di Mario Lombardo

Le ultime ore del 2013 e le prime del nuovo anno sono state segnate da gravi tensioni in almeno tre paesi dell’Asia sud-orientale dove crisi e contraddizioni interne si trascinano irrisolte ormai da tempo. Se la Thailandia è da settimane nel caos a causa delle prolungate proteste dell’opposizione contro il governo in carica, in Malaysia e Cambogia sono tornati a esplodere gli scontri dopo la calma apparente seguita alle controverse elezioni andate in scena nei mesi scorsi.

Mercoledì la Commissione Elettorale thailandese ha messo seriamente in dubbio la possibilità di tenere elezioni anticipate il 2 febbraio prossimo, come deciso dal governo dopo lo scioglimento del Parlamento. Un possibile rinvio sarebbe dovuto alla mancata registrazione dei candidati per almeno il 95% dei seggi della camera bassa. Ciò è stato causato dalle proteste dei manifestanti che stanno cercando di impedire l’accesso agli edifici deputati alla registrazione delle candidature.

Le tensioni nel paese erano poi aumentate ulteriormente la scorsa settimana, con i sostenitori dell’opposizione che erano stati protagonisti di violenti scontri con le forze di polizia. A mandare segnali inquietanti al governo era stato anche il potente comandante dell’esercito thailandese, generale Prayuth Chan-ocha, il quale si era rifiutato di escludere un intervento dei militari per risolvere la crisi. L’ultimo colpo di stato delle forze armate in Thailandia era avvenuto nel 2006, quando venne deposto il primo ministro, Thaksin Shinawatra, fratello dell’attuale premier, Yingluck.

Il timore di un’iniziativa dei militari, i quali nelle scorse settimane avevano ufficialmente appoggiato la soluzione elettorale, continua ad agitare il governo di Bangkok, tanto che lo stesso primo ministro è tornata mercoledì nella capitale dopo due settimane trascorse nel nord del paese. Giovedì, Yingluck ha così chiesto ai militari di appoggiare la Polizia nel ristabilire l’ordine se i manifestanti, guidati dall’ex vice-premier del Partito Democratico di opposizione, Suthep Thaugsuban, dovessero mettere in atto la minaccia di paralizzare Bangkok nei prossimi giorni.

Di fronte a quest’ultima eventualità, sempre giovedì il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale militare, Paradorn Pattanatabut, ha affermato che le forze armate starebbero considerando la possibilità di dichiarare lo stato di emergenza. L’opposizione è animata dal Partito Democratico, dagli ambienti reali e da una borghesia urbana che si sente minacciata da un decennio di politiche populiste e di modeste riforme sociali sotto la guida dei governi di Thaksin e dei suoi sostenitori.

Di fronte ad una quasi certa sconfitta elettorale, l’opposizione chiede non solo le dimissioni immediate del premier Yingluck ma anche la creazione di un anti-democratico “consiglio popolare” non eletto per decidere le sorti del paese e “sradicare” l’influenza del clan Shinawatra dalla Thailandia.

L’incapacità del governo di mettere fine alla crisi scaturita dal tentativo nel mese di novembre di fare approvare modifiche alla Costituzione e un’amnistia che avrebbe consentito il ritorno in patria dell’ex premier Thaksin, ora in esilio volontario a Dubai per sfuggire ad una condanna per corruzione e abuso di potere a suo dire politicamente motivata, sta creando non poche apprensioni nel paese.

I giornali in questi giorni continuano infatti ad insistere sul continuo rallentamento dell’economia, sulla fuga dei capitali stranieri e sul crollo della moneta thailandese (Baht). In questo scenario, quella militare sembra essere la soluzione preferita da parte dei tradizionali centri di potere che stanno dietro le proteste, anche se le forze armate continuano a temere le conseguenze di un intervento che scatenerebbe ancor più il caos nel paese in seguito alla pressoché certa mobilitazione dei sostenitori del clan Shinawatra.

Oltre il confine meridionale thailandese, anche in Malaysia la fine del 2013 ha visto il ritorno in piazza di attivisti anti-governativi. La sera del 31 dicembre, tra 15 e 25 mila manifestanti hanno causato l’interruzione dei festeggiamenti per il nuovo anno in corso in una piazza della capitale, Kuala Lumpur, provocando l’intervento delle forze di polizia.

