sub-prime, mentre Bank of America starebbe trattando un accordo con le autorità che potrebbe includere una multa da oltre 10 miliardi. In tutti i casi, comunque, i patteggiamenti hanno escluso l’ammissione di colpa o l’incriminazione dei vertici delle banche.

Le sanzioni così pagate, quindi, sono considerate poco più di una voce di costo necessaria per continuare a fare affari con modalità in larga misura identiche a quelle che hanno causato il tracollo del sistema.

L’incriminazione di banche europee per la violazione di sanzioni imposte da Washington, infine, rappresenta un messaggio inequivocabile agli istituti e ai governi del vecchio continente, proprio mentre il governo USA sta cercando di raccogliere consensi per adottare misure punitive più pesanti contro la Russia.

Qualsiasi banca che dovesse evadere eventuali sanzioni statunitensi, cioè, potrebbe trovarsi esposta al rischio di multe miliardarie come quella minacciata ai danni di BNP Paribas.

di Carlo Musilli

La Bulgaria chiude i rubinetti al "flusso meridionale". Il premier Plamen Oresharski ha annunciato ieri lo stop alla costruzione di South Stream, il gasdotto che in futuro dovrebbe portare il metano russo in Europa senza passare per l'Ucraina. "Ho ordinato di fermare i lavori - ha detto il primo ministro -. Decideremo gli sviluppi della situazione dopo le consultazioni con l'Unione europea".

La decisione di Sofia - presa verosimilmente con l'appoggio di Mosca - arriva in risposta a un gesto di ostilità da parte di Bruxelles. Martedì scorso Josè Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, aveva annunciato l'apertura di una procedura d'infrazione contro la Bulgaria per irregolarità negli appalti legati a South Stream. "Le regole di cui Bruxelles pretende il rispetto riguardano il fatto che in Bulgaria tutti i lavori per il gasdotto sono stati affidati a imprese bulgare o russe - spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia - e questo in Bulgaria, che è parte dell’Unone europea, non si può fare: le gare devono essere aperte a tutte le aziende europee su una base di parità. Ma il problema specifico degli appalti s'inserisce anche in un contenzioso più vasto e di più lunga data sull’uso futuro del South Stream".

Ed è proprio qui che entrano in gioco gli interessi di Mosca. Alla luce delle regole comunitarie, l'Ue vorrebbe che l'utilizzo del gasdotto fosse aperto a tutti, mentre il colosso russo del metano, Gazprom, pretende di avere l'esclusiva, e su questo punto gode del sostegno bulgaro.

La quota di maggioranza nel progetto è proprio di Gazprom (al 50%), ma sono della partita anche l’italiana Eni (20%), la francese Edf (15%) e la tedesca Wintershall del gruppo Basf (15%). Attraverso il Mar Nero, South Stream deve collegare la Russia alla Bulgaria, per poi proseguire verso Grecia, Italia, Serbia, Ungheria, Slovenia e Austria. Stando al programma, i lavori per la realizzazione dovrebbero essere conclusi entro la fine del 2015 e le consegne di gas dovrebbero iniziare immediatamente dopo.

Pur escludendo dal proprio percorso ogni altro Paese extracomunitario, South Stream di fatto conferma la dipendenza energetica dell'Europa dalla Russia. Per questa ragione molti nell'Unione non vedono di buon occhio la nuova infrastruttura, preferendogli il progetto per il gasdotto Nabucco, che dovrebbe collegare la Turchia all'Austria, portando in Europa il gas (non russo) dalla zona del Caucaso, del Mar Caspio e, potenzialmente, del Medio Oriente.

Dal giugno 2013, tuttavia, l'idea del Nabucco risulta accantonata in favore del Tap (Trans Adriatic Pipeline), progetto concorrente che - prelevando il metano nelle medesime zone - punta a connettere l'Italia e la Grecia attraverso l'Albania. L'iter è però ancora lungo: "Siamo pronti iniziare i lavori di costruzione del gasdotto trans-adriatico nei primi mesi del 2016", ha detto a inizio giugno Kjetil Tungland, managing director della società Tap.

