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di Mario Lombardo
Nonostante i festeggiamenti andati puntualmente in scena domenica a Zagabria alla presenza di decine di rappresentanti di governi stranieri, il sentimento della maggior parte della popolazione della Croazia nei confronti dell’ingresso del proprio paese nell’Unione Europea appare oggi in netto contrasto con il sostanziale entusiasmo mostrato all’inizio dei negoziati con Bruxelles otto anni fa.
La Croazia che alla mezzanotte tra domenica e lunedì è diventata il 28esimo paese dell’Unione è un paese in recessione da cinque anni che, a partire dall’esplosione della crisi finanziaria globale nel 2008, ha perso quasi l’11% del proprio PIL e visto svanire l’80% degli investimenti diretti dall’estero. La disoccupazione, inoltre, è ufficialmente al 20%, mentre quella giovanile sfiora ormai il 50%.
Di fronte ad un simile scenario, l’accesso all’Unione Europea è stato propagandato praticamente da tutte le forze politiche croate come un’occasione per invertire il declino del paese. In una recente intervista a Bloomberg News, il premier socialdemocratico della Croazia, Zoran Milanovic, aveva così prospettato “un’abbondanza di possibilità, un nuovo mercato, nuove occasioni… da prendere se si lavorerà duramente e se ci si preparerà adeguatamente”, ricordando poi però il rischio concreto di “finire tra i perdenti”.
E tra i perdenti finiranno con ogni probabilità ancora una volta quelle sezioni della società croata già penalizzate dalle pesanti misure di austerity messe in atto dal governo negli ultimi anni e che non cesseranno dopo l’ottenimento dello status di membro UE.
A confermare quale sarà la terapia d’urto che Bruxelles continuerà a riservare anche a Zagabria nel prossimo futuro è stato ancora il primo ministro Milanovic, il quale nella stessa intervista della scorsa settimana ha rivelato come il suo esecutivo sia già “sotto pressione… per intraprendere alcune misure coraggiose in modo da ridurre la spesa e spiegare alla popolazione che non esistono più diritti acquisiti per tutta la vita”.Il deficit di bilancio croato risulta d’altra parte al di fuori dei limiti previsti dall’UE e, salvo interventi, secondo le previsioni di Bruxelles dovrebbe salire al 4,7% del PIL alla fine di quest’anno per poi impennarsi ulteriormente nel 2014, fino al 5,6%. Tutto ciò ha spinto recentemente le principali agenzie di rating a decidere il “downgrade” del debito croato, facendo del paese - secondo la definizione di un commissario del Fondo Monetario Internazionale - “un ostaggio dei mercati internazionali”.
Con l’evolversi della cosiddetta crisi del debito in Europa e alla luce della devastazione sociale imposta da Bruxelles e Berlino a Grecia, Irlanda, Portogallo e non solo, il relativo fascino esercitato dall’ingresso nell’Unione ha da tempo lasciato spazio tra le popolazioni dei paesi candidati ai timori più che giustificati di andare incontro ad un’autentica minaccia anche agli attuali standard di vita già non eccelsi.
Il cambiamento di opinione dei croati circa l’accesso all’UE appare perciò scontato ed è confermato dal dimezzarsi dei consensi registrati in circa un decennio. I più recenti sondaggi indicano infatti come appena il 45% della popolazione appoggi l’ingresso nell’Unione Europea, nonostante l’incessante campagna a favore orchestrata in questi anni da politici e media locali. Nello stesso referendum tenuto nel gennaio 2012, dopo la chiusura ufficiale dei negoziati tra Zagabria e Bruxelles nel giugno precedente, la vittoria dei “sì” con il 66% dei consensi fu offuscata da un’affluenza alle urne che non raggiunse nemmeno il 44%.
Se l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea sembra dunque avere poco senso dal punto di vista economico, è piuttosto nell’ambito politico e strategico che una qualche giustificazione può essere ricercata.
Di fronte a più di una resistenza nell’UE ad imbarcare altri paesi caratterizzati da economie in affanno o corruzione diffusa, la decisione di favorire il loro ingresso nell’Unione risponde cioè ad una più ampia necessità di cercare di stabilizzare la periferia del continente, facendo intravedere ai loro cittadini l’illusione di un processo di transizione verso un sistema di mercato integrato relativamente prospero.
In questo senso, l’ingresso della Croazia nell’Unione Europea è la logica conseguenza di quello garantito nel 2004 alla Slovenia e, ancora, nel 2007 a Bulgaria e Romania, non a caso considerate da molti tutt’altro che pronte all’abbraccio con Bruxelles. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’area balcanica, sia pure tra difficoltà maggiori, dopo i presunti progressi sulla questione del Kosovo, la stessa Serbia inizierà i negoziati con l’UE a partire dal prossimo gennaio, così come in un futuro più lontano verranno valutate le possibilità di aderire di Bosnia, Macedonia e Montenegro.A spiegare l’importanza di questo processo è stato il ministro degli Esteri di Zagabria, Vesna Pusic, in un’intervista rilasciata al Financial Times poco prima che il suo paese diventasse il 28esimo membro dell’UE. La numero uno della diplomazia croata ha spiegato che un’eventuale decisione di voltare le spalle a Zagabria da parte dell’Unione Europea non sarebbe stata solo ingiusta ma anche “rischiosa”, dal momento che “l’Europa sudorientale è la zona di transizione con il Medio Oriente e il fermento politico in Turchia e la guerra in Siria si trovano proprio al di là di essa”.
