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di Michele Paris
La ripresa dei colloqui questa settimana tra l’Iran e il gruppo dei cosiddetti P5+1 (USA, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) sul nucleare di Teheran era stata anticipata da un inasprimento dei toni da parte del governo americano e dal conseguente pessimismo manifestato dai vertici della Repubblica Islamica per un esito positivo. L’incontro di tre giorni a Vienna, concluso nella giornata di giovedì, è stato il primo tentativo di trovare un accordo di ampio respiro dopo quello temporaneo della durata di sei mesi andato in porto lo scorso mese di novembre.
Iniziato martedì, il vertice ha visto nel corso del primo giorno di colloqui un faccia a faccia di quasi un’ora e mezza tra il vice-capo della delegazione dell’Iran e la numero uno di quella degli Stati Uniti, rispettivamente il vice-ministro degli Esteri, Abbas Araghchi, e la sottosegretaria di Stato, Wendy Sherman. Nei giorni successivi, invece, nuove sessioni sono state condotte con i rappresentanti delle altre potenze coinvolte, senza che alla fine siano stati annunciati significativi passi avanti.
Secondo i partecipanti all’incontro nella capitale austriaca, questa prima fase del negoziato è servita a creare la struttura all’interno della quale verranno negoziate le questioni più delicate alla base di un eventuale accordo. A Vienna è stata decisa anche la data del prossimo incontro e la cadenza per quelli successivi. I rappresentanti dell’Iran e dei P5+1 si incontreranno nuovamente in Austria tra il 17 e il 20 di marzo e in seguito verrà organizzato un vertice ogni mese per provare a definire i contorni dell’accordo.
I principi che guideranno i negoziatori per superare le sostanziali differenze che caratterizzano le posizioni delle due parti non sono stati resi noti, anche se i delegati hanno annunciato per venerdì mattina una conferenza stampa congiunta tra il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, e la numero uno della diplomazia UE, Catherine Ashton, nella quale dovrebbe essere rivelato qualche dettaglio in più dei primi risultati dei colloqui appena terminati.
Il punto di partenza dei negoziati è comunque l’intesa provvisoria raggiunta a novembre ed entrata in vigore a gennaio, che prevede una certa limitazione dell’attività di arricchimento dell’uranio da parte dell’Iran in cambio di un modesto alleggerimento di alcune sanzioni economiche, grazie al quale il governo di Teheran potrà recuperare, tra l’altro, 4,2 miliardi di dollari degli oltre 100 che gli appartengono e che sono congelati su conti esteri.
L’atmosfera generale registrata a Vienna, nonostante l’apparente cordialità, è apparsa all’insegna di una certa diffidenza, sottolineata dalla conferma da parte di Araghchi di come lo smantellamento delle installazioni nucleari e dell’intero programma creato in questi anni non sia sull’agenda dei colloqui, come invece auspicherebbero alcuni governi occidentali o, ad esempio, il Congresso di Washington.
Il ministro degli Esteri Zarif ha comunque affermato che i colloqui sono “iniziati nel modo giusto” e che uno degli obiettivi condivisi è stato quello di consentire al suo paese di sviluppare un programma nucleare “esclusivamente pacifico”. Zarif ha però rimproverato gli Stati Uniti per avere discusso nelle scorse settimane la possibilità di approvare nuove sanzioni contro Teheran, creando “molta preoccupazione in Iran”.Decisamente meno ottimista era apparso lunedì la guida suprema della Repubblica Islamica, ayatollah Ali Khamenei, il quale aveva affermato che i colloqui “non andranno da nessuna parte”, ribadendo tuttavia la sua intenzione di non ostacolarli, coerentemente con la volontà manifestata da tempo di raggiungere un accomodamento con gli Stati Uniti e l’Occidente. Khamenei ha anche riassunto correttamente l’approccio americano alla questione del nucleare iraniano, utilizzato cioè da Washington come una “scusa per intimidire e destabilizzare” il suo paese.
D’altra parte, nelle settimane trascorse tra il raggiungimento dell’accordo temporaneo e l’inizio della nuova fase dei negoziati, svariati membri dell’amministrazione Obama – a cominciare dallo stesso presidente – avevano, tra l’altro, prospettato un attacco militare contro l’Iran, ribadito la validità delle sanzioni economiche in essere, penalizzato alcune compagnie accusate di averle violate e minacciato altre che avevano sondato il terreno per tornare a fare affari a Teheran, nonché aumentato l’impegno a favore dei “ribelli” siriani che si battono contro il regime di Bashar al-Assad, vale a dire il principale alleato della Repubblica Islamica.
