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di Michele Paris
Dalla partenza domenica scorsa da Hong Kong dell’ex contractor della CIA e dell’NSA, Edward Snowden, il governo degli Stati Uniti ha iniziato una disperata campagna fatta di pressioni e minacce per cercare in tutti i modi di riportare in patria e incriminare la fonte delle recenti clamorose rivelazioni sui programmi segreti di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutto il pianeta messi in atto dall’apparato della sicurezza nazionale americano.
Una delle voci più critiche nei confronti delle autorità di Cina e Russia, presunte responsabili del mancato arresto e rimpatrio di Snowden, è stata quella del segretario di Stato, John Kerry. Quest’ultimo ha infatti minacciato gravi conseguenze nelle relazioni diplomatiche con Mosca e Pechino, chiedendo al Cremlino il rispetto degli “standard legali”, nell’interesse di tutte le parti coinvolte nella vicenda.
Il richiamo alla prassi legale da parte del numero uno della diplomazia americana risulta particolarmente paradossale in questo frangente, dal momento che la persona che l’amministrazione Obama vorrebbe perseguire ha contribuito a far conoscere a tutto il mondo una parte delle attività palesemente illegali commesse proprio dagli Stati Uniti nella difesa dei propri interessi.
Kerry, inoltre, per convincere il Cremlino ha pateticamente ricordato i trasferimenti a Mosca di sette cittadini russi arrestati in territorio USA negli ultimi due anni. Come hanno fatto notare quasi tutti i media in questi giorni, tuttavia, il confronto è quanto meno fuori luogo, dal momento che Snowden non solo non è stato fermato dalle autorità di Mosca ma, secondo la versione ufficiale, tecnicamente non ha nemmeno varcato il confine russo, poiché sarebbe tuttora all’interno del terminal dell’aeroporto Sheremetyevo.
La collaborazione tra USA e Russia, oltretutto, nel recente passato non pare essere stata particolarmente apprezzata a Washington, come dimostra la pressoché totale indifferenza delle autorità americane ai ripetuti avvisi lanciati dai loro colleghi russi in merito ai contatti con ambienti dell’integralismo islamico in Cecenia e in Daghestan di uno dei due responsabili dell’attentato di aprile alla maratona di Boston.
La “frustrazione” e il “disappunto” del governo americano sono stati poi espressi anche nei confronti di Cina e Hong Kong, da dove Snowden ha potuto prendere un aereo per Mosca nonostante la revoca del passaporto e la richiesta di estradizione presentata dal Dipartimento di Giustizia americano. Tra gli altri, il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, ha parlato di “serie complicazioni” nei rapporti sino-americani, respingendo le motivazioni ufficiali addotte dalle autorità di Hong Kong per non avere fermato Snowden, cioè che la richiesta americana mancava di tutti i requisiti legali previsti dal trattato di estradizione.
Nelle accuse rivolte a Pechino e Hong Kong da parte dei politici americani non è sembrato in ogni caso trasparire alcun imbarazzo, né i media “mainstream” d’oltreoceano hanno fatto notare come le relazioni tra le prime due economie del pianeta fossero già da qualche giorno destinate ad imboccare una strada tutta in salita, proprio a causa delle rivelazioni pubblicate da Guardian e Washington Post.Prima di lasciare Hong Kong, come è noto, Snowden aveva infatti presentato le prove della massiccia attività spionistica condotta dagli americani ai danni di varie istituzioni cinesi, ribaltando di fatto le accuse rivolte negli ultimi mesi dal governo USA a Pechino per il presunto dilagare di operazioni di hackeraggio contro obiettivi statunitensi.
I governi di Mosca e Pechino, così, hanno prevedibilmente reagito in maniera ferma alle prediche di Washington, sia pure in modi differenti. La Russia ha dapprima evitato commenti sulla presenza di Snowden all’interno del proprio territorio, con svariati membri del governo che hanno anche negato di essere a conoscenza dei movimenti dell’ex contractor della NSA.