Per questo motivo, ha affermato il ministro Pusic, “se l’UE dovesse perdere il proprio ‘soft power’, perderebbe anche il potere di stabilizzare l’Europa sudorientale”. In tal caso, “il pericolo che l’instabilità si diffonda dall’Europa sudorientale, dal Mediterraneo meridionale e dal Medio Oriente al cuore dell’Europa diventerebbe molto più grande”.
Se, al di là dei criteri e dei rigidi parametri economici stabiliti per l’accesso all’Unione, quella di consentire l’ingresso di un nuovo paese rimane una decisione fondamentalmente politica, il tentativo dei burocrati di Bruxelles di stabilizzare il continente attorno ad un progetto basato sui principi dell’economia di mercato sembra essere però sul punto di naufragare a causa delle sue stesse contraddizioni.
Come hanno forse già compreso i cittadini della Croazia, infatti, gli eventi degli ultimi anni hanno smascherato la reale natura dell’Unione Europea, rivelatasi non tanto un mezzo per la promozione dei diritti democratici e del benessere generale quanto un vero e proprio strumento in mano alle élite economiche e finanziarie del continente per salvare un sistema in crisi irreversibile tramite l’impoverimento di massa dei propri cittadini.
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di Michele Paris
Tra le varie operazioni di sorveglianza messe in atto su scala globale dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana (NSA) ci sarebbe anche l’intercettazione di telefoni e reti internet dei rappresentati delle istituzioni dell’Unione Europea. La più recente rivelazione delle attività criminali dell’apparato dell’intelligence statunitense è stata pubblicata nella tarda serata di sabato sul sito web del settimanale tedesco Der Spiegel e si basa su nuovi documenti forniti dall’ex contractor della CIA e dell’NSA, Edward Snowden.
Secondo quanto riportato in un documento “top secret” del 2010, il governo americano ha installato sistemi di intercettazione negli uffici dell’Unione Europea a Washington, nonché ad essere sistematicamente violate sono state anche le reti informatiche, così da ottenere accesso a comunicazioni e-mail e a documenti interni.
Inoltre, gli stessi metodi di controllo sono utilizzati dall’intelligence USA anche negli uffici UE presso le Nazioni Unite, a New York, mentre i diplomatici europei vengono apertamente definiti come “obiettivi” dell’attività di spionaggio.
Simili operazioni non sono limitate al territorio statunitense, visto che la lunga ombra dell’NSA si estende all’Europa stessa. Secondo Der Spiegel, infatti, sotto sorveglianza degli americani sono anche le sedi UE di Bruxelles. Poco meno di cinque anni fa, spiega il magazine tedesco, esperti di sicurezza dell’UE erano stati in grado di localizzare la provenienza di svariate telefonate sospette dirette al palazzo Justus Lipsius di Bruxelles (sede del Consiglio dell’Unione Europea), confermando come un’attività di sorveglianza era in corso dal quartier generale NATO della vicina località di Evere, da dove opera l’NSA.
Le reazioni ufficiali dei vertici UE alle rivelazioni esplosive di Der Spiegel sono state comprensibilmente dure. Il presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz, ha chiesto chiarimenti a Washington, aggiungendo che la notizia potrebbe avere “gravi conseguenze” sui rapporti con gli Stati Uniti. Il ministro degli Esteri del Lussemburgo, Jean Asselborn, ha a sua volta definito le attività segrete dell’NSA “disgustose”.Nel corso della giornata di domenica, il quotidiano britannico Guardian ha fornito un quadro più preciso delle notizie pubblicate inizialmente da Der Spiegel. Le rappresentanze europee prese di mira in territorio americano tramite un programma di intercettazioni denominato “Dropmire” comprenderebbero cioè quelle di Francia, Italia e Grecia, ma complessivamente missioni e ambasciate di paesi UE e di altri continenti coinvolte sarebbero addirittura 38.
Un’ulteriore esclusiva che aggiunge benzina sul fuoco dello scandalo era apparsa poi nel fine settimana sul sito internet dello stesso Guardian, anche se è stata successivamente soppressa in attesa di ulteriori verifiche. Il quotidiano britannico aveva cioè pubblicato un articolo basato sulle rivelazioni dell’ex ufficiale della Marina USA, Wayne Madsen, il quale aveva lavorato alle dipendenze dell’NSA tra gli anni Ottanta e Novanta.