A rendere sufficientemente chiare le intenzioni americane era stata poi la stessa Sherman in una recente apparizione al Senato di Washington. Durante la sua testimonianza di fronte a molti “falchi” del Congresso, la diplomatica statunitense aveva assicurato che la delegazione da lei guidata avrebbe chiesto il pressoché totale smantellamento del programma nucleare iraniano e di sottoporre quanto dovrebbe rimanere in attività ad un regime ispettivo estremamente invasivo.
Non solo, la lista delle richieste USA all’Iran potrebbe includere anche molto altro, come la fine del sostegno alla Siria, a Hezbollah in Libano e ad alcune formazioni palestinesi come la Jihad Islamica, ma anche la soppressione del programma domestico di difesa missilistica in fase di sperimentazione.
Questo atteggiamento dell’amministrazione Obama conferma perciò come gli Stati Uniti intendano utilizzare gli sforzi diplomatici non per raggiungere un accordo basato sul riconoscimento delle legittime aspirazioni iraniane, bensì come strumento solo momentaneamente alternativo alla minaccia militare.
La strada diplomatica, cioè, per gli USA resterà percorribile solo se l’Iran dovesse piegarsi interamente alle loro richieste e integrarsi in un sistema strategico mediorientale allineato agli interessi di Washington. In caso contrario, tornerà a prevalere l’opzione militare e la campagna per il cambio di regime a Teheran.Questa impressione è stata rafforzata proprio in questi giorni, quando un portavoce della Casa Bianca ha ammesso che gli USA chiederanno all’Iran di affrontare anche la questione dei missili balistici nel corso dei negoziati. Ufficialmente, le preoccupazioni occidentali sarebbero legate alla possibile installazione di testate nucleari su missili a lungo raggio, mentre questo programma ha per l’Iran una funzione puramente difensiva di fronte alle minacce di aggressione lanciate regolarmente dai propri nemici, a cominciare da Israele.
Teheran, da parte sua, sempre attraverso il vice-capo della delegazione inviata questa settimana a Vienna, ha già dichiarato chiaramente che “le questioni difensive non sono negoziabili né soggette a compromesso”, così che l’Iran “non discuterà di argomenti diversi dal dossier nucleare durante i colloqui”.
Che quest’ultima questione possa diventare un’altra arma per fare pressioni sull’Iran, minacciando di far naufragare i negoziati, è confermato infine anche dal fatto che alcuni senatori americani hanno già presentato una bozza di legge per spingere la Casa Bianca ad includere nell’accordo finale sul nucleare di Teheran la rinuncia al proprio programma missilistico di difesa, come previsto peraltro da una più che discutibile risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
A dare forza agli argomenti americani aveva contribuito proprio settimana scorsa l’annuncio da parte della Repubblica Islamica di avere testato con successo due missili balistici – costruiti in Iran dopo lo stop alla fornitura dei sofisticati S-300 da parte della Russia – con una portata stimata di almeno 1.500 km.
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di Mario Lombardo
Il rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Corea del Nord diffuso lunedì a Ginevra è stato accolto con il previsto clamore da parte della “comunità internazionale”, al cui interno gli Stati Uniti e i loro alleati hanno salutato la minaccia da parte della speciale commissione di inchiesta di raccomandare l’incriminazione del giovane leader di Pyongyang, Kim Jong-un, presso la Corte Penale Internazionale.
Come ampiamente riportato dai media di tutto il mondo, l’indagine coordinata dall’ex giudice australiano Michael Kirby ha elencato i consueti crimini attribuiti al regime stalinista, dalle torture sistematiche alle detenzioni nei campi di lavoro, dalle esecuzioni arbitrarie agli aborti forzati, dalle violenze sessuali alla privazione del cibo come forma di “controllo sulla popolazione”.
Lo stesso rapporto non ha poi risparmiato considerazioni molto dure sulla Corea del Nord, affermando ad esempio che “la gravità, le dimensioni e la natura delle violazioni [dei diritti umani] rivelano una situazione che non ha eguali nella storia contemporanea”. Kirby, da parte sua, ha paragonato i metodi impiegati dal regime di Pyongyang a quelli della Germania nazista, dichiarando apertamente che l’obiettivo del rapporto è quello di “sollecitare azioni da parte della comunità internazionale”.
L’azione intrapresa dall’ONU questa settimana nei confronti della Corea del Nord si inserisce infatti nel quadro della campagna condotta dagli Stati Uniti e dagli altri governi occidentali per destabilizzare il regime di Kim Jong-un e, ancor più, per fare pressioni sull’unico alleato di quest’ultimo, la Cina.