Martedì, poi, il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, in un’intervista all’agenzia di stampa RIA Novosti ha affermato che “i tentativi di accusare la Russia di avere violato le leggi americane e in pratica di avere preso parte ad una cospirazione - assieme alle minacce subite - sono totalmente infondati e inaccettabili”.
Lo stesso Vladimir Putin sempre martedì ha confermato la presenza di Snowden nell’area di transito dell’aeroporto della capitale russa. Nel corso di una conferenza stampa dalla Finlandia, il presidente ha affermato che Snowden è libero di lasciare Mosca in qualsiasi momento, mentre ha escluso la possibilità di consegnarlo agli americani, bollando le accuse di questi ultimi come “spazzatura”.
In Cina, invece, le reazioni sono state affidate in gran parte agli organi di stampa affiliati al regime. Sempre nella giornata di martedì, il Quotidiano del Popolo ha pubblicato un aggressivo editoriale in prima pagina accusando gli Stati Uniti “non solo di non averci fornito alcuna spiegazione o scusa [in merito al monitoraggio dei sistemi informatici cinesi] ma hanno anche espresso il loro disappunto per il modo in cui Hong Kong ha gestito la vicenda secondo quanto stabilito dalla legge”.
L’autore del commento - Wang Xinjun, ricercatore presso l’Accademia delle Scienze Militari - ha poi affondato il colpo, sostenendo che “in un certo senso, da modello per il rispetto dei diritti umani, gli Stati Uniti sono diventati gli intercettatori della privacy, i manipolatori del potere centralizzato per controllare la rete e i paranoici invasori dei sistemi informatici di altri paesi”. Inoltre, poiché “il suo coraggio ha strappato la maschera ipocrita di Washington”, Edward Snowden “verrà ricordato da tutto il pianeta”.
In un altro articolo, il Global Times ha anch’esso celebrato le azioni di Snowden, definendolo “un giovane idealista che ha smascherato gli scandali del governo americano”, il quale, “invece di porgere le proprie scuse” a Pechino, “sta mostrando i muscoli nel tentativo di tenere sotto controllo l’intera situazione”.
A fare le spese dell’arroganza americana sono anche quei paesi indicati in questi giorni come le possibili destinazioni finali del viaggio di Snowden, tra cui Cuba, Ecuador e Venezuela. Secondo alcuni giornali, infatti, il Dipartimento di Stato USA avrebbe già inviato avvertimenti ufficiali ai paesi latinoamericani, invitandoli a non dare rifugio al 30enne analista informatico.
L’Ecuador, in particolare, dopo la probabile assistenza garantita a Snowden per lasciare Hong Kong e l’annuncio della possibile concessione dell’asilo politico si trova a dover fronteggiare enormi pressioni sia in maniera esplicita che, con ogni probabilità, dietro le quinte della vicenda. Ad esempio, il Washington Post ha pubblicato lunedì un articolo dai toni minacciosi contro il governo di Rafael Correa, il quale, ospitando Snowden, rischierebbe tra l’altro la revoca da parte dell’amministrazione Obama dell’accordo di scambio preferenziale in essere con gli Stati Uniti. Questo accordo scade proprio il primo luglio prossimo e, secondo il reporter del Washington Post autore del pezzo, il mancato rinnovo comporterebbe “il rischio di perdere decine di migliaia di posti di lavoro” nei settori dell’export destinato al mercato americano.Al di là dell’epilogo della vicenda, i furiosi tentativi degli Stati Uniti di mettere le mani su Snowden e di spingere con metodi e toni intimidatori paesi sovrani ad adeguarsi alle loro richieste sono il chiaro sintomo di una sensazione di panico abbondantemente diffusa tra la classe dirigente d’oltreoceano.