Secondo quest’ultimo, oltre alla Gran Bretagna, almeno sei paesi europei avevano collaborato con Washington nel raccogliere segretamente e illegalmente dati sulle comunicazioni telefoniche ed elettroniche dei cittadini europei. I paesi che avevano stipulato un accordo segreto con gli USA erano Danimarca, Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna.
Secondo quanto riportato da molti giornali nella giornata di domenica, però, Wayne Madsen non sarebbe una fonte attendibile, poiché più volte nel recente passato è stato protagonista di rivelazioni su eventi legati al terrorismo che offrivano interpretazioni diametralmente opposte alle versioni ufficiali propagandate dai principali media.
Grazie al contributo di Edward Snowden, le rivelazioni di Der Spiegel aggiungono in ogni caso un altro tassello al quadro del colossale programma di sorveglianza del governo americano, dopo quelli che hanno descritto, tra l’altro, le intercettazioni delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutti gli abitanti del pianeta, di organismi pubblici e privati in Cina e, in collaborazione con i servizi segreti britannici, dei partecipanti a due riunioni del G-8 nel 2009 a Londra.
La scelta come bersaglio delle intercettazioni di paesi e istituzioni ufficialmente alleati, in particolare, indica il grado di paranoia raggiunto delle autorità di Washington nel raccogliere informazioni sensibili da utilizzare in un frangente storico caratterizzato da rivalità e tensioni crescenti in concomitanza con la crisi del capitalismo internazionale.
Il programma destinato alla sorveglianza degli uffici UE dimostra inoltre ancora una volta come le necessità della lotta al terrorismo siano poco più di un semplice pretesto per mettere in atto un sistema capillare di controllo di persone e organi di governo degno di uno stato di polizia.
Lo stesso Der Spiegel, infatti, domenica ha descritto anche lo sforzo degli Stati Uniti nel controllare le comunicazioni dei cittadini tedeschi. In Germania, cioè, l’NSA monitora ogni giorno qualcosa come 20 milioni di connessioni telefoniche e 10 milioni di account internet, fino a raggiungere la quota di 60 milioni in giorni di particolare traffico. Nei documenti rivelati da Snowden, la Germania viene descritta dagli americani come un partner di “terza classe”, dove i livelli di sorveglianza sono simili a quelli che gli USA utilizzano in Cina, Arabia Saudita o Iraq.
Con il progressivo emergere dei contorni delle clamorose violazioni della privacy e dei più basilari diritti democratici della popolazione di tutto il pianeta, la legittimità del governo degli Stati Uniti continua così a crollare inesorabilmente, nonostante i disperati tentativi di limitare i danni e di criminalizzare le azioni di Edward Snowden da parte di politici e media ufficiali.
Le reazioni indignate dei rappresentanti dell’UE e dei governi europei alle rivelazioni pubblicate in questi giorni sono però quanto meno ingannevoli, dal momento che molti paesi da questa parte dell’Atlantico - a cominciare proprio dalla Germania - oltre a conoscere da tempo le attività clandestine degli Stati Uniti, utilizzano da anni programmi di intelligence segreti per sorvegliare i propri cittadini.
La fermezza apparente con cui le richieste di spiegazioni vengono rivolte agli Stati Uniti da parte delle autorità europee sono perciò rivolte principalmente ad evitare l’espandersi di un dibattito pubblico sulle operazioni illegali di sorveglianza usate dagli stessi governi dell’Unione, a loro volta sintomo evidente del degrado morale e politico di una classe dirigente che vede ormai le popolazioni a cui dovrebbe rendere conto come principale nemico e minaccia ad un sistema di potere sempre più screditato.
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di Fabrizio Casari
Snowden va in Ecuador, anzi a Cuba, forse in Venezuela; macchè, è ancora a Mosca. L’agitazione intorno alla sorte dell’uomo più ricercato del momento si sposa con le illazioni e le ipotesi sui destini finali della sua fuga, dopo che ha bellamente beffato il suo governo riuscendo ad uscire dagli Stati Uniti, arrivare ad Hong Kong e poi giungere in Russia. E così, mentre il padre di Snowden tenta di negoziare con il governo USA un suo eventuale rientro, il possibile prossimo tour dell’ex analista della NSA in fuga sembra una gallery dei paesi ostili agli Stati Uniti.
Una sorta di cartina geografica di quella porzione di mondo che ha una propria politica estera, interna e di sicurezza nazionale, piuttosto che la connotata tendenza ad adempiere ai desiderata statunitensi. Si elencano infatti paesi che non riconsegnerebbero a Washington un uomo che nessun atto ostile ha commesso verso chi lo ospita ma che rischierebbe una condanna pesantissima nel suo paese.
