di Mario Lombardo

Anche se il giorno di Natale il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir, ha lanciato un appello di pace e unità nel neonato paese centro-africano, i combattimenti sono proseguiti senza sosta soprattutto negli stati settentrionali dove si concentra la maggior parte della produzione di petrolio. La disponibilità di Kiir a trattare senza condizioni con le forze ribelli guidate dall’ex vice-presidente, Riek Machar, è stata manifestata dopo il suo incontro con l’inviato speciale di Washington, Donald Booth, ed in concomitanza con la riconquista da parte delle forze regolari della importante città di Bor, a un centinaio di chilometri a nord della capitale, Juba.

Parlando da una chiesa cattolica al termine di una funzione natalizia, Kiir ha anche condannato le violenze commesse in suo nome. Nei giorni scorsi, infatti, si era diffusa la notizia che le forze armate fedeli al presidente erano state protagoniste di svariate atrocità ai danni di civili appartenenti all’etnia Nuer, facendo addirittura migliaia di morti.

Con l’aggravarsi dello scontro, in ogni caso, le Nazioni Unite hanno approvato questa settimana un consistente aumento del contingente di caschi blu in Sud Sudan, mentre giovedì a Juba è arrivata una delegazione dell’Unione Africana per cercare di favorire il dialogo tra le due parti in lotta e fermare un conflitto che ha già creato quasi centomila profughi. Sempre giovedì, anche il primo ministro etiope, Hailemariam Desalegn, e il presidente keniano, Uhuru Kenyatta, sono giunti in Sud Sudan per incontrare Salva Kiir.

Gli Stati Uniti, da parte loro, già settimana scorsa avevano inviato 45 soldati nella capitale per difendere la propria ambasciata ed evacuare i cittadini americani nel paese. Altri 150 Marines sono stati inoltre trasferiti dalla Spagna alla base di Camp Lemonnier, a Gibuti, da dove verranno inviati in Sud Sudan in caso di necessità.

Come è noto, la situazione nel Sudan del Sud era precipitata il 15 dicembre scorso in seguito ad alcuni scontri a fuoco nei pressi di Juba tra le forze governative e quelle fedeli a Machar, rimosso dalla carica di vice-presidente nel mese di luglio dopo aver dichiarato di volere sfidare Kiir nelle elezioni previste per il 2015. Machar aveva chiesto al presidente di farsi da parte dopo averlo accusato di avere violato ripetutamente la Costituzione, mentre Kiir, a sua volta, aveva subito accusato Machar di volere tentare un colpo di stato ai suoi danni.

Le ragioni politiche del conflitto si sono ben presto intrecciate alle tensioni settarie, con l’etnia Dinca - la più numerosa in Sud Sudan e alla quale appartiene il presidente - opposta a quella Nuer dell’ex vice-presidente Machar.

L’appoggio dell’Occidente (e degli Stati Uniti in particolare) continua ad essere garantito al governo di Salva Kiir, il cui Movimento Sudanese di Liberazione Nazionale al potere fin dall’indipendenza dal Sudan nel 2011 ha fatto però ben poco per alleviare la povertà e porre un freno alla corruzione dilagante nel paese.

Le divisioni tra Kiir e Machar risalgono a ben prima dell’indipendenza e la minaccia di quest’ultimo alla leadership del presidente aveva spinto il primo non solo a sollevare il suo vice dall’incarico ma anche a constringere al ritiro un centinaio di alti ufficiali per installare forze più fedeli ai vertici dell’esercito.

Le tendenze sempre più autoritarie di Kiir hanno poi contribuito alla formazione di un esercito parallelo vicino a Machar che negli ultimi giorni ha fatto segnare qualche importante successo militare, come la cacciata delle forze regolari in molte località negli stati nord-orientali di Jonglei, Unità e Alto Nilo.

Al di là dei proclami umanitari di questi giorni e degli scrupoli democratici ufficiali, l’interesse dei governi occidentali nel Sudan del Sud ha a che fare con importanti questioni strategiche legate a questo paese e, più in generale, all’intero continente africano.