Qui, le proteste sono seguite all’annuncio da parte del primo ministro, Najib Razak, di volere aumentare il prezzo della benzina, dello zucchero e di altri beni di prima necessità per cercare di ridurre il debito del paese, come richiesto dagli ambienti finanziari internazionali.

Ai gruppi di protesta soprattutto studenteschi si sono uniti in questi giorni esponenti della principale formazione politica dell’opposizione che, dopo le elezioni di maggio, aveva tentato senza successo di dare una spallata al regime della coalizione Barisan Nasional (Fronte Nazionale, BN), in diverse forme al potere in Malaysia fin dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1957.

Il voto aveva provocato accese proteste, soprattutto perché i partiti che appoggiano il governo avevano ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi pur risultando in minoranza relativamente ai consensi espressi su scala nazionale. L’opposizione del Pakatan Rakyat (Alleanza Popolare, PR) dell’ex premier Anwar Ibrahim era riuscita a capitalizzare il malcontento diffuso per i metodi autoritari impiegati dal regime e le tradizionali discriminazioni nei confronti delle minoranze indiana e cinese, suscitando qualche entusiasmo tra gli elettori più giovani e quelli che vivono nelle principali aree urbane della Malaysia.

Alcune proteste di piazza dopo il voto non avevano comunque scosso il regime e il mancato appoggio degli Stati Uniti o di altri governi stranieri aveva riportato la situazione alla normalità. La recente decisione di Najib di procedere con il taglio dei sussidi di cui beneficiano decine di milioni di malesi ha però riacceso gli animi, offrendo una nuova opportunità ad un’opposizione che, tuttavia, appoggia misure di libero mercato ancora più estreme di quelle prospettate in questi giorni dal governo.

Un clima di crisi ha segnato infine il passaggio al nuovo anno anche nella vicina Cambogia, dove l’opposizione dell’ex ministro delle Finanze, Sam Rainsy, sta trovando una boccata d’ossigeno grazie ad una serie di proteste e scioperi da parte dei lavoratori del settore tessile. Questi ultimi chiedono un aumento dello stipendio minimo da fame ben superiore a quello garantito recentemente dal regime del premier Hun Sen, il quale già a fine luglio aveva visto minacciata la sua permanenza al potere da manifestazioni dell’opposizione che chiedevano una ripetizione del voto per presunte irregolarità.

Della mobilitazione di lavoratori tra i più sfruttati del pianeta, e che garantiscono all’industria tessile indigena entrate per oltre 5 miliardi di dollari l’anno, ne sta approfittando anche in questo caso l’opposizione del Partito della Salvezza Nazionale (CNRP) per chiedere una serie di concessioni che non era riuscita ad ottenere dopo il voto.

Il CNRP e il Partito Popolare Cambogiano (CPP) al potere si incontreranno così venerdì per discutere esclusivamente di riforma elettorale e di possibili elezioni anticipate, misure che, nelle speranze dell’opposizione, dovrebbero consentire un ricambio alla guida del paese nel prossimo futuro.

L’intenzione dell’opposizione politica, d’altra parte, è anche in questo caso quella di far confluire la lotta dei lavoratori in una protesta relativamente inoffensiva per un sistema, come quello della Cambogia, che deve continuare a mettere a disposizione manodopera a bassissimo costo per le grandi compagnie internazionali.

di Michele Paris

L’anno 2013 si è chiuso negli Stati Uniti con un atto di estrema crudeltà nei confronti della sezione più debole della popolazione da parte di una classe politica che nei mesi precedenti era stata protagonista di iniziative senza precedenti per ridimensionare drasticamente i livelli di spesa pubblica. Per questa ragione, la mancata proroga dei sussidi straordinari di disoccupazione sembra essere soltanto un’anticipazione dei nuovi assalti alle condizioni di vita delle classi più povere che si annunciano in un nuovo anno nel quale, come in quello appena terminato, a brindare alla “ripresa” economica negli USA come altrove sarà soltanto una ristrettissima élite economica e finanziaria.