Le notizie si rincorrono e, tra minacce e smentite, le dichiarazioni americane perseguono l’obiettivo dichiarato: esercitare pressioni fortissime verso chiunque pensi di offrire asilo politico al fuggitivo. Pechino invita Washington a tacere, visto che non si trova nelle condizioni d'impartire lezioni; Mosca dal canto suo ha già ricordato come Snowden sia in transito e che non ha nessun motivo per fermarlo, con ciò dicendo che qualora si presentasse con un lasciapassare diplomatico di qualunque paese, in termini di legge non avrebbe obiezioni a farlo imbarcare sul volo per la sua prossima tappa. Obama, che teme una frizione importante nelle relazioni con Cina e Russia e che sa distinguere le dimensioni di una crisi possibile, ha affermato che nessun aereo statunitense attaccherà in volo l’aereo che dovesse ospitare Snowden. Le residue minacce statunitensi sono quindi solo all’indirizzo dei paesi latinoamericani.
L’Ecuador, che la scorsa settimana era stato direttamente minacciato dal senatore USA Bob Menendez (un sottopancia della mafia cubano-americana della Florida) di revisione in negativo dell’accordo bilaterale di scambio preferenziale per alcuni prodotti alimentari, ha reagito con la sovranità e determinazione necessaria. Ieri mattina, infatti, Quito ha comunicato “la rinuncia unilaterale immediata ed irrevocabile” all’accordo commerciale con Washington. “L’Ecuador non accetta pressioni nè minacce da nessuno e non commercia con i suoi principi nè li sottomette a interessi mercantili per importanti che questi siano” ha indicato in una conferenza stampa il ministro della Comunicazione Fernando Alvarado.
Peraltro, va detto che l’accordo tra i due paesi (Aptea la sua sigla in inglese ndr) che ha come oggetto la collaborazione commerciale andina e la lotta contro la produzione di droga (in scadenza il 31 Luglio prossimo), seppur nato come ipotetico indennizzo alle nazioni andine, si é rivelato utile soprattutto agli Stati Uniti che l’hanno adoperato come strumento di ricatto. Ottima occasione quindi per Correa per ricordare agli Stati Uniti come non siano proprietari della sovranità equadoregna e come già in passato (in primo luogo nel mancato rinnovo della concessione per la base militare di Manta, poi nel 2011 con il caso dell’espulsione dell’ambasciatrice USA Heather Hodgesv, che nei cable diffusi da Wikileaks definiva la polizia dell’Ecuador “corrotta”, fino all’asilo politico di Assange nell’ambasciata di Quito a Londra) il suo governo non si sia fatto pregare nel rispedire al mittente ingerenze e minacce.
Mentre quindi si cerca di trovare la mossa decisiva nella partita a scacchi tra Washinton e mezzo mondo, ci si chiede quale potrebbe essere la prossima tappa della sua fuga. Certo che per gli Stati Uniti non si tratta solo di frustrazione e rabbia nei confronti di chi tanto danno ha recato al loro spionaggio; oltre ad esibire le numerose falle nel suo infallibile sistema che regge la sicurezza nazionale, in ballo c’è soprattutto la possibilità che chiunque offra aiuto a Snowden abbia da chiedere in cambio una collaborazione. Non si tratta di difesa dei diritti umani o di tutela della libera informazione, non scherziamo: si tratta della possibilità concreta di mettere le mani su una fonte straordinaria di analisi importantissime per qualunque intelligence.
Non tanto per quanto si potrà intercettare da ora in avanti, dal momento che le contromisure operative e tecnologiche per chiudere la falla alla NSA sono state già prese, ma capire la metodologia di lavoro, le verticali operative sulle quali si snoda l’organizzazione interna, l’accesso a fonti dirette e indirette esterne e interne e molto altro ancora qui inutile da elencare, offrirebbe ai servizi del paese che ospiterà una enorme possibilità di decriptare modalità e tecniche di lavoro della NSA che sarebbero funzionali alle contromisure necessarie per difendersi dallo spionaggio a stelle e strisce.
Si fanno paragoni con il caso Assange ma sono paragoni approssimativi. Il fondatore di Wikileaks ha avuto sen’altro il merito straordinario di documentare a tutto il mondo l’ipocrisia della politica estera statunitense, e i suoi legami poco consoni con alcuni parlamentari e dirigenti di partiti, membri delle comunità finanziarie e funzionari di governi internazionali, ma in fondo quello che ha denunciato non era ignoto a chi si occupa di politica estera con qualche avvedutezza ed attenzione.Il caso Snowden, invece, è cosa assai diversa, perché pone all’ordine del giorno tanto le modalità di spionaggio degli Usa quanto il fatto che, a dispetto di ciò che i trattati militari internazionali vorrebbero, dimostrano come sia solo con la Gran Bretagna che gli USA condividono i maggiori segreti e come, insieme, esercitino attività pesantissime di spionaggio anche nei confronti di quegli alleati politici e militari con i quali condividono magari operazioni militari oltre che ipotesi di governante globale.