Gli Stati Uniti sono stati i principali promotori degli accordi di pace che misero fine al conflitto sudanese, nel quale morirono più di due milioni di persone, portando nel 2011 all’indipendenza delle regioni meridionali da Khartoum. Alla base dell’appoggio di Washington all’indipendenza del Sud Sudan c’era soprattutto il desiderio di creare una nuova entità statale ricca di risorse del sottosuolo meglio disposta verso l’Occidente rispetto al regime del presidente Omar al-Bashir.

Il petrolio sudanese è infatti localizzato in gran parte nel sud e, prima della separazione, più della metà del greggio estratto era destinato alla Cina, il cui governo aveva instaurato legami politici ed economici estremamente solidi con Khartoum.

Fino ad ora, tuttavia, la penetrazione occidentale in Sud Sudan è stata inferiore alle aspettative. La nuova classe dirigente - e, in particolare, proprio le fazioni facenti capo al vice-presidente Machar - è tornata a rivolgersi a Pechino per investimenti e aiuti finanziari destinati a creare infrastrutture estremamente carenti. Inoltre, in assenza di rotte alternative, il petrolio estratto nel Sud Sudan continua a passare attraverso oleodotti situati nel Sudan per essere esportato.

La nuova crisi in Africa, dunque, potrebbe essere sfruttata ancora una volta dai governi occidentali per giustificare l’ennesimo intervento “umanitario” in questo continente, dopo quelli degli ultimi anni che hanno riguardato almeno Libia, Costa d’Avorio, Mali e Repubblica Centrafricana.

Tutti questi interventi hanno seguito la creazione nel 2007 del Comando militare Africano statunitense (AFRICOM), vero e proprio strumento di Washington nella corsa alle risorse del continente e alla lotta contro la crescente influenza cinese nell’ultimo decennio.

Nel caso del Sud Sudan, infine, la crisi a cui il mondo sta assistendo in questi giorni conferma quali siano le conseguenze disastrose delle macchinazioni degli Stati Uniti e dei loro alleati, ai quali va attribuita gran parte della responsabilità per le sofferenze patite dalla popolazione e per il sostanziale fallimento dell’esperimento di indipendenza di questo poverissimo paese nel cuore dell’Africa.

di Carlo Musilli

Il periodo di Ferragosto e quello di fine anno sono fratelli per varie ragioni. Le ferie, l'allegria forzata e le schifezze in Parlamento. Un grande classico dell'inciucio made in Italy prevede di aspettare il momento propizio per colpire, quello in cui la massa degli elettori ha il cervello occupato da ombrelloni o panettoni. Così è stato anche per quel capolavoro del decreto Salva-Roma, che il Governo si è convinto a ritirare dopo una richiesta di minima decenza da parte del Capo dello Stato. Risultato: oggi, determinato a non finire l'anno con la più misera delle figuracce, l'Esecutivo vara un bel Milleproroghe per mettere un tappo alle falle più ampie da cui entra acqua nella nave.

Certo, suona strano. Proprio ora che a capo del Pd c'è il rottamatore, il nuovo che avanza; ora che l'aggettivo "nuovo" compare perfino davanti al centrodestra di Angelino Alfano; ora che il premier Enrico Letta celebra la "svolta generazionale dei quarantenni"; proprio ora ci tocca tornare a leggere espressioni come decreto-omnibus e Milleproroghe. Ovvero quei tradizionali calderoni in cui, quando si appressa capodanno, chi governa infila un po' di tutto, vuoi per approfittare della distrazione generale, vuoi per rimediare in extremis alle inadempienze dei mesi precedenti. In altre parole, quanto di più rappresentativo si possa immaginare dello stile politico targato Prima Repubblica. Alla faccia del nuovo e della svolta generazionale.

Nella vetusta categoria degli omnibus rientrava a pieno titolo il Salva-Roma, in cui il Parlamento aveva stipato una quantità inverosimile di emendamenti per distribuire favori e prebende a un oceano di corporazioni, lobby e consorterie. Nonostante tutto, si fa davvero fatica a immaginare che qualcuno abbia avuto il coraggio di presentare una proposta di modifica al testo per legiferare sulle lampadine dei semafori, o per far passare una sanatoria sulle cabine e sui bungalow costruiti abusivamente in spiaggia. Eppure è accaduto, e decine di amenità simili sono state approvate dagli onorevoli.