Pechino, d’altra parte, viene eccezionalmente nominata dal rapporto e criticata, tra l’altro, per avere rimpatriato rifugiati nordcoreani pur essendo a conoscenza della sorte a cui essi sarebbero andati incontro e, più in generale, per avere fornito collaborazione nella messa in atto di crimini contro l’umanità.Vittima designata della giustizia selettiva delle Nazioni Unite con il beneplacito degli Stati Uniti, la Corea del Nord non appare certo un modello di democrazia e molti dei crimini enumerati nel rapporto presentato a Ginevra sono stati e continuano indubbiamente ad essere commessi.
Le intenzioni della commissione di inchiesta presieduta dal giudice Kirby sono però quasi interamente di natura politica, come confermano sia le modalità di raccolta delle informazioni riportate nel rapporto sia la parzialità della storia raccontata al mondo per dipingere la situazione dell’isolato e impoverito paese dell’Asia nord-orientale.
Il resoconto dei crimini commessi dal regime, per cominciare, si basa esclusivamente sulle testimonianze degli esuli nordcoreani, soprattutto di stanza nella Corea del Sud, dove questa comunità viene spesso influenzata o manipolata da ambienti anti-comunisti ultra-reazionari e del fondamentalismo cristiano, se non direttamente dai servizi segreti di Seoul. Il regime nordcoreano, infatti, non aveva concesso ai membri della commissione ONU di operare sul proprio territorio.
In merito ad alcune accuse specifiche, inoltre, l’ONU, pur indirizzando pesanti critiche alla Cina, esula gli Stati Uniti da ogni responsabilità. Ciò appare evidente soprattutto in relazione alla questione alimentare e alle violazioni del “diritto al cibo” dei cittadini nordcoreani.
Le numerose carestie che negli anni hanno fatto centinaia di migliaia di morti in questo paese sono da attribuire in primo luogo al blocco economico imposto proprio da Washington a partire dalla fine del conflitto del 1953 come arma per isolare e destabilizzare il regime stalinista.
Le sanzioni sono state poi costantemente inasprite in seguito al crollo dell’Unione Sovietica, nell’ambito della strategia statunitense di penetrazione in Asia orientale, quasi sempre facendo leva sulla questione dei diritti umani, sulle provocazioni di Pyongyang o sull’avanzamento del programma nucleare militare. Una situazione, quest’ultima, che ha alimentato il senso di assedio del regime e le conseguenti misure repressive adottate per conservare il potere.
Sul fronte delle accuse rivolte a Pechino per avere rimpatriato i profughi nordcoreani, poi, la Cina condivide il ricorso a politiche simili con molti altri governi anche occidentali o, ad esempio, con la stessa Australia del giudice Kirby, responsabile di rimpatri forzati verso Indonesia, Papua Nuova Guinea e altri paesi del sud-est asiatico.
Più in generale, la creazione della commissione di inchiesta ONU e il possibile rinvio di Kim Jong-un alla Corte Penale dell’Aia confermano l’attitudine di questi organi internazionali a perseguire una giustizia a senso unico, quasi sempre volta a favorire gli interessi imperialistici degli Stati Uniti o delle altre potenze loro alleate.
Nessuna commissione di inchiesta è stata infatti creata per individuare le responsabilità di crimini colossali come le aggressioni di Afghanistan o Iraq che hanno causato devastazione sociale e milioni di morti tra le popolazioni civili. Entrambe le avventure belliche degli USA – la seconda delle quali anche formalmente illegale dal punto di vista del diritto internazionale – rientrano oltretutto nella definizione di “guerra di aggressione”, condannata dai principi di Norimberga in seguito al processo per i crimini nazisti evocati a Ginevra dal giudice Kirby.
L’obiettivo del rapporto sulla Corea del Nord sembra essere dunque quello di preparare l’opinione pubblica internazionale ad una probabile prossima escalation di pressioni e provocazioni nei confronti del regime di Kim Jong-un, con una strategia consolidata che fa puntualmente riferimento ai principi umanitari, come accadde, ad esempio, alla vigilia del bombardamento NATO della Serbia nel 1999 e della stessa invasione dell’Iraq nel 2003, anticipati da campagne di demonizzazione contro Slobodan Milosevic e Saddam Hussein.Tramite la condanna della Corea del Nord, in questo caso, l’attenzione viene dirottata in particolare sulla Cina, al centro della “svolta” strategica statunitense in Estremo Oriente. Non a caso, d’altra parte, proprio alla vigilia della presentazione del rapporto ONU, il segretario di Stato americano John Kerry, nel corso di una visita a Pechino aveva nuovamente invitato i leader cinesi a esercitare tutte le pressioni possibili per costringere il loro vicino nord-orientale ad abbandonare il proprio programma nucleare.