Perché che Washington decida di spiare Pechino e Mosca, Teheran e Islamabad, Caracas e L’Avana, e via elencando, può sembrare persino ovvio; ma che riservino lo stesso trattamento ai loro alleati, da Berlino a Madrid, da Parigi a Roma, questo proprio non lo si doveva sapere. Lo si poteva sospettare? Certo che sì, ma un conto è ipotizzare, un altro è verificare, un conto è persino saperlo, un altro è che tutto il mondo lo sappia.
Inoltre, spiare le riunioni dei vertici politici e militari, i negoziati finanziari e diplomatici dei paesi più importanti sulla scena mondiale, avvantaggia illegittimamente gli spioni sugli spiati e rende i negoziati stessi in qualche modo privi di senso, dal momento che preventivamente e nel corso degli incontri gli Stati Uniti sanno perfettamente le intenzioni, la disposizione e gli obiettivi di chi negozia con loro, alleati o avversari che siano.
Non sarà sui giornali o nelle conferenze stampa a seguito degli incontri ufficiali, ma è certo che i paesi oggetto dello spionaggio statunitense non mancheranno di far sentire la loro voce seccata. E si può esser certi che, almeno i paesi più degni, come la logica dell’intelligence internazionale vuole, cercheranno di restituire le attenzioni con gli interessi. E non sempre ci saranno attenzione mediatica e terminal aeroportuali ad ammortizzarne gli effetti.
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di Mario Lombardo
Con un'altra discutibile manovra politica avvenuta dietro le spalle degli elettori, il Partito Laburista australiano (ALP) ha operato questa settimana un nuovo clamoroso cambio alla propria guida e a quella del governo del paese. Il primo ministro Julia Gillard è stata infatti estromessa dalla leadership del più antico partito dell’Australia per essere sostituita dal suo immediato predecessore, Kevin Rudd, nel tentativo di evitare un quasi certo tracollo nelle elezioni generali previste per il prossimo mese di settembre.
Il ribaltone al vertice del partito di maggioranza relativa a Canberra è andato in scena nella serata di mercoledì, con i parlamentari laburisti che hanno votato con un margine di 57 a 45 a favore di Rudd. L’avvicendamento indica la messa in moto di potenti forze dietro le quinte della politica australiana, dal momento che lo stesso Rudd aveva visto fallire nettamente due tentativi di riconquistare la leadership del suo partito a inizio 2012 e nel marzo di quest’anno.
Il governo Gillard, d’altra parte, risulta enormemente impopolare tra gli elettori e il primo capo di un esecutivo australiano di sesso femminile continua a suscitare una forte avversione proprio per il ruolo avuto nel blitz che tre anni fa la portò al potere al posto di Rudd. Secondo alcuni recenti sondaggi, nelle elezioni previste tra meno di tre mesi il Partito Laburista faticherebbe addirittura ad ottenere 30 seggi sui 150 totali della Camera dei Rappresentanti.
Il reinsediamento di Kevin Rudd è dovuto perciò ad una residua simpatia nei suoi confronti per le modalità con le quali venne estromesso dalla carica di primo ministro, nonché per avere suscitato qualche speranza di cambiamento dopo le elezioni del 2007. In quell’occasione, Rudd e i laburisti avevano beneficiato del profondo malcontento popolare per le politiche messe in atto dal governo liberale di John Howard, alimentando aspettative per una svolta progressista che non sarebbe però mai arrivata.
In ogni caso, dopo la scelta del nuovo leader da parte della delegazione parlamentare del Labor, nella mattinata di giovedì Rudd ha frettolosamente giurato anche come nuovo primo ministro di fronte al Governatore Generale dell’Australia, Quentin Bryce, senza nemmeno ottenere un voto di fiducia in Parlamento. Questa manovra è apparsa quanto meno discutibile, soprattutto alla luce del fatto che i laburisti sono alla guida di un governo di minoranza che si è retto finora grazie all’appoggio esterno di due deputati indipendenti, i quali, oltretutto, avevano inizialmente espresso qualche dubbio sulla loro intenzione di appoggiare un eventuale nuovo governo Rudd.
Il loro sostegno alla fine garantito al nuovo premier, assieme alla garanzia offerta dal leader del Partito Liberale di opposizione, Tony Abbott, di non procedere con una mozione di sfiducia, hanno comunque assicurato la nascita dell’Esecutivo, confermando il desiderio diffuso tra gli ambienti di potere australiano di evitare una crisi costituzionale in un momento di grande inquietudine sul fronte politico.Il ritorno da protagonista di Kevin Rudd sulla scena politica australiana appare particolarmente singolare alla luce delle ragioni che avevano portato alla sua rimozione con un golpe interno al Partito Laburista nel 2010. Rudd, per cominciare, si era esposto alle accese critiche della comunità degli affari indigena - soprattutto della potente lobby dell’industria estrattiva, vale a dire la spina dorsale dell’economia del paese - a causa di un’odiata “supertassa” sui profitti di colossi come Rio Tinto o BHP Billiton. Dopo una campagna di discredito nei confronti dell’iniziativa promossa da Rudd, la tassa sarebbe stata approvata sotto la gestione Gillard ma in una forma decisamente più attenuata.