Poi, in un gesto di purificazione natalizia, Giorgio Napolitano ha criticato il guazzabuglio parlamentare, convincendo il Governo a ritirare il decreto, che dunque scadrà il 30 dicembre. A livello puramente tecnico, per quanto clamorosa, si tratta di una marcia indietro pienamente legittima. Sul piano politico, tuttavia, la piroetta su ordine del Quirinale infligge un duro colpo alla credibilità dell'Esecutivo, che per accelerare i tempi e ottenere un risultato sicuro aveva posto la questione di fiducia sul provvedimento (mancava solo l'ultima votazione per la conversione in legge).

A questo punto, messi da parte semafori e bungalow, bisogna trovare il modo di approvare all'ultimo secondo le misure più importanti e urgenti fra quelle rimaste fuori dalla pentola della legge di Stabilità (licenziata lunedì dal Senato). Gli obiettivi cruciali sono almeno cinque.

Primo: fare pace con i Comuni sul capitolo Tasi (la componente sui servizi della nuova imposta unica comunale), alzando il tetto delle aliquote e stanziando nuovi fondi per consentire detrazioni sulle prime case. Secondo: regolare il pagamento e l'eventuale possibilità di detrarre la cosiddetta Imu residua, che andrà pagata entro il 24 gennaio ed è pari al 40% della differenza tra l'aliquota fissata dal sindaco e quella di base. Terzo: risolvere la questione sollevata dal M5S sugli affitti d'oro pagati dallo Stato nonostante l'ingente patrimonio immobiliare di cui dispone. Quarto: varare il vero Salva-Roma, spostando 400 milioni di debito del Campidoglio sulla gestione commissariale. Quinto: prorogare la misura antitrust che impedisce a chi possiede reti televisive di acquistare quote di giornali.

Nessuno di questi interventi può essere considerato una vera emergenza: non si tratta di problemi sorti in modo improvviso e inatteso, ma di questioni alle quali non si è voluto o non si è saputo dare risposta nei mesi passati. Ora ci si attende che il Consiglio dei ministri ripiani tutte queste situazioni facendo ricorso all'ennesimo decreto, e dunque all'ennesima forzatura della nostra Costituzione, la quale stabilisce che il Governo possa utilizzare questo strumento "in casi straordinari di necessità ed urgenza".

Purtroppo ormai il decreto - magari rinforzato da una bella fiducia in Aula - sembra l'unica strada legislativa realmente percorribile in Italia. Viene da chiedersi come faranno Esecutivo e Parlamento a varare quella sfilza di riforme - istituzionali e non - promessa solo pochi giorni fa da Letta. In fondo, Natale e Ferragosto arrivano solo due volte l'anno.


di Mario Lombardo

Dopo più di due mesi di scontro politico e proteste di piazza, la crisi che sta avvolgendo la Thailandia sembra destinata ad aggravarsi ulteriormente nelle prossime settimane che dovrebbero portare al voto anticipato. Nel fine settimana, infatti, la decisione del principale partito di opposizione di boicottare le elezioni è stata seguita dalla più imponente manifestazione finora tenuta contro il governo per forzare le dimissioni immediate della premier, Yingluck Shinawatra, e spianare di fatto la strada ad un nuovo colpo di stato.

Una folla di centinaia di migliaia di persone si è riversata per le strade di Bangkok nella giornata di domenica, finendo per accerchiare l’abitazione privata della premier che si trovava però nel nord del paese dove ha invece ricevuto un’accoglienza trionfale.

Successivamente, i manifestanti organizzati nel cosiddetto Comitato Popolare per la Riforma Democratica (PDRC) hanno cercato di impedire ai membri di svariati partiti di registrare le loro candidature per il voto che la stessa Yingluck aveva indetto per il 2 febbraio prossimo. La decisione di sciogliere la camera bassa era giunta in seguito alle dimissioni di massa dei parlamentari del Partito Democratico di opposizione.