Tre giorni dopo il Natale, dunque, 1,3 milioni di americani senza lavoro da mesi hanno visto interrompersi l’unica modesta fonte di reddito a loro disposizione dopo che qualche settimana prima democratici e repubblicani al Congresso avevano deciso di lasciare fuori dall’accordo sul nuovo bilancio l’estensione dei benefit addizionali di disoccupazione che il governo federale aveva sempre prolungato a partire dall’esplosione della crisi finanziaria del 2008.

La spesa totale per il prolungamento di questi sussidi, che hanno finora sopperito a quelli di minore durata offerti dai singoli stati, sarebbe stata di appena 25 miliardi di dollari, vale a dire meno dell’1 per cento dell’intero bilancio federale ed una cifra irrisoria di fronte ai 633 miliardi stanziati per il Pentagono dal Congresso per l’anno 2014.

Nel corso dei prossimi mesi, inoltre, senza un intervento legislativo, i benefit federali per i disoccupati a lungo termine cesseranno per altri 3,6 milioni di americani, traducendosi, se si considerano i loro familiari, nell’eliminazione di qualsiasi entrata per circa 15 milioni di persone.

Come hanno messo in luce svariati studi, una simile decisione da parte del Congresso non è mai stata presa nel dopoguerra in presenza di livelli di disoccupazione come quelli odierni. Al di là del tasso ufficiale - attualmente al 7 per cento - ci sono altri dati che dipingono una realtà ancora peggiore per i lavoratori d’oltreoceano. Innanzitutto, la percentuale di disoccupati è scesa costantemente nei mesi scorsi grazie soprattutto all’uscita dal mercato del lavoro di oltre 5 milioni di persone che hanno smesso di cercare un impiego.

Inoltre, la quota di popolazione che ha oggi un lavoro - 58,6 per cento - è praticamente invariata da quattro anni, nonché la più bassa dal 1983 e al di sotto di oltre 4 punti percentuali rispetto al periodo immediatamente precedente il crollo finanziario del 2008. Per quanti hanno trovato un posto di lavoro dopo averlo perso, poi, la nuova realtà ha significato molto spesso precarietà e stipendi da fame.

Alcuni parlamentari democratici, con il sostegno della Casa Bianca, stanno preparando in questi giorni un provvedimento di legge per reintrodurre i sussidi straordinari. Tuttavia, se anche dovesse essere approvata, la nuova versione garantirebbe un reddito ai disoccupati appena per tre mesi e, con ogni probabilità, si accompagnerebbe a tagli in altri ambiti per compensare l’aumento della spesa pubblica.

Come già ricordato, la fine dei sussidi di disoccupazione è solo l’ultima di una serie di misure anti-sociali negli Stati Uniti che hanno segnato tutto il 2013. Già a marzo, il mancato accordo sul debito pubblico tra democratici e repubblicani al Congresso aveva fatto scattare una serie di tagli automatici alla spesa (“sequester”) pari a 85 miliardi di dollari solo per l’anno in corso ed altrettanti per un altro decennio. Con questo meccanismo sono stati ridotti gli stanziamenti, tra l’altro, per i buoni alimentari destinati ai più poveri, per i sussidi agli affitti e allo studio, mentre decine di migliaia di dipendenti pubblici sono stati costretti a periodi di congedo forzato senza retribuzione.

Misure come quest’ultima si sono poi ripetute durante le prime due settimane di ottobre, quando un altro scontro al Congresso ha impedito l’approvazione del bilancio per il nuovo anno fiscale, provocando la chiusura di molti uffici federali (“shutdown”). A livello statale, inoltre, svariate assemblee sia a maggioranza democratica che repubblicana hanno provveduto a “ristrutturare” i fondi pensione dei dipendenti pubblici, ad aumentare i contributi di questi ultimi ai loro piani sanitari e a tagliare i servizi offerti alla popolazione.

La situazione spesso precaria delle finanze statali e municipali, provocata sia dalla deindustrializzazione e il conseguente crollo delle entrate fiscali che dal ricorso a pericolosi strumenti finanziari promossi dalle grandi banche, viene così puntualmente utilizzata per liquidare benefit conquistati in decenni di lotte dai lavoratori, come sta accadendo con il più grande procedimento di bancarotta di una città americana, attualmente in corso a Detroit con la completa approvazione dell’amministrazione Obama.