Intanto, la Russia inizia a guardare verso est. Il mese scorso Gazprom ha raggiunto un accordo con la Cina per la fornitura di 38 miliardi di metri cubi di gas per trent'anni a partire dal 2018 (il controvalore dell'operazione è di 456 miliardi di dollari). Questo non significa che il gigante russo potrà mai fare a meno dei clienti al di qua degli Urali, considerando che il mercato europeo del gas è il secondo a livello mondiale e il primo per Gazprom. A Mosca però si sono accorti che lo scenario energetico mondiale sta cambiando: secondo le stime dell’Asian Development Bank, nel 2035 il consumo di energia dei Paesi asiatici sarà aumentato del 51%.

L'intesa con Pechino segnala quindi che i russi hanno compreso un principio fondamentale del business, la diversificazione. Una lezione che invece l'Europa tarda ad apprendere. L'errore più grave che i responsabili della strategia energetica Ue abbiano mai compiuto è la mancata interconnessione: oggi i flussi di gas viaggiano soltanto da est a ovest, mentre nessuno è in grado di pompare gas da ovest a est. Per questa ragione alcuni Paesi (non l'Italia) dipendono all’80 se non al 100% dalle forniture russe.

La musica non cambierà con South Stream, che però rappresenta comunque un'infrastruttura decisiva, se non altro perché consentirà all'Europa di svincolare la propria sopravvivenza energetica dalla guerra che si sta combattendo in Ucraina. Proprio per cercare di trovare un accordo al contenzioso sulle forniture di gas tra Kiev e Mosca, oggi a Bruxelles s'incontrano i rappresentanti di Ue, Russia e Ucraina. C'è da scommettere che si parlerà anche di Bulgaria.

di Michele Paris

Le elezioni presidenziali tenutesi questa settimana in Siria sono state accompagnate da una prevedibile campagna diffamatoria, orchestrata da media e governi occidentali, volta a screditare una consultazione per molti versi temuta dall’opposizione che combatte contro il regime di Bashar al-Assad e dai suoi sponsor a Washington, Londra e Parigi.

Se pure vi sono pochi dubbi che il voto di martedì nel paese mediorientale in guerra abbia mostrato l’assenza di vari standard democratici, esso si è svolto in condizioni non troppo diverse da quelle registrate nel recente passato in altri paesi, dove ha nondimeno ricevuto la convinta approvazione dell’Occidente. Soprattutto, il voto è servito a smentire ulteriormente la tesi ufficiale sul conflitto siriano, che lo vorrebbe combattuto da un regime brutale, in grado di rimanere al potere solo con la forza, contro il resto della popolazione.

A dare i risultati definitivi è stato lo “speaker” del Parlamento di Damasco, Mohammad Jihad al-Laham, in un’apparizione in diretta televisiva. Nonostante lo stato di guerra e alcune aree del paese in mano ai “ribelli” armati, alle urne si sarebbero recati circa 11,6 milioni di siriani, vale a dire il 73,4% degli aventi diritto.

Come ampiamente previsto, Assad ha ottenuto una maggioranza schiacciante (88,7%), mentre gli unici altri due candidati in corsa sui 24 che avevano inizialmente manifestato il desiderio di partecipare alla competizione, vale a dire i poco conosciuti Hassan Abdullah al-Nouri e Maher Abdul-Hafiz Hajjar, rispettivamente uomo d’affari e membro del Parlamento, hanno raccolto il 4,3% e il 3,2% dei voti validi.

Il livello molto elevato dell’affluenza è stato subito messo in dubbio in Occidente, visto che parte della Siria rimane sotto il controllo dei gruppi di opposizione, che non hanno ovviamente consentito il voto, e che alcuni milioni di siriani sono attualmente rifugiati in altri paesi a causa del conflitto.

Le zone fuori dal controllo governativo nelle aree settentrionali e orientali del paese risultano essere tuttavia poco popolate, mentre il regime aveva istituito seggi speciali presso le proprie ambasciate all’estero e lungo i confini con i paesi vicini per permettere ai profughi di votare regolarmente.