Alcuni esponenti del partito Pheu Thai di governo e di altri partiti sono però riusciti a raggiungere gli uffici della commissione elettorale e una stazione di polizia nella capitale, registrandosi con successo per apparire sulle schede elettorali. Secondo il Bangkok Post, al termine del primo giorno utile per la registrazione, solo 9 dei 34 partiti che parteciperanno al voto hanno potuto registrare alcuni dei loro candidati. Lunedì, poi, i vertici del Pheu Thai hanno come previsto ribadito la fiducia nell’attuale primo ministro, confermando la sua candidatura anche per la guida del prossimo governo.

Il Partito Democratico, nonostante le divisioni interne circa la strategia da seguire, ha deciso invece di non prendere parte al voto e di continuare ad appoggiare le proteste contro il governo, rischiando però di infiammare ancora di più la situazione e di finire isolato politicamente dopo che il suo ultimo successo elettorale risale a oltre due decenni fa.

Uno dei principali leader della protesta, l’ex deputato del Partito Democratico e già vice-premier Suthep Thaugsuban, ha inoltre anch’egli gettato benzina sul fuoco nel fine settimana, promettendo di bloccare l’intero paese per impedire il voto e di “dare la caccia a Yingluck” finché non si dimetterà o, se non dovesse farlo, “fino alla sua morte”.

Suthep e il PDRC chiedono da tempo, oltre alle dimissioni immediate del gabinetto Yingluck, la creazione di un “consiglio del popolo” non eletto che nomini un nuovo governo e proceda con una serie di “riforme” per eliminare l’influenza del clan Shinawatra in Thailandia. L’attuale premier, come è noto, è la sorella dell’ex primo ministro Thaksin Shinawatra, da anni in esilio volontario dopo una condanna a suo carico per corruzione e abuso di potere, a suo dire motivata politicamente.

L’opposizione del Partito Democratico, gli ambienti reali e militari vedono con estremo sospetto la macchina politica costruita attorno a Thaksin, in grado da oltre un decennio di mettere in discussione i tradizionali centri di potere thailandesi grazie alla creazione di una base elettorale nelle aree rurali più povere ed emarginate nel nord del paese attraverso modeste politiche di riforma sociale.

L’impossibilità di combattere all’interno delle regole elettorali la famiglia Shinawatra e i suoi sostenitori organizzati nel Fronte Unito per la Democrazia contro la Dittatura ha così spinto l’opposizione politica e di piazza a promuovere una soluzione autoritaria che rimetterebbe le sorti del paese nelle mani dei militari e della monarchia. Ciò è d’altra parte già accaduto svariate volte negli ultimi decenni e, più recentemente, nel 2006 e nel 2008, quando due golpe, rispettivamente condotto dai militari e dal potere guidiziario, rimossero il governo di Thaksin e un altro guidato dai suoi sostenitori.

Dopo i fatti del 2010, quando manifestazioni di protesta a Bangkok animate questa volta dalle “camicie rosse” pro-Thaksin vennero represse nel sangue dal governo del Partito Democratico insediatosi grazie al golpe del 2008, c’è oggi molta apprensione per le conseguenze di un nuovo colpo di stato in Thailandia. Tanto più che gli stessi sostenitori del governo continuano a dirsi pronti ad intervenire per impedire un colpo di mano dei militari e degli ambienti monarchici.

Lo stesso governo sembra temere che la situazione possa sfuggire di mano nel caso l’opposizione dovesse forzare la mano ai militari, tanto che la premier nei giorni scorsi ha risposto al boicottaggio del Partito Democratico con una propria proposta per risolvere la crisi. Yingluck ha cioè ipotizzato la creazione di un “consiglio per la riforma” dopo le elezioni di febbraio. Anche questo organo sarebbe non elettivo e dovrebbe però comprendere esponenti di tutte le parti politiche e della società civile.