Di nuovo a livello federale, infine, il mese di novembre si era aperto con un’altra iniziativa senza precedenti negli USA, cioè la riduzione dei fondi federali destinati ai buoni alimentari che ha privato di almeno due pasti al mese circa 46 milioni di americani in difficoltà economiche.

Queste e molte altre misure simili si inseriscono in una tendenza globale volta a stravolgere i rapporti di classe consolidati e negli Stati Uniti si è concretizzata in un’annata fatta di enormi soddisfazioni solo per coloro che hanno beneficiato del colossale e deliberato trasferimento di ricchezza verso il vertice della piramide sociale.

Gli indici di borsa, negli USA come in Europa e in Giappone, hanno sfondato qualsiasi record nel corso del 2013 nonostante una crescita anemica dell’economia reale. Ad alimentare la speculazione di Wall Street è stato in primo luogo il proseguimento del programma di “quantitative easing” della Federal Reserve, con il quale, a fronte di una presunta mancanza di denaro per finanziare i programmi pubblici, sono stati regolarmente immessi nel sistema finanziario più di 80 miliardi di dollari ogni singolo mese.

Proprio in concomitanza con la mancata proroga dei sussidi di disoccupazione, la stessa Fed del governatore uscente Bernanke aveva annunciato qualche settimana fa la prosecuzione delle politiche a favore delle grandi banche con una lieve riduzione nei prossimi mesi della quantità di denaro stampato per l’acquisto di titoli legati ai mutui e bond del Tesoro e, soprattutto, con il mantenimento dei tassi di interesse attorno allo zero fino almeno al 2015.

Questa fortuna, oltre a gettare le basi per una nuova crisi rovinosa, si è tradotta negli ultimi giorni dell’anno nel consueto banchetto di bonus milionari a Wall Street, dove sono in pochi a doversi preoccupare della stagnazione o della netta riduzione degli stipendi della gran parte dei lavoratori. Secondo un recente articolo del Wall Street Journal, ad esempio, gli unici ad avere avuto un anno relativamente “duro” sarebbero i trader di bond, mentre quelli che operano in azioni e i banchieri di investimento otterranno un aumento medio dei loro compensi rispettivamente del 12 e del 6 per cento rispetto al 2012.

Complessivamente, secondo alcune stime, la quota di ricchezza inviolabile messa da parte dai giganti di Wall Street nel 2013 soltanto per i bonus di fine anno ammonterebbe a più di 90 miliardi di dollari. Una cifra, questa, cinque volte superiore al debito totale della città di Detroit in bancarotta o, ad esempio, due volte e mezzo la somma necessaria a garantire la prosecuzione per il 2014 dei sussidi di disoccupazione e dei buoni alimentari appena tagliati dalla politica di Washington.

di Michele Paris

Una lunga indagine apparsa nel fine settimana sul New York Times ha provato a fare chiarezza sull’attaco islamista al consolato americano di Bengasi, in Libia, nel settembre del 2012 che causò la morte dell’ambasciatore, Christopher Stevens, e di altri tre cittadini statunitensi incaricati del servizio di sicurezza. Oltre a smentire la ricostruzione dei fatti sostenuta dai repubblicani a Washington, che ne assegnava la responsabilità ad al-Qaeda, l’articolo ha confermato come l’attentato sia stato condotto da forze domestiche che solo pochi mesi prima avevano collaborato con l’amministrazione Obama per rovesciare il regime di Gheddafi.

Firmata dal reporter David Kirkpatrick, l’indagine del Times si apre significativamente con la descrizione di un incontro avvenuto proprio a Bengasi il 9 settembre 2012, due giorni prima dell’attacco al consolato, tra l’ambasciatore Stevens e i leader di alcune milizie libiche. In quell’occasione, questi ultimi intendevano avvertire dei crescenti pericoli per la sicurezza degli americani nel paese nord-africano e, allo stesso tempo, volevano esprimere la loro gratitudine “per l’appoggio garantito dal presidente Obama nella rivolta contro Gheddafi”. Allo stesso tempo, i miliziani non avevano mancato di manifestare il loro desiderio di “costruire una partnership con gli Stati Uniti, in particolar modo attraverso maggiori investimenti” in Libia, ad esempio per aprire nel paese negozi di “McDonald’s e KFC [Kentucky Fried Chicken]”.