Anzi, alcuni media non esattamente favorevoli ad Assad la scorsa settimana avevano raccontato di lunghe file di votanti fuori dalle ambasciate siriane in vari paesi, come Libano e Giordania, e di un sostanziale favore espresso pubblicamente per il presidente in carica.

La stessa atmosfera è stata frequentemente descritta dai corrispondenti occidentali in territorio siriano, anche se è del tutto possibile che i dati ufficiali relativi all’affluenza possano essere stati almeno in parte gonfiati. Le autorità elettorali siriane, inoltre, hanno fatto sapere di non avere ricevuto nessuna segnalazione di irregolarità. I reporter che hanno avuto la possibilità di accedere ai seggi hanno però riscontrato vari episodi di brogli a favore di Assad.

Per il segretario di Stato americano, John Kerry, l’intero processo elettorale era stato bollato in ogni caso già alla vigilia come una “farsa”, mentre lo stesso ex senatore democratico nel corso di una visita in Libano nella giornata di mercoledì ha nuovamente definito il voto come “un grande zero” che non cambierà nulla della situazione in Siria.

Dal punto di vista occidentale, d’altra parte, l’organizzazione del voto in uno scenario di guerra e l’assoluta certezza della vittoria di Assad comportavano il totale discredito delle elezioni presidenziali in Siria. Come già anticipato, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno però riconosciuto la piena legittimità, ad esempio, delle recenti presidenziali in Ucraina, organizzate da un regime golpista e nel pieno di un sanguionoso conflitto caratterizzato dalla repressione da parte delle forze governative di Kiev contro gli oppositori filo-russi nelle regioni orientali del paese, dove, come nelle aree in mano ai “ribelli” in Siria, i seggi non sono stati nemmeno aperti.

Elezioni legislative e presidenziali si sono poi svolte nell’ultimo decennio in paesi travagliati da gravissimi conflitti, come Iraq e Afghanistan, sulla cui regolarità è superfluo tornare. Nel recentissimo caso dell’Egitto, inoltre, i governi occidentali non hanno espresso un solo comunicato di condanna nei confronti del regime militare che ha portato alla presidenza il generale Abdel Fattah al-Sisi tra diserzioni di massa delle urne e in seguito al colpo di stato ai danni di un governo eletto e ad una repressione che ha fatto migliaia di morti.

Nessun valore ha avuto per l’Occidente infine anche il rapporto sul voto in Siria degli osservatori di alcuni paesi vicini a Damasco, come Russia, Venezuela, Corea del Nord e Zimbabwe, i quali hanno dichiarato la consultazione sostanzialmente “libera e regolare”. Dal momento che i governi di tutti questi paesi sono più o meno sulla lista nera di Washington, i giudizi da loro epressi non sono stati nemmeno presi in considerazione oppure sono stati utilizzati per rafforzare la tesi dell’elezione-farsa.

Tutti i commenti dei governi occidentali e i resoconti dei media sulle presidenziali siriane hanno quindi ignorato in buona parte la realtà sul campo, visto che riconoscere lo scenario in cui esse si sono svolte avrebbe contraddetto la versione ufficiale che racconta di una dittatura osteggiata dalla grandissima maggioranza di una popolazione oppressa.

Per cercare di delegittimare il voto, dunque, molti paesi in Medio Oriente e in Occidente, a cominciare da Stati Uniti, Germania, Francia e Turchia, hanno impedito ai cittadini siriani entro i propri confini di votare, mentre in Libano il ministro dell’Interno - appartenente al Movimento per il Futuro filo-saudita e filo-occidentale - ha addirittura minacciato di privare i rifugiati siriani del permesso di permanenza nel suo paese se fossero tornati in Siria per esprimere il proprio voto.

La distorsione della realtà è proseguita anche dopo la diffusione dei risultati definitivi. Svariati commenti hanno ad esempio sostenuto che il nuovo mandato settennale ottenuto da Assad - sia pure in maniera fraudolenta - prospetta un aggravamento del conflitto in corso, quando al contrario dovrebbe rappresentare un colpo letale per la credibilità dell’opposizione e favorire un’uscita dalla crisi. Se nuove violenze ci saranno, esse saranno dovute più che altro al continuo sostegno fornito dall’Occidente e dai paesi mediorientali ad un’opposizione screditata e impopolare.