Ben consapevole dello scenario in cui si colloca il rapporto ONU, nella giornata di martedì il governo cinese ha definito “critiche ingiuste” quelle mossegli contro dalla commissione d’inchiesta sulla Nord Corea. Una portavoce del ministero degli Esteri di Pechino ha poi affermato che “la politicizzazione della questione dei diritti umani non fa nulla” per migliorare la condizione di questi ultimi in un determinato paese.
La Cina, infine, non ha confermato la propria volontà di esercitare il potere di veto nel caso il rapporto ONU dovesse approdare al Consiglio di Sicurezza per un eventuale voto su ulteriori sanzioni ai danni di Pyongyang. È sensazione comune degli osservatori, tuttavia, che Pechino bloccherà ogni azione motivata politicamente che possa danneggiare l’alleato nordcoreano e determinare un arretramento nei confronti degli Stati Uniti su una questione cruciale per la propria sicurezza nazionale.
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di Michele Paris
I lavoratori americani della fabbrica Volkswagen di Chattanooga, nel Tennessee, qualche giorno fa hanno inflitto un colpo pesantissimo al sindacato automobilistico UAW (United Automobile Workers) e alle sue ambizioni di allargare la propria presenza nel sud degli Stati Uniti per fronteggiare la continua emorragia di iscritti tra le proprie fila. Relativamente a sorpresa, nell’impianto della compagnia tedesca una netta maggioranza dei dipendenti ha infatti votato contro l’ingresso della UAW nella loro fabbrica.
Dopo tre giorni di consultazioni, quasi il 90 per cento dei dipendenti ha espresso il proprio parere sulla questione e, con una maggioranza di 712 a 626, il sindacato automobilistico americano è stato alla fine pesantemente sconfitto. L’esito del voto è apparso a molti sorprendente, dal momento che la UAW aveva investito ingenti risorse per accedere alla struttura di Chattanooga e, soprattutto, perché la dirigenza della Volkswagen aveva mantenuto un approccio neutrale se non, addirittura, espresso una tacita approvazione al processo di sindacalizzazione.
I vertici Volkswagen, in particolare, erano e sono tuttora impegnati a promuovere la creazione anche negli Stati Uniti di “consigli di fabbrica” sul modello tedesco. Per fare ciò, tuttavia, secondo la legge USA è necessario che i lavoratori di una determinata fabbrica siano rappresentati da un sindacato.
Secondo i commenti apparsi in questi giorni sui media ufficiali d’oltreoceano, il modello dei “consigli”, che la Volkswagen impiega praticamente in tutti i suoi più di 100 impianti nel mondo, avrebbe permesso di aumentare la produttività della compagnia attraverso la collaborazione con i lavoratori.
In realtà, questi organi, dove siedono assieme alla dirigenza aziendale i rappresentanti di operai e impiegati, servono fondamentalmente a reprimere qualsiasi forma di opposizione alle decisioni dei vertici delle compagnie dietro la facciata della cosiddetta “co-gestione” e in cambio di modeste concessioni.
Avendo già svolto questo ruolo nei confronti dei propri iscritti a Detroit, la UAW aveva convinto la Volkswagen ad appoggiare i propri sforzi per accedere alla fabbrica del Tennessee, così da mettere le mani su nuovi contributi da prelevare dagli stipendi dei lavoratori e aprire una breccia negli stati meridionali degli Stati Uniti, dove tradizionalmente prevale uno spirito anti-sindacale.
Per fare ciò, il presidente del sindacato automobilistico, Bob King, aveva anche cercato di aggirare la legge, sostenendo che la presenza della sua organizzazione non doveva essere certificata da un voto, visto che alcuni mesi fa la maggioranza dei dipendenti della fabbrica aveva espresso per iscritto il proprio favore alla presenza della UAW.
Dopo il voto, così, il numero uno della Volkswagen di Chattanooga, Frank Fischer, si è detto addolorato per i risultati, mentre lo stesso King ha annunciato di volere considerare un’azione legale contro coloro che avrebbero “avvelenato il clima e impedito un voto regolare”.Il presidente della UAW ha fatto riferimento soprattutto ad alcuni politici repubblicani che nelle settimane precedenti la consultazione si erano impegnati in un’accesa campagna anti-sindacale. Il governatore dello stato, Bill Haslam, aveva ad esempio sostenuto che i possibili fornitori della fabbrica non avrebbero aperto impianti nell’area di Chattanooga se i lavoratori Volkswagen avessero votato per il sindacato.
Il senatore del Tennessee nonché ex sindaco di Chattanooga, Bob Corker, aveva invece rivelato come i vertici Volkswagen gli avessero confessato che, sempre in caso di voto a favore della UAW, l’apertura prevista di una nuova linea di produzione sarebbe stata dirottata verso un altro stabilimento, quasi certamente in Messico. Da parte sua, la Volkswagen aveva smentito il senatore repubblicano, affermando che “non esiste alcun legame tra la decisione dei nostri dipendenti di Chattanooga… e la costruzione di un nuovo prodotto per il mercato americano”.