Oltre al desiderio di lanciare un messaggio a coloro all’interno del governo che dovessero valutare un percorso come quello di Snowden, la ragione principale dell’angoscia che caratterizza le minacce lanciate da Washington contro quest’ultimo, così come contro Cina e Russia - le quali, peraltro, stanno chiaramente sfruttando la situazione per i propri interessi strategici - è dovuta all’ulteriore discredito per il governo USA che provocherebbero possibili nuove e ancora più esplosive rivelazioni nel prossimo futuro.
Questo timore sembra del tutto giustificato, visto che il giornalista del Guardian, Glenn Greenwald, ha confermato che i documenti riservati ottenuti da Snowden sono nell’ordine delle migliaia e, oltretutto, includono informazioni di estremo valore per i servizi segreti di paesi stranieri.
Per comprendere la portata del danno arrecato da Snowden all’apparato della sicurezza nazionale americana, analisti del governo in questi giorni stanno studiando attentamente i sistemi informatici violati. Secondo un anonimo ex esponente del governo USA citato dal Washington Post, mentre le rivelazioni già pubblicate sarebbero di utilità limitata per Cina o Russia, l’eventuale sottrazione e pubblicazione di informazioni che descrivono del dettaglio le modalità con cui l’NSA penetra i sistemi informatici di paesi stranieri rappresenterebbe un problema enorme per gli Stati Uniti.
Dietro ai contorni da spy-story della vicenda di Snowden, perciò, potrebbe esserci proprio una trattativa segreta tra quest’ultimo e le autorità dei paesi che potrebbero garantirgli la possibilità di sottrarsi alla vendetta americana, così da mettere le mani su informazioni fondamentali per comprendere e contrastare i metodi impiegati dagli USA per controllare qualsiasi dissenso interno o rivalità internazionale che ostacoli gli interessi dell’Impero.
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di Michele Paris
Il 13 giugno scorso, la Casa Bianca ha dato l’annuncio ufficiale del proprio cambio di marcia in relazione al coinvolgimento nel conflitto in corso in Siria, rendendo nota la decisione di fornire armi direttamente ai “ribelli” in lotta contro il regime di Bashar al-Assad. Come giustificazione, l’amministrazione Obama ha indicato il possesso di presunte prove dell’uso di armi chimiche da parte delle forze armate di Damasco, prove che però non sembrano più consistenti di quelle sulle armi di distruzioni di massa impiegate un decennio fa dall’amministrazione Bush per invadere illegalmente l’Iraq di Saddam Hussein.
Il sospetto ampiamente diffuso che gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, abbiano ancora una volta gettato con l’inganno le basi per una rovinosa guerra in Medio Oriente è stato confermato nei giorni scorsi anche dai pareri di una serie di esperti indipendenti e delle stesse Nazioni Unite.
Un’indagine di qualche giorno fa del Washington Post, ad esempio, ha ricordato che i campioni di sangue, tessuti biologici e ambientali raccolti in Siria dagli USA, dalla Francia e dalla Gran Bretagna sono stati di “utilità limitata” per gli ispettori ONU incaricati di determinare i responsabili dell’uso di armi chimiche in Siria. La natura degli stessi campioni ottenuti tramite i “ribelli” e la segretezza delle modalità di raccolta hanno poi contribuito a rendere ancora più dubbie le accuse rivolte contro Assad.
Anche se in Siria è stato segnalato finora un numero esiguo di operazioni condotte con armi chimiche e i decessi per questo motivo sarebbero relativamente limitati, la questione della responsabilità è di fondamentale importanza. Infatti, nel tentativo di stabilire un pretesto per giustificare un maggiore coinvolgimento nel paese a fianco dell’opposizione, il presidente Obama la scorsa estate aveva minacciato il regime di Damasco a non oltrepassare la “linea rossa” dell’uso di armi chimiche per non incorrere nella reazione americana.