La caduta di Rudd nel 2010, inoltre, era stata dovuta anche a questioni di politica internazionale e alle manovre silenziose degli Stati Uniti per favorire la rimozione di un capo di governo alleato che aveva manifestato in più occasioni la volontà di mediare per giungere ad un accomodamento pacifico tra gli interessi di Washington e Pechino nel continente asiatico. Questa inclinazione tutt’altro che anti-americana di Kevin Rudd andava a scontrarsi con la cosiddetta “svolta” asiatica decisa dall’amministrazione Obama fin dal 2009 e che prevede il contenimento ad ogni costo dell’espansionismo cinese, da ottenere con mezzi economici e diplomatici ma anche militari.
Dopo l’uscita di scena di Rudd grazie all’opera di quelle che un cablo dell’ambasciata USA a Canberra pubblicato da WikiLeaks avrebbe descritto come “fonti protette” all’interno del Labor, la partnership strategica tra i due paesi è decollata, con il presidente Obama che a fine 2011 ha finalmente visitato il paese alleato, annunciando il dispiegamento di alcune centinaia di soldati americani in territorio australiano.
Queste ed altre preoccupazioni nei confronti di Rudd sembrano però essere state ora messe da parte, almeno momentaneamente, per cercare di dare qualche chance al Partito Laburista in vista delle elezioni e di scelte complicate che verranno richieste al prossimo governo in concomitanza con un evidente rallentamento dell’economia australiana. Questo partito, d’altra parte, ha dimostrato negli ultimi anni di sapere garantire l’implementazione relativamente indolore di politiche impopolari richieste dalle élite economiche e finanziarie australiane e internazionali, grazie soprattutto ai tradizionali legami con le organizzazioni sindacali e al sostegno di lavoratori e classe media.
Alcuni dei protagonisti della sua deposizione nel 2010 - a cominciare dal deputato irriducibilmente filo-americano Bill Shorten - si sono perciò adoperati questa settimana per riportare Rudd al potere, con ogni probabilità dopo il via libera degli Stati Uniti. Il Dipartimento di Stato americano, dopo il voto di mercoledì, ha così espresso la propria sostanziale approvazione, manifestando la volontà di mantenere un rapporto di collaborazione privilegiato con qualsiasi futuro governo australiano.Rudd, da parte sua, dopo il ritorno alla guida dell’esecutivo ha rapidamente abbandonato la retorica dei giorni precedenti, sostituendo la promessa di abbandonare la strada dell’austerity con l’appello al business australiano per gettare le basi di una collaborazione con il governo, in vista di “decisioni difficili per il futuro della nostra economia”.
Il percorso del nuovo governo appare però complicato da molti fattori, a cominciare dalla risicata maggioranza in Parlamento e dalle profonde divisioni nel Partito Laburista. Numerosi ministri del governo Gillard hanno già rassegnato le proprie dimissioni giovedì, tra cui quello del Tesoro, del Commercio, dell’Agricoltura, delle Comunicazioni e del Cambiamento Climatico. Altri autorevoli membri del partito, tra cui il ministro della Difesa Stephen Smith e la stessa Gillard, hanno invece annunciato di non essere intenzionati a candidarsi nelle prossime elezioni.
Il Labor australiano, infine, anche con una nuova e meno screditata leadership difficilmente riuscirà ad evitare un’altra sonora sconfitta nel voto del 14 settembre prossimo dopo le batoste patite nelle recenti elezioni per il rinnovo di alcuni parlamenti statali. Il tracollo nel gradimento del partito tra le classi più disagiate è infatti dovuto proprio alle anti-democratiche manovre interne che hanno caratterizzato i cambi al vertice in questi anni e, ancor più, alla continua rinuncia anche alla parvenza di politiche progressiste, come, appunto, ha già fatto intravedere anche il redivivo neo-premier Kevin Rudd.
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di Michele Paris
La Corte Suprema degli Stati Uniti ha emesso negli ultimi giorni tre sentenze decisive riguardanti i diritti delle coppie gay e le discriminazioni razziali nell’ambito delle leggi elettorali dei singoli stati. Nella giornata di mercoledì sono arrivati due verdetti salutati con grandissimo entusiasmo da politici e attivisti “liberal” e che hanno, da un lato, sancito l’incostituzionalità della legge federale che consentiva di godere dei benefici fiscali, sanitari e pensionistici alle sole coppie sposate eterosessuali e, dall’altro, dato il via libera alle nozze gay nello stato della California.
Con una maggioranza di 5-4, la Corte Suprema ha dunque cancellato una parte del Defense of Marriage Act (DOMA) del 1996, espandendo i benefici previsti dalla legge federale alle coppie dello stesso sesso unite in matrimonio in uno dei 12 stati americani che hanno legalizzato questa pratica. All’attenzione dei giudici non c’era invece la sezione della legge approvata durante la presidenza Clinton e che consente agli stati di non riconoscere i matrimoni gay celebrati in altri stati.