Il senatore statale, Bo Watson, aveva poi promesso che l’assemblea legislativa del Tennessee non avrebbe approvato ulteriori benefici fiscali per la Volkswagen se i lavoratori avessero accettato il sindacato in fabbrica, mettendo in dubbio i piani di investimento dell’azienda a Chattanooga.
Se la propaganda degli ambienti più reazionari del sud degli Stati Uniti per convincere i dipendenti della Volkswagen può avere avuto un qualche peso, è in primo luogo la storia recente della UAW ad averli convinti a lasciare questo sindacato fuori dai cancelli della loro fabbrica.
A riassumere lo stato d’animo dei lavoratori nel recarsi al voto è stato proprio uno di questi ultimi sentito dal New York Times, al quale ha affermato che la maggior parte dei suoi colleghi è convinta che la UAW abbia profondamente danneggiato i lavoratori del settore auto di Detroit. In altre parole, gli operai di Chattanooga sono perfettamente a conoscenza di come la UAW abbia favorito la chiusura di fabbriche e la scomparsa di migliaia di posti di lavoro nella metropoli del Michigan, così come la drastica riduzione dei livelli retributivi e la distruzione delle conquiste dei lavoratori.
La “ristrutturazione” di General Motors e Chrysler attraverso la bancarotta forzata voluta dall’amministrazione Obama nel 2009 è stata possibile solo grazie alla collaborazione del sindacato che si è tradotta, tra l’altro, nel dimezzamento degli stipendi per i neo-assunti e nella virtuale soppressione della giornata lavorativa di 8 ore.
Molti operai sentiti dai giornali durante le operazioni di voto a Chattanooga avevano fatto notare come la Volkswagen paghi attualmente in media 19,5 dollari l’ora, vale a dire circa 5 dollari in più rispetto ai dipendenti assunti negli ultimi anni nelle fabbriche di Detroit rappresentate dalla UAW. Il timore diffuso, perciò, è che l’ingresso in azienda di quest’ultima avrebbe potuto innescare nel prossimo futuro un processo di adeguamento verso il basso delle retribuzioni.
Nelle dichiarazioni precedenti il voto di settimana scorsa e nei documenti ufficiali, d’altra parte, i vertici della UAW avevano prospettato proprio un’evoluzione simile se richiesta dall’azienda, in linea con il ruolo svolto a Detroit. Negli accordi con la Volkswagen per la presenza sindacale a Chattanooga, tra l’altro, sarebbe stato previsto che la UAW si sarebbe impegnata a “mantenere e, dove possibile, a migliorare la competitività e il vantaggio relativo ai costi di produzione sui concorrenti negli Stati Uniti e in Nordamerica”.In un’apparizione pubblica, Bob King aveva poi offerto i servizi della sua organizzazione al management Volkswagen in vista della creazione dei “consigli di fabbrica”. Il numero uno della UAW aveva cioè rassicurato circa la disponibilità a “lavorare assieme alla compagnia per ottenere il più alto livello qualitativo e la più alta produttività” attraverso “la cooperazione tra la forza lavoro e la dirigenza”.
Dopo il voto di venerdì, la Volkswagen ha fatto sapere di volere comunque continuare nel tentativo di creare un “consiglio di fabbrica” nell’impianto di Chattanooga, nonostante i paletti imposti dalla legislazione statunitense in assenza di un parere positivo dei lavoratori alla presenza di un’organizzazione sindacale.
Gli sforzi del colosso automobilistico tedesco per trapiantare negli USA un modello ormai regolarmente diffuso in patria sono legati anche agli affanni registrati recentemente sul mercato americano. Secondo i dati ufficiali, le vendite sono calate del 7 per cento nel 2013 a seguito delle difficoltà incontrate da una politica aziendale finora basata quasi unicamente sulle auto di medie dimensioni. Volkswagen, perciò, starebbe ora progettando di investire 7 miliardi di dollari per lanciare la già ricordata nuova linea di produzione, questa volta orientata verso il mercato nordamericano dei SUV.
Gli ostacoli incontrati finora e il nuovo piano di investimenti richiederanno verosimilmente una “razionalizzazione” negli impianti esistenti con conseguenze che si rifletteranno sulle condizioni di lavoro. Da qui la necessità di poter contare sulla collaborazione dei sindacati o, visto il loro crescente discredito, sui tanto celebrati “consigli di fabbrica” per far digerire ai lavoratori le imposizioni provenienti dall’alto.