Il successo dei manifestanti anti-Thaksin, in ogni caso, dipenderà quasi certamente dalla posizione che decideranno di assumere le forze armate thailandesi. I vertici di queste ultime negano di avere chiesto alla premier Yingluck di fare un passo indietro e, per il momento, continuano ad appoggiare ufficialmente la soluzione elettorale che, tuttavia, difficilmente riuscirà a risolvere le profonde divisioni che attraversano il paese del sud-est asiatico.

di Michele Paris

Solo poche ore dopo le rassicurazioni pubbliche del presidente Obama circa il rispetto da parte del governo americano delle norme sulla privacy e delle libertà civili, nel fine settimana tre giornali negli Stati Uniti e in Europa hanno pubblicato una serie di nuovi documenti riservati dell’NSA che hanno contribuito ulteriormente a chiarire la pervasività e le ragioni dei programmi di sorveglianza in tutto il pianeta.

L’inquilino della Casa Bianca si è impegnato nell’ennesimo tentativo di nascondere la realtà mostrata dalle rivelazioni di Edward Snowden, cercando di dare rassicurazioni sulla legittimità delle operazioni dell’NSA e di motivarle ancora una volta con la necessità di proteggere gli americani da un nuovo 11 settembre.

Quest’ultima pretesa era stata clamorosamente smentita nei giorni scorsi dalla sentenza di un giudice federale del District of Columbia che, dopo avere bollato come incostituzionali i programmi di sorveglianza telefonica dell’NSA, aveva spiegato che il governo non ha mai presentato alcuna prova della loro efficacia nel prevenire un solo attentato terroristico.

Non solo, la stessa commissione speciale nominata dal presidente per raccomandare una serie di proposte di “riforma” dell’NSA, nel presentare le proprie conclusioni qualche giorno fa ha sostenuto eufemisticamente che le informazioni raccolte su centinaia di milioni di persone negli USA e all’estero non sono risultate “essenziali per prevenire attacchi”. Nel corso della conferenza stampa di venerdì, infine, anche Obama non è stato in grado di citare un solo attentato sventato grazie alle intercettazioni di massa.

A confermare che l’apparato spionistico, costruito dal governo degli Stati Uniti e dai suoi principali alleati per controllare le popolazioni di tutto il mondo, non ha dunque praticamente nulla a che vedere con la lotta al terrorismo ha contribuito la pubblicazione nella serata di venerdì di nuovi documenti forniti da Snowden sul New York Times, il britannico Guardian e il tedesco Der Spiegel.

In essi viene descritto come l’NSA e la sua corrispondente britannica GCHQ (General Communications Headquarters) abbiano tenuto sotto controllo tra il 2008 e il 2011 non solo una serie di personalità politiche di paesi spesso alleati - come era emerso in precedenza per Angela Merkel e la presidente brasiliana Dijlma Rousseff - e organizzazioni umanitarie ma anche e soprattutto i vertici di grandi aziende straniere.

Oltre all’ufficio dell’ex premier israeliano, Ehud Olmert, e dell’ex ministro della Difesa di Tel Aviv, Ehud Barak, tra gli obiettivi dell’intelligence statunitense c’è stato l’ex ministro socialista spagnolo Joaquín Almunia, il quale nel ruolo di commissario europero per la concorrenza è stato protagonista di procedimenti anti-trust ai danni di importanti corporations americane, come Microsoft, Intel e Google.

Nel settore privato, alle precedenti rivelazioni relative alle intercettazioni ai danni del colosso petrolifero pubblico brasiliano Petrobras se ne sono aggiunte ora altre che riguardano le francesi Total e Thales. Quest’ultima è una compagnia parzialmente pubblica che fornisce sistemi elettronici, aerospaziali e militari a molti governi in tutto il mondo.

A fronte di queste rivelazioni, l’NSA ha nuovamente smentito l’evidenza, negando che l’agenzia di Fort Meade, nel Maryland, sia impegnata in operazioni di spionaggio industriale “a favore di compagnie americane per migliorare la loro competitività internazionale”.