Secondo il reportage, dunque, sarebbero stati gruppi fondamentalisti che ruotavano nell’orbita dell’opposizione armata anti-Gheddafi e che avevano legami con gli individui incontratisi con Stevens a giustiziare lo stesso diplomatico americano, a sua volta in prima linea fin dalla primavera del 2011 proprio per stabilire legami tra gli Stati Uniti e le forze “ribelli” sul campo in Libia.

Dopo mesi di interviste con testimoni dell’attacco dell’11 settembre 2012, Kirkpatrick sostiene di non avere trovato alcuna prova che i responsabili siano da individuare in al-Qaeda o in altri gruppi legati al terrorismo internazionale. L’attacco, invece, è stato opera di “guerriglieri che avevano beneficiato direttamente del supporto logistico e delle massicce incursioni aeree della NATO durante la rivolta contro il colonnello Gheddafi”.

Questa conclusione è un clamoroso atto d’accusa nei confronti del governo degli Stati Uniti, il quale per i propri interessi strategici ha deliberatamente appoggiato sia militarmente che finanziariamente gruppi fondamentalisti sunniti, indicati invece come nemici giurati per oltre un decennio.

Il pezzo del New York Times si inserisce poi nel dibattito in corso da oltre un anno a Washington sui fatti di Bengasi e che ha messo di fronte la versione ufficiale dell’amministrazione Obama e dei democratici al Congresso a quella sostenuta dal Partito Repubblicano. Secondo la prima, gli eventi che portarono alla morte di quattro americani erano impossibili da prevedere perché scaturiti dalle proteste spontanee esplose dopo la diffusione di un video di propaganda che irrideva il profeta Muhammad.

Per i repubblicani, al contrario, l’ambasciatore Stevens morì in seguito ad un piano meticolosamente studiato da al-Qaeda ed eseguito nel giorno dell’anniversario degli attacchi al World Trade Center. L’amministrazione Obama, secondo questa interpretazione, avrebbe nascosto la realtà dei fatti per non danneggiare il presidente in piena campagna elettorale, durante la quale stava appunto sostenendo che la minaccia terroristica contro gli interessi americani era diminuita in seguito all’assassinio di Osama bin Laden.

Se la storia pubblicata domenica serve perciò a dare credito a quanto sostenuto dalla Casa Bianca e dal Dipartimento di Stato, entrambe le versioni che hanno occupato le pagine dei giornali d’oltreoceano nei mesi scorsi sono volte soprattutto ad occultare il punto centrale della questione. Cioè che sia l’attacco al consolato di Bengasi che la drammatica situazione in cui si trova oggi la Libia, di fatto nelle mani di milizie integraliste armate, sono la diretta conseguenza della decisione presa a Washington di puntare su formazioni integraliste ultra-reazionarie, presentandole all’opinione pubblica internazionale come forze democratiche per favorire l’abbattimento di un regime sgradito.

Nel caso di Bengasi, tra i responsabili dell’attacco il New York Times ha individuato Amed Abu Khattala, definito come un “eccentrico e insoddisfatto leader miliziano”, vicino “ ai più influenti comandanti che dominavano” nella città della Libia orientale e che “collaboravano con gli americani”. Costoro, inclusi i futuri responsabili della morte dell’ambasciatore Stevens, con l’appoggio americano erano tutti “in prima linea nella lotta contro il colonnello Gheddafi”.

Lo stesso Stevens, inoltre, “così come i suoi superiori a Washington, riteneva che gli USA potevano trasformare la massa di guerriglieri sostenuti nella guerra al regime in amici fidati”, con ogni probabilità da sfruttare in altre imprese a favore della strategia americana nel mondo arabo, a cominciare da quella in Siria contro Bashar al-Assad.

Proprio la presenza di una struttura occupata da un numeroso contingente della CIA a breve distanza dal consolato di Bengasi suggerisce come la rappresentanza diplomatica degli Stati Uniti in questa città fosse subordinata alle operazioni di intelligence. Svariati resoconti giornalistici nei mesi scorsi hanno infatti descritto l’arrivo in Siria di armi e guerriglieri integralisti libici, verosimilmente reclutati almeno in parte proprio dagli uomini dell’agenzia di Langley di stanza a Bengasi.