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di Mario Lombardo
La commissione del Parlamento europeo per le Libertà Civili (LIBE) ha approvato questa settimana un rapporto sulle attività illegali di sorveglianza dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA), respingendo però contemporaneamente alcuni fondamentali emendamenti legati alla sorte di Edward Snowden. Il rapporto di 60 pagine, preparato dal laburista britannico Claude Moraes e che verrà sottoposto all’attenzione dell’aula il prossimo mese di marzo, ha ottenuto l’approvazione di 33 membri della commissione, mentre 7 hanno espresso parere contrario e 17 sono stati gli astenuti.
Il voto, pur condannando le attività dell’NSA e della sua corrispondente britannica (GCHQ), si è sostanzialmente risolto in un atto di servilismo nei confronti di Washington, rivelando allo stesso tempo la reale attitudine di buona parte della classe dirigente europea verso metodi degni di uno stato di polizia.
In particolare, la commissione ha respinto un emendamento presentato dal gruppo dei Verdi che intendeva chiedere ai paesi membri dell’UE di lasciar cadere eventuali accuse nei confronti di Snowden e di offrire all’ex contractor dell’NSA “protezione contro incriminazioni, estradizione o rendition da parte di paesi terzi”, riconoscendogli inoltre lo status di “whistleblower” (chi cioè, dall’interno di un’agenzia o ufficio governativo, assiste a crimini o malefatte e le rivela al pubblico) e “difensore internazionale dei diritti umani”.
Altre questioni cruciali per i diritti civili che la commissione dovrebbe teoricamente difendere sono state poi vergognosamente lasciate cadere, come l’invito da rivolgere a Washington per concedere un’amnistia a Snowden, cancellando le assurde accuse sollevate formalmente nei suoi confronti di avere violato l’Espionage Act del 1917. Dello stesso nome di Edward Snowden, infine, non è rimasta traccia in tutto il documento finale.Il portavoce dei Verdi al Parlamento europeo, Jan Philipp Albrecht, ha duramente condannato l’approvazione del rapporto senza gli emendamenti relativi a Snowden, dal momento che soltanto grazie a quest’ultimo i cittadini dell’Europa e del resto del mondo hanno conosciuto il livello di criminalità del governo americano al centro dell’indagine contenuta nel rapporto della commissione per le Libertà Civili.
“Le coraggiose rivelazioni di Edward Snowden - ha affermato il politico tedesco - hanno fornito le basi per questa indagine e il mancato riconoscimento di questo vitale contributo… rappresenta una dimostrazione di vigliaccheria, che si spiega con il desiderio di non offendere gli Stati Uniti”.
I gruppi degli altri partiti di sinistra al Parlamento europeo hanno invece applaudito l’approvazione del rapporto, mettendo comunque in evidenza le mancanze. Una rappresentante del partito tedesco Die Linke ha ad esempio ammesso che “è mancata una reale discussione sull’abuso delle leggi anti-terrorismo e sull’offerta di asilo a Snowden”, così come nessuno ha chiesto la sospensione dei negoziati sul trattato di libero scambio USA-UE né “la revisione dell’intera politica relativa alla sicurezza”.
I voti necessari alla bocciatura degli emendamenti più importanti sono stati assicurati non solo dagli eurodeputati dei partiti conservatori e di centro-destra, ma anche da quelli social democratici.
L’alternativa proposta da questi ultimi e approvata è stata invece una fiacca quanto generica promessa di procedere con “la valutazione della possibilità di garantire protezione internazionale da qualsiasi incriminazione agli whistleblowers”. Nel rapporto viene suggerita inoltre la sospensione dell’accordo sullo SWIFT tra UE e Stati Uniti - grazie al quale Washington ottiene informazioni sui movimenti bancari teoricamente per ragioni di lotta al terrorismo - e di quello denominato “Safe Harbor”, che permette alle compagnie americane di auto-certificare il loro rispetto delle norme europee sulla privacy.
Il voto sul rapporto si è innestato poi sulla discussione in corso riguardante la possibile testimonianza di Snowden proprio di fronte al LIBE tra qualche settimana. Tramite i suoi legali, Snowden ha fatto sapere di essere disponibile ad apparire in video-conferenza ma non di persona se non dopo l’approvazione di misure volte a garantire la sua sicurezza. Contro l’ex contractor della NSA sono giunte infatti nei giorni scorsi aperte minacce di morte da parte di membri dell’apparato della sicurezza nazionale americana.Contro la testimonianza di Snowden si sono però già espressi chiaramente i gruppi conservatori al Parlamento europeo, mentre lo stesso governo di Washington, come ha fatto per indebolire il rapporto sulle attività della NSA, continua a esercitare forti pressioni perché la questione venga lasciata cadere.