In concomitanza con lo svanire delle prospettive di vittoria sul campo dei “ribelli”, a partire dai primi mesi del 2013 i governi occidentali hanno così iniziato ad agitare lo spettro delle armi chimiche fino alla definitiva presa di posizione di Washington un paio di settimane fa che potrebbe a breve imprimere una svolta alle sorti del sanguinoso conflitto.
In seguito alle accuse di USA, Francia e Gran Bretagna, le Nazioni Unite avevano incaricato una speciale commissione di indagare sull’impiego di armi chimiche in Siria ma le ricerche non avevano portato a conclusioni definitive. Anzi, un membro della commissione stessa, l’ex giudice del Tribunale Penale Internazionale, Carla Del Ponte, aveva lasciato intendere che a utilizzare armi chimiche in maniera limitata erano stati probabilmente i “ribelli” e non le forze del regime.Il sospetto espresso da Carla Del Ponte che le formazioni, in gran parte integraliste, che si battono contro Assad si siano impossessate di armi chimiche negli arsenali del regime, oppure le abbiano ricevute da altri paesi come la Libia, per poi utilizzarle in maniera limitata, così da scatenare una campagna internazionale contro Assad, è condiviso ormai anche da esperti autorevoli.
In un’intervista al Washington Post, lo scienziato e diplomatico svedese Rolf Ekéus, già a capo degli ispettori ONU in Iraq negli anni Novanta, ha affermato che, “se i gruppi di opposizione sentono affermare dalla Casa Bianca che l’uso di gas nervino è da considerarsi una linea rossa, è evidente che essi hanno tutto l’interesse nel dimostrare che qualche tipo di arma chimica è stata impiegata”.
L’opinione di Ekéus appare di primaria importanza vista la sua esperienza con i metodi manipolativi dei governi americani. Secondo quanto riportato dalla stampa britannica negli anni Novanta, infatti, il diplomatico svedese subì pesanti pressioni da parte del presidente Clinton per impedire la certificazione di paese privo di armi di distruzioni di massa dell’Iraq di Saddam Hussein, nonostante le indagini degli ispettori non avessero riscontrato alcuna presenza di questi ordigni.
Nel caso della Siria, inoltre, l’inesistenza di prove della responsabilità di Assad è confermata dal fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati continuano a sostenere di non essere intenzionati a rendere note nemmeno agli ispettori ONU le modalità con cui i campioni biologici sono stati ottenuti sul campo. La ragione ufficiale della segretezza sarebbe la necessità di non compromettere operazioni di intelligence sotto copertura ancora in corso.
Lo stesso segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, dopo le dichiarazioni della Casa Bianca del 13 giugno scorso aveva rilasciato un prudente comunicato ufficiale nel quale sosteneva che “la validità delle informazioni diffuse non può essere garantita in assenza di prove convincenti sulla catena di persone o enti che hanno avuto in custodia i campioni”. “Per questa ragione”, proseguiva il segretario generale, continuava ad esserci “la necessità di un’indagine sul campo in Siria”, affinché anche gli ispettori dell’ONU “possano raccogliere i loro campioni”.
Sia i governi occidentali che il regime di Assad chiedono da mesi un’indagine in Siria da parte delle Nazioni Unite ma Damasco ha finora impedito l’accesso agli ispettori a causa del mancato accordo sul loro mandato, visto che per gli USA e i loro alleati essi dovrebbero avere accesso illimitato nel paese e non soltanto ai luoghi dove è stato segnalato l’uso di armi chimiche.
Senza un punto di incontro su questo aspetto, le presunte prove raccolte finora si sono basate su interviste con medici e vittime di agenti chimici in paesi come Turchia, Libano o Giordania, mentre i campioni ottenuti da Washington, Parigi e Londra, come già ricordato, sono stati raccolti dai gruppi “ribelli” che hanno tutto l’interesse a vedere Assad sul banco degli imputati.