La seconda sentenza – ugualmente garantita da una maggioranza minima – non ha invece nemmeno affrontato il tema delle unioni tra persone dello stesso sesso ma, giudicando inammissibile il ricorso avanzato dai promotori del bando sulle nozze gay approvato dagli elettori della California nel 2008 (“Proposition 8”), ha confermato la precedente decisione di un tribunale di San Francisco che aveva dichiarato incostituzionale lo stesso divieto.
Nonostante l’enorme attenzione rivolta alle sentenze sui diritti gay dai media americani, è quella di martedì che avrà le implicazioni di gran lunga più importanti e preoccupanti. Questo verdetto vergognoso e difficile da giustificare legalmente ha di fatto abolito il cosiddetto Voting Rights Act (VRA), la legge che da quasi mezzo secolo cerca di impedire le discriminazioni razziali nell’esercizio del diritto di voto in alcuni stati americani.
Quella stessa Corte che, secondo alcuni, mercoledì avrebbe dato un impulso fondamentale ai diritti degli omosessuali, con una maggioranza risicata dei nove giudici (5-4) il giorno precedente aveva aggiunto un altro tassello all’opera di smantellamento dei diritti democratici universali portata avanti sotto la guida dall’attuale presidente (“Chief Justice”), John Roberts.
In discussione nel caso “Contea di Shelby contro Holder” era la costituzionalità delle sezioni 4 e 5 della legge approvata nel 1965 dal Congresso USA nell’ambito delle lotte del movimento per i diritti civili. Questo provvedimento era stato adottato per mettere fine alle discriminazioni nell’acceso al voto negli stati dove la segregazione razziale era la norma. Gli stati più problematici, secondo la legge, avrebbero così dovuto ottenere un permesso preventivo dal governo federale prima di modificare le proprie procedure di voto, usate appunto in molti casi per escludere le minoranze razziali dagli appuntamenti elettorali.I giudici della Corte Suprema hanno dichiarato incostituzionale soltanto la sezione 4 del VRA, lasciando teoricamente intatta la sezione 5. Dal momento, però, che la sezione 4 identifica quegli stati sottoposti alla sorveglianza del governo di Washington in ambito elettorale, la sezione 5 – che riguarda il permesso preventivo che gli stati stessi devono richiedere per cambiare la loro legislazione – viene automaticamente svuotata.
A sostegno del VRA si è espresso più volte il Congresso americano negli ultimi cinque decenni con consensi bipartisan, tra cui più recentemente nel 2006, quando Camera e Senato prolungarono a larghissima maggioranza la sezione 5 per altri 25 anni. Sulla sezione 4, invece, l’ultimo voto al Congresso risale al 1975, quando vennero fissati i criteri per identificare gli stati, le contee e i comuni coperti dal VRA e quindi costretti ad ottenere un’autorizzazione federale per modificare le proprie leggi riguardanti ogni aspetto del processo elettorale.
Proprio il fatto che la definizione dei criteri di scelta risale a quasi 40 anni fa ha fornito ai cinque giudici di maggioranza della Corte Suprema la giustificazione per dichiarare incostituzionale la sezione 4 del VRA. Come ha spiegato il presidente Roberts, cioè, l’attuale sistema “è basato su fatti vecchi di 40 anni senza alcuna relazione logica con il presente”. In altre parole, secondo l’interpretazione dei cinque giudici ultra-conservatori della Corte (Roberts, Samuel Alito, Anthony Kennedy, Antonin Scalia, Clarence Thomas), le discriminazioni razziali in ambito elettorale che caratterizzavano alcuni stati americani a metà degli anni Settanta sono oggi quasi del tutto superate e le loro leggi in materia potranno d’ora in poi essere modificate senza il permesso del governo federale.
Dal momento che la realtà in molti stati coperti dal VRA appare tutt’altro che rosea, la maggioranza della Corte Suprema non ha completamente delegittimato il ruolo di controllo del governo sulle leggi elettorali locali. Infatti, la sentenza invita il Congresso ad approvare criteri più aggiornati per l’identificazioni degli stati e delle contee tuttora a rischio di discriminazione. Tuttavia, alla luce delle divisioni che caratterizzano Camera e Senato, nonché del vantaggio politico che deriverà soprattutto al Partito Repubblicano dalla sentenza di martedì, è praticamente impossibile che il Congresso USA possa riuscire ad esprimersi su questo argomento nel prossimo futuro.
Nella loro decisione, i cinque giudici di maggioranza non si sono curati di spiegare la contraddizione tra il presunto superamento delle discriminazioni razziali in moti stati americani e le prove schiaccianti del persistere ancora oggi di queste pratiche, come avevano ad esempio indicato ben 15 mila pagine di documenti presentati in occasione del voto al Congresso per il prolungamento del VRA nel 2006.