Il comportamento della commissione, in ogni caso, non è stato determinato solo dalle pressioni e dalle minacce degli Stati Uniti - evidenti dai toni aggressivi di alcuni membri del Congresso di Washington in visita al Parlamento europeo lo scorso Dicembre - ma anche e soprattutto dall’intenzione della maggioranza dei suoi membri di utilizzare il rapporto sull’NSA come un’operazione di facciata per dare una qualche risposta alla diffusa ostilità popolare verso i metodi di sorveglianza impiegati dal governo americano.
La decisione di dare uno schiaffo a Snowden e di non riconoscere il suo eroico comportamento è in definitiva tutta europea, cioè di una classe dirigente che, con pochissime eccezioni, condivide largamente il ricorso ai metodi illegali della NSA e del GCHQ britannico, poiché a Berlino, Parigi o Roma non si hanno meno scrupoli che a Washington o a Londra nel calpestare i diritti democratici più fondamentali per difendere gli interessi di una ristretta élite.
Non a caso d’altra parte, come è stato messo in luce sia dalle rivelazioni di Snowden che da svariate testimonianze di “insider” da questa e dall’altra parte dell’oceano nei mesi scorsi, nella gran parte dei casi i programmi illegali di intercettazione della NSA sono stati messi in atto sul territorio europeo con la piena e volenterosa collaborazione delle agenzie di intelligence e dei governi nazionali.
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di Michele Paris
Il secondo round dei colloqui sulla Siria ha preso il via questa settimana a Ginevra in un clima di persistente freddezza tra le due parti che si affrontano da ormai quasi tre anni in un sanguinoso conflitto nel paese mediorientale. Mentre lo sforzo diplomatico continua a far segnare ben pochi progressi a causa soprattutto della rigidità della posizione occidentale e dei “ribelli”, da Washington l’amministrazione Obama è tornata a minacciare l’uso della forza, sia pure in maniera velata, per sbloccare la crisi e forzare il cambio di regime a Damasco.
Dopo avere speso inutilmente la giornata di martedì alla ricerca di un punto di incontro tra il regime, che insiste nel mettere al centro della discussione la lotta al terrorismo in Siria, e i membri della cosiddetta Coalizione Nazionale, intenzionati ad avviare trattative su un governo di transizione senza il presidente Assad, mercoledì il rappresentante delle Nazioni Unite, Lakhdar Brahimi, ha fatto un nuovo tentativo con una seconda sessione congiunta.
Inoltre, lo stesso diplomatico algerino ha annunciato di volere anticipare a giovedì un vertice inizialmente previsto per il giorno successivo tra i delegati di Russia e Stati Uniti, nella speranza che i due governi che appoggiano le parti in lotta siano disposti ad esercitare pressioni su queste ultime per individuare quanto meno un punto di partenza per intavolare un qualche dialogo.
I problemi incontrati in queste ore sono dunque sostanzialmente identici a quelli emersi nella prima fase dei negoziati di “Ginevra II”, falliti anche nel raggiungimento dell’obiettivo minimo iniziale prefissato, vale a dire l’attuazione di tregue localizzate per consentire operazioni umanitarie nelle aree del paese sotto assedio.
La successiva decisione del governo siriano di permettere l’ingresso degli aiuti nella città di Homs, invece, ha avuto finora un parziale successo, con qualche centinaia di civili evacuati e altri ancora intrappolati dopo alcuni episodi di violenza che nei giorni scorsi avevano ostacolato le operazioni.
Le difficoltà trovate a Homs hanno subito provocato le accuse dei governi occidentali nei confronti del regime siriano, attaccato per avere impedito l’accesso di cibo e medicine destinati alla popolazione civile. Da qui, alcuni paesi hanno fatto circolare una bozza di risoluzione al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, teoricamente volta a favorire l’ingresso degli aiuti nella città della Siria occidentale.
Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha però bocciato la proposta, bollata come “inaccettabile” poiché contiene “un ultimatum al governo [di Assad]” per risolvere la crisi umanitaria in due settimane. In caso contrario, verrebbero “applicate sanzioni automatiche”. Per Lavrov, l’attenzione posta unicamente sul caso di Homs rivelerebbe un atteggiamento “unilaterale”, visto che sono i “gruppi di militanti [dell’opposizione] a rappresentare il principale impedimento alle operazioni umanitarie”, non solo in questa città ma anche in altre località della Siria.
La posizione dei governi occidentali ha trovato come al solito riscontro nei media ufficiali, impegnati ad evidenziare la sorte dei residenti rimasti a Homs e tralasciando quasi sempre il disastro umanitario provocato altrove dalle formazioni “ribelli”, soprattutto di matrice integralista, nonché le stragi commesse da queste ultime, come quella registrata lunedì nel villaggio a maggioranza alauita di Maan, nella provincia di Hama, dove sono stati massacrati almeno 20 civili che condividono la fede del presidente Assad.