I fatti dell’11 settembre 2012, dunque, possono essere considerati un classico esempio di quello che nel gergo dell’intelligence a stelle e strisce viene definito come “blowback”. Nel caso specifico, cioè, le forze fondamentaliste islamiche mobilitate dagli Stati Uniti per combattere un nemico comune - come avvenne in Afghanistan negli anni Ottanta contro l’occupazione sovietica - si sono ritorte contro i propri protettori e finanziatori, passando dall’altra parte della barricata quando i rispettivi interessi hanno iniziato a divergere o, per quanto riguarda forse Bengasi, semplicemente a causa di una disputa relativamente minore.

Lo stesso copione libico è sembrato doversi ripetere a lungo anche in Siria, dove una serie di proteste spontanee contro il regime di Assad è stato ben presto sfruttato dagli Stati Uniti e dai loro alleati per orchestrare una vera e propria guerra condotta in grandissima parte da formazioni integraliste e legate al terrorismo qaedista. Solo quando la minaccia dello strapotere di queste ultime è apparso in tutta la sua evidenza, alcune sezioni all’interno del governo e dell’apparato militare e dell’intelligence americano hanno iniziato a esprimere dubbi sulla strategia tenuta per oltre due anni.

Le forze scatenate, tuttavia, come già in Libia hanno devastato forse irrimediabilmente anche la variegata e relativamente prospera società siriana, facendo riesplodere tensioni e violenze settarie, con il rischio di destabilizzare ulteriormente l’intero Medio Oriente.

di Michele Paris

In uno dei vari procedimenti legali in atto negli Stati Uniti contro l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale (NSA), nello scorso fine settimana un giudice federale di New York ha giudicato perfettamente legali e costituzionali i programmi di sorveglianza telefonica di massa rivelati a partire dalla scorsa estate da Edward Snowden.

La più recente sentenza è giunta in risposta ad una causa intentata contro l’agenzia di Fort Meade, nel Maryland, dall’American Civil Liberties Union (ACLU) e a poco più di una settimana da un altro verdetto di un tribunale federale di Washington che aveva invece bollato come “orwelliane” le attività da stato di polizia dell’NSA.

Il giudice distrettuale di Manhattan William Pauley ha dunque accettato in pieno il punto di vista del governo americano, sostenendo che i programmi di intercettazione indiscriminata delle comunicazioni telefoniche negli USA e all’estero “funzionano perché consentono di raccogliere qualsiasi cosa” e sono necessari per evitare un altro 11 settembre. L’attacco al World Trade Center, secondo Pauley, sarebbe stato infatti dovuto all’impossibilità di collegare le informazioni a disposizione su al-Qaeda attraverso i tradizionali sistemi di intelligence.

Questa versione corrisponde in sostanza a quella ufficiale del governo americano circa la propria impossibilità di impedire gli attacchi del 2001 e tralascia completamente di evidenziare come in realtà molti degli attentatori fossero da tempo sotto sorveglianza dell’intelligence stessa.

La denuncia dell’ACLU qualche mese fa era stata inizialmente respinta perché non vi era alcuna prova che l’organizzazione a difesa dei diritti civili fosse sotto sorveglianza dell’NSA, i cui programmi erano tenuti segreti. In seguito alle rivelazioni di Snowden e all’ammissione da parte del governo circa l’esistenza dei programmi di monitoraggio dei cittadini, però, l’ACLU ha ripresentato la propria istanza e anche il giudice Pauley ha acconsentito al proseguimento della causa.

Alla richiesta di dichiarare gli stessi programmi illegali e incostituzionali, quest’ultimo si è invece opposto, riproponendo le assurde pretese del governo sul controllo esercitato su di essi sia dal Congresso che dal potere giudiziario attraverso il cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC) che autorizza in segreto le richieste di intercettazione delle agenzie governative.

Il giudice Pauley, in ogni caso, è stato costretto ad ammettere che il programma di sorveglianza di massa dell’NSA, “se lasciato senza controlli, minaccia le libertà civili di ogni cittadino”, per poi proseguire nelle 53 pagine del suo verdetto a smontare qualsiasi ipotesi di porre un qualsiasi freno all’attività del governo in violazione della privacy.