Il continuo intervento del Dipartimento di Giustizia negli ultimi anni per bloccare una lunga serie di leggi statali, soprattutto nel sud degli Stati Uniti, volte a restringere l’accesso al voto - con provvedimenti che comprendono, tra l’altro, obblighi più onerosi per dimostrare l’identità di chi si reca alle urne, il riesame delle liste elettorali per escludere dal voto il maggior numero di persone possibile, la drastica limitazione del voto anticipato o per corrispondenza e la ridefinizione dei distretti elettorali per favorire un determinato partito - è poi un’ulteriore conferma del persistere delle discriminazioni in questo ambito.
Un recente studio del Brennan Center for Justice presso la New York University ha infatti elencato 86 modifiche alle leggi elettorali statali annullate dal governo federale negli ultimi 15 anni. Alcuni di questi interventi, consentiti grazie al VRA, hanno riguardato proprio la contea di Shelby, dalla quale è partita la causa all’attenzione della Corte Suprema, tra cui più recentemente nel 2008.Ad esprimersi a favore del VRA sono stati i quattro giudici moderati della Corte: Stephen Breyer, Elena Kagan, Sonia Sotomayor e Ruth Bader Ginsburg. Quest’ultima ha redatto l’opinione dissenziente della minoranza utilizzando toni insolitamente duri nei confronti dei colleghi conservatori. Il membro più anziano del più importante tribunale americano ha anche smontato alcuni punti su cui il presidente Roberts ha basato la propria decisione di smantellare la legge.
Ad esempio, il giudice Ginsburg ha fatto notare come il VRA preveda già un meccanismo per svincolare i singoli stati dalla supervisione federale nel caso in cui essi non mettano in atto provvedimenti discriminatori per almeno dieci anni. La presunta necessità di trattare equamente ogni membro dell’Unione, senza creare categorie di stati buoni (esclusi dal VRA) e cattivi (coperti dal VRA), non ha infine senso, dal momento che le disparità di trattamento sono pratica comune nelle leggi federali, come ad esempio nelle misure di stanziamento di fondi in maniera differente da stato a stato o nell’approvazione di leggi che si applicano esclusivamente ad un singolo stato.
Le osservazioni del giudice Ginsburg contribuiscono perciò a confermare come la decisione di martedì non sia basata su fondamenta legali e razionali, bensì sia stata una decisione totalmente politica. Il verdetto, in definitiva, appare in aperta contraddizione con quanto contenuto nel Quindicesimo Emendamento della Costituzione americana, approvato nel 1870 all’indomani della Guerra Civile e che afferma che il “diritto di voto dei cittadini non può essere negato o limitato dagli Stati Uniti o da qualsiasi Stato sulla base di razza, colore o precedenti condizioni di schiavitù”, nonché il potere del Congresso per “implementare questo articolo con apposita legislazione”.
Le conseguenze della sentenza di martedì sono subito risultate evidenti, con le autorità dello stato del Texas che hanno già annunciato di volere procedere con l’adozione di misure che erano state sospese in attesa del parere della Corte Suprema. Tra di esse c’è una legge che impone ad ogni elettore che si reca ad un seggio di esibire un documento identificativo valido, anche se molti residenti in località remote di questo stato dovranno percorrere fino a 400 chilometri per ottenerne uno nel caso fossero sprovvisti. Inoltre, il Texas potrà mettere in atto le modifiche ai distretti elettorali decise nel 2011 e bloccate dal governo grazie al VRA perché considerate discriminanti nei confronti dei votanti appartenenti a minoranze razziali.
Se gli attacchi al diritto di voto che verranno portati dopo il verdetto di martedì della Corte Suprema sembrano avere principalmente motivazioni razziali, il vero obiettivo della sentenza nel caso “Contea di Shelby contro Holder” e delle leggi discriminatorie che prolifereranno nei prossimi mesi è però quello di tenere lontano dalle urne il maggior numero possibile di cittadini appartenenti alle classi più povere al di là della loro etnia, come dimostrano i provvedimenti studiati o già messi in atto per rendere più onerosa la registrazione nelle liste elettorali.
Questa parte consistente della popolazione americana, che fa già segnare percentuali di voto molto contenute, è infatti colpita maggiormente dalle politiche anti-sociali della classe dirigente degli Stati Uniti e quindi potenzialmente più ostile nei confronti di quest’ultima rispetto ai ceti più agiati.
Ciò che ha consentito al supremo tribunale americano di demolire uno dei punti cardine delle lotte degli anni Sessanta del secolo scorso è in definitiva un ambiente democratico negli Stati Uniti in continua decomposizione, nel quale, tra l’altro, il governo è giunto ad auto-assegnarsi la facoltà di decidere arbitrariamente l’assassinio di chiunque venga indicato come una minaccia terroristica, di mettere sotto assedio intere città sospendendo le garanzie costituzionali dei loro abitanti o, come è stato rivelato nei giorni scorsi, di raccogliere e conservare segretamente informazioni sulle comunicazioni elettroniche di tutto il pianeta.