Un altro contributo all’insegna dell’estremo scetticismo sulle responsabilità dell’uso di armi chimiche in Siria è stato infine quello di Jean Pascal Zanders, esperto nel settore e fino al mese scorso membro dell’Istituto per gli Studi sulla Sicurezza dell’Unione Europea (EUISS). Il ricercatore belga, come ha riportato ancora il Washington Post, negli ultimi mesi ha infatti esaminato attentamente una serie di immagini, filmati e notizie reperite su internet in relazione agli attacchi con armi chimiche segnalati in Siria.Secondo Zanders, il quale condusse un’indagine sui massacri condotti dal governo iracheno contro la minoranza curda a fine anni Ottanta, il materiale esaminato non mostra sulle vittime i tradizionali sintomi dell’uso di armi chimiche. Questo ricercatore conclude affermando che allo stato attuale delle informazioni presentate “è dunque impossibile raggiungere una conclusione definitiva” e che l’intero processo in corso appare di natura esclusivamente “politica”.
Dopo l’ennesimo tentativo di manipolare la realtà dei fatti per scatenare un’altra guerra imperialista in Medio Oriente, così, gli Stati Uniti e gli altri cosiddetti “Amici della Siria” si sono riuniti sabato in Qatar per dare il via libera a nuove massicce forniture di armi letali ai gruppi “ribelli” anti-Assad.
I destinatari degli equipaggiamenti militari saranno in primo luogo formazioni estremiste profondamente impopolari tra la popolazione siriana e già protagoniste di numerose operazioni di chiaro stampo terroristico in oltre due anni di conflitto. La pretesa occidentale di rafforzare i gruppi moderati e secolari continua d’altra parte ad essere smentita non solo dai fatti sul campo ma anche da una lunga serie di indagini giornalistiche, condotte anche da testate non esattamente allineate al regime di Damasco.
Tra le più recenti va segnalata almeno quella della scorsa settimana di due inviati della Reuters in Siria, dove hanno documentato il progressivo e inesorabile prevalere delle milizie jihadiste nella lotta per rovesciare Assad. I due gruppi più influenti che finiranno in qualche modo per beneficiare delle spedizioni di armi decise questo mese dal governo americano sono attualmente Ahrar al-Sham e l’ormai famigerato Fronte al-Nusra, apertamente affiliato ad Al-Qaeda e responsabile, tra l’alto, di una lunga serie di attentati suicidi che hanno causato centinaia di vittime civili.
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di Michele Paris
Nel corso di una delle audizioni promosse in questi giorni dal Congresso americano per sviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle reali implicazioni dei programmi di intercettazione messi in atto dall’NSA, il direttore dell’FBI, Robert Mueller, ha per la prima volta ammesso l’utilizzo di droni sul territorio degli Stati Uniti con funzioni di sorveglianza.
Durante la sua testimonianza di fronte alla commissione Giustizia del Senato, il capo della polizia federale americana ha risposto affermativamente ad una domanda postagli dal senatore repubblicano dell’Iowa, Chuck Grassley, sul ricorso ai droni da parte dell’FBI. Quando, subito dopo, la senatrice democratica della California, Dianne Feinstein, ha chiesto a Mueller di chiarire la sua affermazione, quest’ultimo ha aggiunto che i droni negli USA “vengono usati molto raramente e in genere in caso di particolari incidenti nei quali si rendono necessarie le capacità” di questi strumenti.
Senza fornire esempi di questi “incidenti”, Mueller ha poi spiegato ai membri del Congresso che l’FBI sta elaborando delle linee guida per l’uso dei droni in territorio americano, anche se “alcune leggi sulla sorveglianza aerea e sulla privacy relativamente a elicotteri e piccoli velivoli potrebbero essere adattate ai droni”. Dalle parole di Mueller appare perciò chiaro come l’impiego di droni nei cieli USA venga attualmente deciso al di fuori di ogni regolamentazione legale. Un’eventuale legislazione che il numero uno dell’FBI ha detto di auspicare nel prossimo futuro, peraltro, servirebbe soltanto a dare una parvenza di legittimità ad una pratica gravemente lesiva della privacy e ancora una volta contraria ai principi costituzionali.