Il Wall Street Journal, poi, ha scritto con disapprovazione che il presidente Assad potrebbe utilizzare il capitale politico appena conquistato ai seggi per giustificare un’escalation delle operazioni militari contro i “ribelli”, descrivendo in maniera esatta ciò che è accaduto piuttosto in Ucraina settimana scorsa in seguito al successo nelle presidenziali dell’oligarca Petro Poroshenko.

Un trattamento obiettivo delle elezioni in Siria, in definitiva, avrebbe dovuto riconoscere il persistente sostegno tra la popolazione, compresa la maggioranza sunnita che condivide la stessa fede dei “ribelli”, per il presidente Assad, se non altro come riflesso dell’avversione diffusa nei confronti di un’opposizione armata violenta e composta in larga misura da jihadisti provenienti dall’estero.

Al di là sia del reale consenso su cui il regime può contare sia della natura dello stesso regime di Assad o della regolarità delle elezioni, il voto di martedì è apparso soprattutto come una prova di indipendenza data da un paese che ha sempre rifiutato l’ingerenza delle potenze imperialiste e che per questa precisa ragione è stato scelto come teatro di una “rivoluzione” imposta dall’esterno. Un paese che questa settimana ha di nuovo respinto qualsiasi ipotesi di un intervento armato occidentale che favorirebbe soltanto forze ultra-reazionarie e distruggerebbe ulteriormente una società fino a pochi anni fa tra le più avanzate del Medio Oriente.

Ciononostante, il messaggio lanciato agli sponsor arabi ed occidentali della “rivolta” dalla popolazione siriana difficilmente verrà recepito dai destinatari. Con ogni probabilità, invece, gli Stati Uniti e i loro alleati continueranno a non riconoscere il totale fallimento della loro politica siriana, intensificando gli sforzi a favore dell’opposizione armata e provocando altro caos e distruzione in un paese già devastato da oltre tre anni di guerra.

di Fabrizio Casari

Mercoledì scorso, il Congresso degli Stati Uniti ha approvato un progetto di legge a firma di Ileana Ros Lehtinen, contenente una serie di misure ostili al Venezuela. Chi è questa signora? Conosciuta come "la lupa feroce" è parte importante del braccio politico e legislativo della Fondazione Nazionale Cubano-Americana e risponde alle lobbies di Miami composte dai fuggitivi causa socialismo di Cuba, Nicaragua e Venezuela.

Controlla il flusso di voti di destra in Florida e New Jersey, due stati chiave per vincere o perdere le elezioni presidenziali e spinge ogni disegno di legge e ogni iniziativa terroristica contro Cuba in particolare e contro i paesi democratici latinoamericani in generale.

Tra i suoi migliori amici figura l'assassino e terrorista Luis Posada Carriles, per il quale aprì persino un apposito fondo finanziario per pagare la difesa legale nel suo processo-farsa per immigrazione clandestina negli Stati Uniti. L’establishment di Washington non ha una grande considerazione della deputata cubanoamericana ma il suo peso elettorale non può essere ignorato. Sostenitrice senza sosta della famiglia Bush, è in prima fila per cercare di portare l'ulimo della nidiata, Jeb Bush, alla Casa Bianca.

Il suo riferimento costante, quando si tratta di legiferare sull’America latina non devota a Washington, è la legge Helms-Burton, cioè il concentrato di pirateria internazionale che estende le già illegali sanzioni contro Cuba a tutti i paesi del mondo che con Cuba si relazionano. Dalla sua nascita, l’obbrobrio legislativo ha bisogno del reiterato veto presidenziale a diversi paragrafi della legge, per evitare sanzioni e misure di reciprocità da parte del resto del mondo contro gli Stati Uniti

Un progetto simile a quello del Congresso è stato presentato anche al Senato, a firma del senatore democratico Bob Melendez e del repubblicano Marco Rubio, entrambi eletti in Florida con il voto della gusaneria cubano americana. Ci sono state opposizioni, in particolare quella di 14 deputati democratici, che con l’invio di una lettera al Presidente Obama si sono dichiarati contrari ad introdurre sanzioni contro Caracas. Entrambi i progetti di legge potrebbero essere armonizzati in un unico testo prima di essere inviato alla scrivania del presidente, che potrebbe comunque porre il veto e rifiutarsi di firmare.