Inoltre, la sentenza di venerdì ha lasciato trasparire il rancore nutrito dalla classe dirigente d’oltreoceano nei confronti di Snowden per avere rese pubbliche le fondamenta da stato di polizia gettate negli Stati Uniti. Pauley ha infatti scritto che “l’ACLU non avrebbe mai saputo della sezione 215 [del Patriot Act ] che autorizza la raccolta di metadati telefonici se non fosse stato per le rivelazioni non autorizzate di Edward Snowden”.

Per chiarire ancora meglio il punto, il giudice nominato da Bill Clinton nel 1998 ha delineato il profilo di una vera e propria cospirazione orchestrata dietro le spalle degli americani, spiegando che “il Congresso aveva previsto che gli individui colpiti dagli ordini [di sorveglianza] secondo la sezione 215 non ne sarebbero mai venuti a conoscenza”. Non solo, “il Congresso intendeva precludere qualsiasi causa legale” da parte degli intercettati anche se questi ultimi fossero venuti a conoscenza delle ordinanze emesse segretamente nei loro confronti.

Perciò, “non è possibile che un atto contro la legge da parte di un contractor del governo per rivelare segreti di stato - inclusi i metodi di raccolta dei dati di intelligence - possa frustrare le intenzioni del Congresso”.

Il giudice Pauley ha poi affrontato la costituzionalità dei programmi dell’NSA, giudicando legittimo il riferimento del governo ad una sentenza della Corte Suprema del 1979 (“Smith contro Maryland”), nella quale i numeri di telefono digitati da un sospettato di rapina venivano “legittimamente” controllati dalla polizia. Il caso stabilì che i sottoscrittori di un contratto telefonico non potevano aspettarsi garanzie di privacy in relazione ai propri metadati, poiché essi vengono comunque raccolti e conservati dalle compagnie private.

La sentenza della Corte Suprema di oltre tre decenni fa, già di per sé anti-democratica, oltre a non poter considerare una realtà tecnologica infinitamente più sofisticata come quella odierna, riguardava però il caso specifico di una sola persona, mentre viene oggi sfruttata per giustificare la raccolta indiscriminata di miliardi di dati ai danni di centinaia di milioni di persone che non sono sospettate di alcun crimine.

In maniera nuovamente assurda, Pauley ha infine ribadito la sua totale fiducia nel governo, sostenendo che “non esiste prova che esso abbia usato una sola informazione telefonica intercettata per ragioni diverse dalle indagini su attacchi terroristici”. La presunta mancanza di prove di questo genere, in realtà, è dovuta esclusivamente alla completa segretezza in cui l’intero processo di sorveglianza di massa è avvolto e, in ogni caso, lo stesso governo non è stato praticamente in grado di indicare una sola chiara situazione critica sventata grazie all’attività dell’NSA.

Tutte le conclusioni del giudice Pauley risultano quindi opposte a quanto stabilito solo il 16 dicembre scorso dal suo collega del tribunale federale del District of Columbia a Washington, Richard Leon. Per quest’ultimo, cioè, quello che fa l’NSA è chiaramente illegale e anti-costituzionale, non potendosi “immaginare un’invasione [della privacy] più indiscriminata e arbitraria di questa sistematica raccolta e archiviazione di informazioni personali riguardanti virtualmente ogni singolo cittadino… senza una preventiva autorizzazione giudiziaria”.

Sia la sentenza di Washington che quella più recente di New York finiranno ora in appello e, se le differenti interpretazioni dovessero persistere, è estremamente probabile che sulla questione della legittimità dei programmi di sorveglianza dell’NSA finirà per esprimersi la Corte Suprema.

Vista la sua composizione, il più alto tribunale degli Stati Uniti potrebbe così legittimare definitivamente uno dei principali strumenti da stato di polizia consegnato dalle amministrazioni Bush e Obama nelle mani dell’apparato della sicurezza nazionale americano.

di Antonio Rei

Il paragone con la storia recente di Egitto e Tunisia verrebbe istintivo, ma quello che sta accadendo in Turchia non ha nulla a che vedere con le primavere arabe. Non solo - ed è ovvio - perché il Paese in questione non è arabo, ma anche per un'altra differenza altrettanto macroscopica. Ad Ankara e dintorni non va in scena un conflitto fra movimenti laici e potere religioso: i due poli contrapposti sono entrambi interni allo Stato e d'ispirazione islamica.