Allo stesso tempo, però, una portavoce della stessa agenzia ha indirettamente ammesso proprio quanto aveva negato poco prima, affermando che “lo sforzo dell’intelligence per comprendere le politiche e i sistemi economici, così come per monitorare attività economiche anomale, risulta cruciale per garantire alla politica le informazioni necessarie per prendere decisioni nell’interesse della nostra sicurezza nazionale”.

In altre parole, l’NSA non è altro che lo strumento della partnership tra la politica di Washington e le grandi corporation americane per promuovere gli interessi e i profitti di queste ultime su scala planetaria. Nei mesi scorsi, d’altra parte, alcune rivelazioni di Snowden avevano confermato come le principali compagnie di telecomunicazioni e di servizi internet negli USA avessero collaborato senza troppi scrupoli, se non per la propria immagine pubblica, con la stessa NSA.

Questi ultimi documenti sembrano dunque chiudere il cerchio, contribuendo a delineare un sistema sempre più autoritario e anti-democratico, basato sugli interessi dell’oligarchia economica e finanziaria d’oltreoceano che, per tenere sotto controllo qualsiasi forma di opposizione interna ed esterna, ha bisogno di sorvegliare virtualmente tutta la popolazione del pianeta.

di Michele Paris

Senza nessuna particolare sorpresa, il Senato americano ha approvato definitivamente il nuovo bilancio federale che stabilisce i livelli di spesa del governo di Washington fino al settembre del 2015. Il pacchetto licenziato rapidamente dal Congresso è il risultato dei negoziati durati svariate settimane all’interno di una speciale commissione bipartisan creata dopo la fine del cosiddetto “shutdown” lo scorso mese di ottobre e rappresenta un’ulteriore tappa nel processo di drastico ridimensionamento dei livelli di spesa pubblica negli Stati Uniti.

La settimana scorsa la nuova legge sul bilancio era passata agevolmente alla Camera dei Rappresentanti con 332 voti favorevoli e 94 contrari. Martedì, poi, il Senato aveva dapprima superato un ostacolo procedurale (“filibuster”) con 7 voti in più del necessario (67 a 33), grazie ad una manciata di repubblicani che si erano uniti ai 55 democratici, mentre il giorno successivo ha votato sul provvedimento vero e proprio, approvandolo con un margine di 64 a 36 e inviandolo al presidente Obama per la firma.

La commissione del Congresso che ha raggiunto un accordo sulle nuove misure contenute nel bilancio è presieduta dai presidenti delle commissioni Bilancio di Camera e Senato, rispettivamente il repubblicano Paul Ryan e la democratica Patty Murray. Questa assemblea è stata il risultato dell’intesa temporanea raggiunta un paio di mesi fa per riaprire gli uffici governativi dopo lo “shutdown” di due settimane nella prima metà di ottobre, causato dalla mancata approvazione del bilancio entro l’inizio del nuovo anno fiscale.

Secondo i propositi iniziali e gli auspici della Casa Bianca, la commissione avrebbe dovuto mandare in porto un accordo di ampio respiro, gettando le basi per una “riforma” (smantellamento) dei programmi di assistenza pubblica come Medicare, Medicaid e Social Security, indicati da quasi tutto l’establishment politico di Washington come i principali responsabili dell’esplosione del debito pubblico statunitense.

Con l’avvio delle trattative, tuttavia, quest’ultimo obiettivo è apparso difficilmente raggiungibile, sia per i tempi molto stretti nei quali la commissione era chiamata ad operare, sia soprattutto per l’estrema impopolarità di eventuali tagli a programmi che garantiscono cure mediche e condizioni di vita decenti a decine di milioni di americani.

Alla fine, l’accordo trovato tra democratici e repubblicani ha dovuto lasciar fuori gli assalti a Medicare, Medicaid e Social Security, anche se le iniziative per rendere questi programmi “sostenibili” nel lungo periodo sono solo rimandate. Anzi, il bilancio appena approvato con un consenso bipartisan faciliterà il compito del Congresso nell’adottare tagli a cui si oppone la grande maggioranza della popolazione.