In entrambi i testi viene previsto il blocco delle proprietà e il divieto di entrata negli Stati Uniti per i funzionari governativi venezuelani "che hanno violato i diritti umani " durante gli scontri tra le forze di sicurezza e i guarimberos della destra in corso da Febbraio ad oggi. Inoltre, il disegno di legge prevede il divieto di trasferimento di "dispositivi tecnologici che possono essere utili per il controllo e la repressione" e, soprattutto, stabilisce l'invio di un “aiuto finanziario alla società civile”.

Questo progetto rappresenta una nuova tappa negli Stati Uniti la politica ingerenti sta nei confronti del Venezuela e segue lo stesso percorso di altre leggi che negli ultimi 30 anni sono stati approvate per cercare giustificazioni giuridiche e legislative per le attività di sovversione statunitensi in America Latina .

Mentre è pura propaganda ideologica fa il divieto di ingresso negli Stati Uniti di funzionari governativi presunti responsabili di violazioni dei diritti umani, l’aspetto di sostanza sono i finanziamenti richiesti per sostenere la destra, impropriamente chiamata “società civile”.

La richiesta di fondi statali USA, infatti, indica la volontà di mettere a bilancio, cioè sulle spalle dei contribuenti, il denaro finora fornito dalle organizzazioni come la NED e USAID, nonché enti governativi travestiti da ONG che si sono sommati ai fondi occulti erogati direttamente dalla CIA e da imprenditori locali in accolita con settori dell’imprenditoria colombiana.

Finora la Casa Bianca non sembra essere intenzionale ad appoggiare i due progetti di legge. Il Sottosegretario di Stato per l'America Latina, Roberta Jacobson, ha detto che "non è il momento" e ha sottolineato come l'ultima parola spetta al presidente Obama che, volendo, anche avrebbe potuto applicare sanzioni contro il Venezuela anche in assenza di una legge specifica. Pertanto, suggerisce la Jacobson, se non l’ha fatto è perché non considera utile, in questo momento, una strada di questo tipo nel confronto con Caracas.

Dunque Obama non firmerà la legge? "Se Obama vuole bloccarla, il leader democratico Harry Reid può evitare di sottoporla al voto del Senato, cosa molto più facile e più tranquilla del veto presidenziale", ha detto Mark Weisbrot, co-direttore del Centro di analisi, politica e ricerca economica .

La Jacobson, in un commento alla stampa, ha detto che "ciò che accade in Venezuela non ha nulla a che vedere con le relazioni bilaterali tra Caracas e Washington, ma è piuttosto una questione tra venezuelani" pur esprimendo dubbi circa la possibilità che il Segretario di Stato John Kerry possa incontrare il Cancelliere venezuelano Jaua al margine dell’assemblea OSA che si svolge questa settimana ad Asunciòn, in Paraguay.

Sebbene nella stessa occasione lo scorso anno l’incontro tra i due ebbe luogo in Guatemala, secondo la Jacobson "ora i due paesi non sono nella stessa punto". Inoltre, come previsto, ha respinto le accuse del governo bolivariano contro l'ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker, socio dell’ex presidente colombiano Uribe, istigatore dei paramilitari e anima nera della congiura contro il Venezuela .

Obama è conscio che le sanzioni produrrebbero un netto rifiuto da parte della comunità latinoamericana e del Vaticano, impegnati nella difficile mediazione tra il governo bolivariano e la destra nella Mesa de dialogo nacional. E’ poi necessario considerare che Washington continua ad avere dal Venezuela circa il 23% del suo fabbisogno energetico; dunque inasprire la tensione può rivelarsi controproducente.

Obama è freddo verso l'opzione delle sanzioni, comprendendo bene come sarebbe illusorio pensare di piegare il Venezuela misure inutili e odiose, che andrebbero incontro solo a critiche internazionali. Ha chiaro che, come nel caso di Cuba, una escalation di sanzioni, un blocco persino, non avrebbe alcun effetto significativo per il cambiamento di regime politico che auspica Washington e servirebbe solo a ricompattare ancora più i venezuelani in difesa della loro sovranità nazionale.