Per prevenire ovvie polemiche, lo stesso “Bureau” dopo la testimonianza di Mueller ha diffuso una dichiarazione ufficiale, spiegando che “i droni sono consentiti per ottenere informazioni cruciali che, diversamente, potrebbero essere reperite solo mettendo a rischio il personale di polizia”. Come esempio dell’uso fatto finora, l’FBI ha poi fatto riferimento ad un episodio accaduto quest’anno in Alabama, nel quale le forze di polizia, grazie ad un drone, sono venute a conoscenza di un nascondiglio dove veniva tenuto nascosto un ostaggio di 5 anni.
L’FBI, infine, ha fatto sapere che per il momento ogni operazione condotta con i droni sul suolo americano viene preventivamente approvata dalla Federal Aviation Administration (FAA), l’agenzia federale che regola e sovrintende all’aviazione civile negli Stati Uniti.
Come per i programmi di sorveglianza elettronica dell’NSA rivelati in questi giorni dall’ex contractor Edward Snowden, il governo americano giustifica ufficialmente anche l’uso dei droni con la necessità di avere a disposizione strumenti più efficaci per combattere la criminalità o la minaccia terroristica. Questi velivoli, tuttavia, forniscono uno strumento di controllo formidabile della vita e dell’attività di qualsiasi cittadino che venga considerato una “minaccia” per il paese.Ugualmente, come la presunta legalità dei programmi dell’NSA si basa in gran parte sulle deliberazioni del cosiddetto Tribunale per la Sorveglianza dell’Intelligence Straniera (FISC), il quale opera in gran segreto assecondando ogni richiesta di intercettazione del governo, il ricorso ai droni avverrebbe solo dopo l’autorizzazione di un ente federale amministrativo come l’FAA. Questo espediente, a detta del direttore dell’FBI, sarebbe sufficiente a garantire la legittimità del programma.
Il tentativo di Mueller di minimizzare l’impiego dei droni con funzioni di sorveglianza negli Stati Uniti è comunque da considerare con estremo sospetto, visto che, quanto meno, a inizio anno l’FAA aveva fatto sapere di avere approvato in meno di sei anni quasi 1500 richieste di vari enti per operare questo genere di velivoli.
Da quanto si evince da alcune indagini giornalistiche e sparute dichiarazioni di politici o amministratori locali, l’uso dei droni in territorio americano viene oggi già consentito per i più svariati motivi, tra cui il monitoraggio del confine con il Messico per combattere l’immigrazione clandestina.
Gli Stati Uniti potrebbero però venire invasi a breve da un numero elevatissimo di droni, in gran parte con compiti di sorveglianza, dopo che il Congresso ha fissato al settembre 2015 l’apertura dei cieli a velivoli comandati a distanza che consentono un risparmio notevole di costi per le agenzie governative e per i singoli Stati. Entro questa data, l’FAA dovrà preparare un sistema di regolamentazione complessivo relativamente ai droni per uso domestico.
Significativamente poi, anche per i droni, come per i programmi di sorveglianza e intercettazione, il banco di prova per l’utilizzo domestico sono state le guerre condotte dagli Stati Uniti all’estero, in particolare in Pakistan e in Yemen dove questi strumenti di morte hanno causato migliaia di vittime civili.
Metodi di controllo e di repressione violenta di ogni forma di resistenza contro l’occupazione americana di un paese straniero oppure di rivolte contro regimi autoritari collusi con l’imperialismo di Washington, verranno perciò messi in atto con maggiore frequenza anche in patria per contrastare un dissenso interno destinato a crescere nel prossimo futuro con l’aumentare delle tensioni sociali.