In ogni caso, relativamente al contenuto del pacchetto appena approvato, l’aspetto più significativo riguarda una misura che da esso è rimasta esclusa, vale a dire il prolungamento dei sussidi straordinari destinati ai disoccupati e che il Congresso aveva aggiunto fin dal 2009 a quelli di breve durata previsti dai singoli stati.

In seguito soprattutto alla ferma opposizione repubblicana, così, il prossimo 28 dicembre 1,3 milioni di disoccupati americani cesseranno di ricevere l’unico reddito a loro disposizione. Inoltre, se nei prossimi mesi non ci sarà un intervento del Congresso, altri 3,6 milioni di persone senza lavoro subiranno la stessa sorte entro la fine del 2014.

La decisione di negare i modesti mezzi di sussistenza a questa categoria di americani appare particolarmente brutale alla luce del fatto che mai dalla fine della Seconda Guerra Mondiale a oggi i sussidi addizionali del governo federale erano stati interrotti in presenza di una percentuale così elevata di disoccupazione di lungo periodo (oltre le 27 settimane).

Il disinteresse della classe politica d’oltreoceano per i senza lavoro risulta inoltre chiara dalla somma che sarebbe servita per prolungare i sussidi, pari a 25 miliardi di dollari e corrispondente, ad esempio, ad una frazione minima degli oltre 500 miliardi di dollari stanziati annualmente per le spese militari o a poco più di quanto la Federal Reserve destina in una singola settimana per alimentare la speculazione sui mercati finanziari.

Tra i provvedimenti adottati con il consenso delle principali lobby degli affari, invece, spicca la riduzione del 2% fino al 2023 dei rimborsi destinati agli ospedali che forniscono servizi sanitari nell’ambito del programma pubblico Medicare. Questa misura contribuirà a ridurre il deficit di 23 miliardi di dollari e, inevitabilmente, si tradurrà in una riduzione delle cure offerte ai pazienti.

Inoltre, a partire dal 1° gennaio i dipendenti pubblici vedranno aumentare dell’1,3% i contributi da versare di tasca propria ai loro piani pensionistici, dopo che negli ultimi anni hanno già dovuto subire, tra l’altro, il congelamento delle retribuzioni e svariati giorni di congedo obbligato non pagato.

Per i militari in pensione è previsto poi un nuovo metodo di calcolo per l’adeguamento dei loro assegni al costo della vita, con un risparmio per le casse federali pari a 6 miliardi di dollari. Altri 12,6 miliardi saranno infine recuperati attraverso un aumento della tassazione delle compagnie aeree, che verrà prevedibilmente scaricato sui passeggeri.

Più in generale, il nuovo bilancio cancella solo una piccola parte dei tagli automatici alla spesa pubblica (“sequester”) scattati alcuni mesi fa in assenza di un accordo tra democratici e repubblicani sul debito, come stabilito da una legge del 2011. A beneficiare della metà dei 63 miliardi di dollari che il governo tornerà così a poter spendere fino al 30 settembre 2015 saranno però i programmi militari, mentre gli altri tagli del “sequester” previsti per il prossimo decennio e pari a oltre mille miliardi di dollari rimarranno in vigore.

Anche se, complessivamente, le uscite del governo federale saliranno lievemente tra il 2014 e il 2015, appare evidente come il bilancio approvato questa settimana aggiunga un altro tassello al progressivo ridimensionamento dei livelli di spesa pubblica destinata alle classi più deboli negli Stati Uniti.

Questo processo è sostanzialmente condiviso da tutta la classe politica americana e si traduce in provvedimenti che, una volta creata ad arte un’utile atmosfera di crisi, vengono presentati come inevitabili per rimettere in sesto i conti pubblici, nonostante i profitti di banche e corporations e la ricchezza privata al vertice della piramide sociale continuino a far segnare numeri da record.

Prima del bilancio licenziato questa settimana senza il prolungamento dei sussidi di disoccupazione, ad esempio, il Congresso lo scorso mese di novembre aveva tagliato per la prima volta nella storia a livello nazionale i fondi destinati al finanziamento dei buoni pasto, togliendo letteralmente il pane di bocca a quasi 50 milioni di poveri americani.


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