Porre sanzioni, infine, potrebbe spingere ulteriormente Caracas verso l’intensificazione delle relazioni con Russia, Cina e Iran, fino a far intravvedere una vera e propria possibile partnership commerciale e militare. Un incubo per la Casa Bianca che ben vale il rifiuto di una firma presidenziale all’isterìa di una destra a caccia di vendette.



di Michele Paris

Nel pieno di una visita di quattro giorni in Europa, Barack Obama sta cercando di rassicurare gli alleati europei, in particolare quelli dell’ex blocco sovietico, circa il sostegno americano nel fronteggiare fantomatiche minacce alla stabilità del continente provenienti dalla Russia. Nella giornata di mercoledì a Varsavia, il presidente degli Stati Uniti ha anche incontrato per la prima volta il neo-eletto presidente ucraino, l’oligarca miliardario Petro Poroshenko, in concomitanza con un’intensificazione della repressione ai danni dei ribelli filo-russi e la diffusione di notizie di nuove stragi tra la popolazione civile.

Nell’offrire l’assistenza USA in ambito finanziario e della sicurezza al nuovo regime ucraino, Obama si è detto “profondamente colpito” dalla visione di Poroshenko per l’Ucraina e dai suoi piani per fare uscire il paese dalla crisi. Profondamente colpite sono con ogni probabilità anche le popolazioni nell’est del paese, bersaglio negli ultimi giorni degli assalti delle forze armate di Kiev e di gruppi paramilitari neo-fascisti per ristabilire l’ordine.

Già coordinate con personale americano inviato in Ucraina, le politiche messe in atto da Kiev per reprimere nel sangue la rivolta sono state discusse anche con lo stesso Obama, il quale ha confermato di avere approvato i piani del presidente eletto per “ristabilire la pace e l’ordine”, consistiti finora in operazioni che hanno fatto centinaia di morti tra gli oppositori del regime golpista filo-occidentale.

Nella realtà capovolta della propaganda statunitense, d’altra parte, i massacri in Ucraina orientale per mano delle forze governative - di gran lunga più gravi di quelli attribuiti all’ex presidente Yanukovich - rientrerebbero nel disegno delle nuove autorità per trovare una soluzione pacifica alla crisi in atto, la cui responsabilità sarebbe interamente della Russia.

Obama ha poi ricordato a Poroshenko la necessità di procedere con le devastanti “riforme” economiche richieste da tempo dall’Occidente e, significativamente, ha invitato la “comunità internazionale” a sostenere lo stesso presidente ucraino, il quale, effettivamente, avrà bisogno di tutto l’appoggio possibile per implementare misure profondamente impopolari senza scatenare nuove manifestazioni di protesta.

Dopo il faccia a faccia con Poroshenko, l’inquilino della Casa Bianca ha tenuto un discorso pubblico sempre a Varsavia nell’ambito delle celebrazioni per ricordare i 25 anni dalle prime elezioni parzialmente libere in Polonia. Qui, Obama ha ribadito i temi affrontati il giorno precedente subito dopo l’arrivo nella capitale polacca, assicurando cioè i paesi dell’Europa orientale circa l’impegno americano nel garantire la loro integrità territoriale, peraltro non esposta a nessun genere di minaccia.

Per fare ciò, gli USA sborseranno 1 miliardo di dollari da destinare a programmi di aiuto e addestramento alle forze armate dei paesi membri della NATO posizionati ai confini con la Russia, comprese Ucraina, Georgia e Moldavia. Obama, inoltre, ha annunciato una “revisione” del dispiegamento delle truppe permanenti nel continente europeo alla luce della crisi in Ucraina, mentre verrà intensificata la presenza navale americana nel Mar Nero e nel Mar Baltico.

Tutte le iniziative - che dovranno essere approvate dal Congresso USA - prospettano un’escalation del militarismo a stelle e strisce in Europa e, dal momento che implicano una sorta di accerchiamento della Russia, rischiano di innescare un pericolosissimo conflitto con Mosca.