La resistenza di Mosca a considerare una risoluzione “umanitaria” è stata criticata, tra gli altri, anche dal presidente francese, François Hollande, durante una conferenza stampa a Washington a fianco di Obama. Hollande ha simulato stupore di fronte alla mancanza di disponibilità della Russia a valutare la creazione di “corridoi umanitari”, utilizzati tradizionalmente dall’Occidente per giustificare interventi militari destinati a rovesciare regimi poco graditi.Tra le questioni al centro dell’attenzione della visita del presidente transalpino negli Stati Uniti c’è stata appunto la Siria, di cui ha parlato anche l’inquilino della Casa Bianca. Nell’apparizione pubblica con Hollande, infatti, Obama ha riconosciuto le difficoltà dei negoziati nel giungere ad una soluzione pacifica del conflitto, sottolineando “l’enorme frustrazione” che circola a Washington per gli sviluppi della vicenda.
“Ogni giorno che passa”, ha spiegato il presidente americano, “un numero sempre maggiore di persone in Siria è esposto a sofferenze. Lo stato sta crollando e ciò è negativo per… la regione [mediorientale] e per la sicurezza globale”, dal momento che “ci sono estremisti che hanno occupato il vuoto creatosi in alcune aree del paese”, ed essi “possono rappresentare una minaccia nel lungo periodo”.
Dopo questa analisi, e senza aggiungere che la situazione drammatica della Siria è stata causata in gran parte da una guerra per il rovesciamento del regime alimentata precisamente dagli Stati Uniti e dai loro alleati, Obama ha affermato che “nessuno pensa al momento ad una soluzione militare”. Tuttavia, la sua amministrazione continua a valutare “qualsiasi strada possibile” e il presidente ha detto di volersi “riservare il diritto di decidere un’azione militare a difesa della sicurezza nazionale americana”.
Le parole pronunciate martedì da Obama appaiono estremamente rivelatrici dell’impazienza degli USA, intenzionati a procedere con la deposizione di Assad in qualsiasi modo: diplomaticamente, attraverso la conferenza di Ginevra, o, se necessario, con le armi.
Il pessimismo di Obama è inoltre singolare, visto che il prevedibile stallo di Ginevra è la conseguenza diretta del comportamento tenuto fin dall’inizio dagli stessi Stati Uniti e dai “ribelli” da loro appoggiati. Questi ultimi, infatti, hanno da subito insistito sull’esclusione da qualsiasi futuro governo in Siria della loro controparte nei negoziati, nonostante il regime negli ultimi mesi abbia fatto segnare e continui a far segnare sensibili progressi sul campo ai danni invece di un’opposizione impopolare e allo sbando o, comunque, dominata da gruppi jihadisti violenti.
L’amministrazione Obama, da parte sua, aveva anch’essa escluso da subito per bocca del segretario di Stato, John Kerry, qualsiasi ruolo per Assad nella nuova Siria, mentre proprio durante il primo round di discussioni Washington aveva provocatoriamente deciso la ripresa degli aiuti destinati ai “ribelli” dopo lo stop sul finire dello scorso anno a causa del prevalere delle formazioni estremiste.
Parallelamente alla motivazione “umanitaria”, gli USA e gli altri governi occidentali sono poi tornati ad utilizzare la carta delle armi chimiche, con la quale la scorsa estate si era sfiorata una nuova aggressione militare in Medio Oriente.Dopo l’accordo mediato dalla Russia, Damasco aveva accettato di inviare all’estero e distruggere tutto il proprio arsenale in un periodo di tempo molto ristretto. Inizialmente, al regime di Assad era stata riconosciuta la propria totale collaborazione con l’agenzia deputata allo smantellamento delle armi chimiche - Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC) - ma due scadenze non rispettate nelle scorse settimane hanno immediatamente scatenato una valanga di accuse.
Il governo siriano, il quale si è liberato di un terzo del proprio arsenale nella giornata di lunedì, ha comprensibilmente attribuito i ritardi alla situazione nel paese e al fatto che i convogli diretti verso la città portuale di Latakia devono attraversare aree controllate dai vari gruppi “ribelli” armati.
Dall’OPAC e dai governi occidentali, tuttavia, sono giunti solo avvertimenti a rispettare le scadenze, a conferma che la questione pressoché interamente fabbricata ad arte delle armi chimiche, assieme a quella “umanitaria”, continuerà a rappresentare il pretesto per un maggiore coinvolgimento nel conflitto a favore dell’opposizione se il regime non si piegherà in fretta alle richieste degli Stati Uniti e dei loro alleati.