In breve, riepiloghiamo i fatti. Dal 17 dicembre il premier Recep Tayyip Erdogan deve fronteggiare una crisi ben più grave di quella registrata l'estate scorsa con l'ondata di proteste popolari. Stavolta c'è di mezzo uno scandalo di proporzioni ancora difficili da definire. Il caso riguarda un’inchiesta per corruzione - legata ad alcuni appalti - che coinvolge una parte rilevante del partito di governo, l'Akp, e dell'imprenditoria turca. Al centro delle indagini, alcuni trasferimenti di denaro in Iran e il sospetto che diversi funzionari pubblici abbiano ricevuto mazzette per approvare la costruzione di opere edilizie.

Sabato scorso sono state arrestate 16 persone, fra cui i figli dei ministri dell’Economia e dell’Interno, oltre al direttore generale di Halkbank, una grande banca pubblica. Il figlio del ministro dell'Ambiente è stato arrestato, interrogato e rilasciato. In precedenza erano state fermate altre 49 persone e pochi giorni fa il procuratore a capo dell’inchiesta ha ordinato una seconda ondata di arresti, che però la polizia si è clamorosamente rifiutata di eseguire. Secondo alcune voci di stampa non confermate, sarebbero inquisiti anche i due figli di Erdogan.

La reazione del Premier non si è fatta attendere e nel mirino è finita la polizia: circa 30 ufficiali sono stati licenziati o rimossi dal proprio incarico, compreso il capo della polizia di Istanbul, un punto di riferimento per gli inquirenti. Lo scandalo, tuttavia, non poteva non avere anche conseguenze politiche: il 25 dicembre si sono dimessi i tre ministri con i figli sotto accusa e subito dopo Erdogan ha sostituito altri sette membri del Governo, ma ha anche annunciato di non avere alcuna intenzione di dimettersi.

Il rimpasto di Governo non è stato sufficiente a evitare la reazione della piazza, quella reale come quella finanziaria. Ieri la lira turca ha toccato un nuovo minimo storico contro il dollaro, a quota 2,1467, mentre la Borsa turca accumula gravi perdite da diversi giorni ed è scesa al livello minimo degli ultimi 17 mesi. Intanto, questa settimana centinaia di persone hanno manifestato per le strade di Istanbul e di altre città del Paese, chiedendo le dimissioni del primo ministro. Inevitabili gli scontri con la polizia, che ha reagito con lacrimogeni e idranti.

Da parte sua, Erdogan ha parlato dell'inchiesta in corso come di un "complotto organizzato all’estero" da una "banda criminale" per creare uno "stato nello stato" in vista delle elezioni amministrative della prossima primavera. Secondo molti commentatori, con queste parole il Premier ha fatto riferimento a Fethullah Gulen, musulmano 72enne residente negli Stati Uniti e fondatore di un movimento politico - Hizmet, "servizio" - che gode di molto seguito nella polizia e nella magistratura. Si dice che ne facciano parte perfino diversi membri dell'Akp.

Finché si trattava di contrastare il nemico comune, ovvero l'esercito (cuore del potere laico), Hizmet ha sostenuto il governo di Erdogan. Negli ultimi giorni, però, qualcosa è cambiato: Gulen, pur negando qualsiasi coinvolgimento nelle indagini, ha criticato duramente la rimozione degli ufficiali di polizia. Che Gulen sia o meno al vertice di una piramide contrapposta a quella del primo ministro, in ogni caso, il quadro generale non cambia molto.

Il percorso avviato in Turchia sembra dirigersi verso lo sgretolamento del sistema di potere instaurato nell'ultimo decennio da Erdogan. A prescindere dalla veridicità o meno delle varie accuse di corruzione, a livello politico ciò che più conta è la frattura che si sta allargando all'interno dell'Akp. Tre parlamentari della formazione di governo hanno lasciato il partito, dopo che nei giorni scorsi erano stati rinviati a un organismo disciplinare per aver criticato l’atteggiamento di Erdogan nei confronti della polizia e dell’indagine.

Non solo. Anche altri parlamentari dell’Akp hanno attaccato il primo ministro. Alcuni sono giunti perfino all'estrema empietà di chiederne le dimissioni. E in 10 anni non era mai successo.


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