La stessa retorica impiegata da Obama nella sua visita in Polonia ha lasciato poco spazio a scenari pacifici, come conferma l’annunciato “impegno inderogabile” con gli alleati NATO, assicurato dalla “più forte alleanza [militare] del pianeta e dalle forze armate degli Stati Uniti d’America”, definite come “le più potenti della storia”.

Queste promesse non hanno comunque convinto del tutto i governi dell’Europa orientale, a cominciare da quello polacco. Il premier Donald Tusk ha infatti definito le misure proposte da Obama soltanto “un altro passo” del programma di aiuti americani, mentre il presidente Bronislaw Komorowski ha insistito sulla creazione di “ulteriori infrastrutture NATO come prerequisito per l’effettiva accoglienza” di altri soldati.

Alla vigilia della visita di Obama, d’altra parte, il governo di Varsavia aveva apertamente discusso della possibilità di ospitare una base militare americana in modo permanente. In una recente intervista, ad esempio, il ministro degli Esteri Radoslaw Sikorski si era chiesto il motivo per cui una base USA non dovrebbe essere costruira in Polonia, dal momento che “ne esistono in Gran Bretagna, Spagna, Portogallo, Grecia e Italia”.

Oltre ad essere basata su motivazioni strategiche ingannevoli, l’eventuale creazione di una base militare permanente in Polonia risulterebbe anche in violazione dell’accordo siglato tra NATO e Russia nel 1997 che proibiva appunto simili iniziative in Europa Orientale.

Secondo il governo polacco, però, il comportamento della Russia avrebbe di fatto determinato l’annullamento dell’accordo, visto che Mosca ha trasgredito ad un’altra condizione in esso contenuta e cioè il divieto dell’uso della forza con l’obiettivo di violare “la sovranità, l’integrità territoriale o l’indipendenza” di un paese vicino.

In defintiva, come mostra l’ipocrisia del governo di Varsavia, per i governi occidentali e i loro alleati in Europa orientale basta creare una crisi ad hoc in un determinato paese per poi attribuire la responsabilità del caos e delle violenze che seguono alla potenza rivale (Russia) con una campagna mediatica a senso unico, in modo da ridurre a carta straccia gli accordi siglati in precedenza e adattare quindi la nuova realtà alle proprie esigenze strategiche.

La visita di Obama è stata poi accompagnata dalle ormai consuete minacce e ultimatum diretti alla Russia. Il presidente americano ha nuovamente invitato Putin a mettere fine alle manovre destabilizzanti in Ucraina per non incorrere in un aggravamento delle sanzioni già adottate dall’Occidente nelle scorse settimane.

Misure punitive - sostenute senza riserve dagli Stati Uniti e con qualche cautela in più dall’Europa visti i legami commerciali con la Russia - sono state discusse anche nel vertice del G-7 di Bruxelles dove Obama si è recato mercoledì dopo l’incontro con Poroshenko. Il summit era stato organizzato in seguito alla cancellazione di una riunione del G-8 programmato a Sochi e all’espulsione della Russia come ritorsione per l’annessione della Crimea.

Nel comunicato dei paesi membri del G-7, in particolare, è stato chiesto alla Russia di “accelerare il ritiro delle forze armate dalle aree di confine con l’Ucraina” e di “esercitare la propria influenza sui separatisti armati” per convincerli ad abbandonare la lotta contro il regime di Kiev.

Le provocazioni dirette contro Mosca e i tentativi del Cremlino di normalizzare i rapporti con l’Occidente, in ogni caso, saranno forse testati venerdì, quando Putin e i capi di stato e di governo dei paesi coinvolti nella crisi ucraina si incontreranno in occasione dei festeggiamenti per il 70esimo anniversario dello sbarco in Normandia.

Se non sembra essere all’ordine del giorno un faccia a faccia tra Obama e Putin, quest’ultimo si vedrà invece con il presidente francese Hollande, la cancelliera tedesca Merkel e il primo ministro britannico Cameron, nel tentativo di trovare una difficile via d’uscita ad una crisi sempre più cruenta.


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