Le dichiarazioni rilasciate mercoledì da Mueller, in ogni caso, potrebbero essere state orchestrate appositamente per prevenire lo shock di possibili nuove pubblicazioni di documenti passati da Snowden al quotidiano britannico Guardian proprio sull’uso dei droni negli USA con funzioni di sorveglianza.
Più in generale, l’intervento al Congresso del direttore dell’FBI, così come nei giorni precedenti di altre personalità dell’apparato della sicurezza degli Stati Uniti, a cominciare dal capo dell’NSA, generale Keith Alexander, fa parte della campagna in atto per difendere strenuamente il ricorso a programmi di sorveglianza palesemente illegali.Lo zelo con cui i politici di entrambi gli schieramenti e gran parte dei media “mainstream” stanno cercando di giustificare la violazione sistematica dei principi costituzionali degli Stati Uniti e della privacy dei cittadini di tutto il mondo dimostrano il panico diffuso tra la classe dirigente americana dopo le rivelazioni di Snowden.
La tesi sostenuta a oltranza della necessità di accettare una trascurabile invasione della sfera privata per vivere in un paese sicuro serve infatti a nascondere la realtà di un governo sempre più autoritario e invasivo che può continuare a mettere in atto politiche profondamente impopolari sia sul fronte domestico che internazionale solo grazie all’inganno, alla segretezza e, appunto, all’adozione di colossali programmi di sorveglianza per reprimere il dissenso.
Lo stesso presidente Obama, perciò, è da giorni in prima linea nel propagandare la presunta legalità dell’operato di agenzie come l’NSA. Sia alla vigilia della sua partenza per il G-8 in Irlanda del Nord, sia durante la recentissima visita a Berlino, l’inquilino della Casa Bianca si è sentito in dovere di difendere pubblicamente le intercettazioni e i programmi di sorveglianza.
Obama li ha così definiti strumenti fondamentali nella “guerra al terrore”, come dimostrerebbero i circa 50 attentati che essi, secondo la versione offerta al pubblico, hanno permesso di sventare negli ultimi anni. Ironicamente, le parole del presidente sono giunte solo pochi giorni dopo l’annuncio di un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nel conflitto in Siria. Questa decisione si concretizzerà nella fornitura di armi letali proprio a formazioni dominate da gruppi terroristici, i quali, d’altra parte, da tempo vengono considerati alternativamente nemici o partner più o meno ufficiali a seconda delle necessità degli interessi strategici di Washington.
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di Michele Paris
L’ennesimo annuncio fatto martedì dagli Stati Uniti del lancio di negoziati di pace con i Talebani è andato subito incontro ad alcuni prevedibili ostacoli che già avevano caratterizzato i precedenti tentativi e che mettono a forte rischio anche solo l’apertura di un serio tavolo di discussione tra le due parti in conflitto da quasi dodici anni.
Il primo round di colloqui andrà in scena nella giornata di giovedì a Doha, la capitale del Qatar, dove i Talebani afgani hanno aperto un loro ufficio di rappresentanza. A darne notizia sono stati per primi gli americani, seguiti poche ore più tardi da un comunicato di conferma letto in diretta TV da un portavoce degli stessi Talebani, Muhammad Naeem.
In esso, questi ultimi hanno affermato di essere disposti ad acconsentire a due delle tre condizioni preliminari imposte dagli Stati Uniti per l’avvio di un confronto, vale a dire la volontà di cercare “una soluzione politica e pacifica al conflitto” e il dissociamento di fatto da Al-Qaeda, sostenendo di “non consentire a nessuno di minacciare la sicurezza di altri paesi [con operazioni organizzate] dal territorio dell’Afghanistan”. Della terza condizione - il rispetto della Costituzione afgana, inclusi i diritti delle donne e delle minoranze etniche e religiose - non c’è stata invece traccia nel comunicato ufficiale.
La notizia dei colloqui è stata commentata positivamente dall’amministrazione Obama, con lo stesso presidente democratico che prima di lasciare l’Irlanda del Nord, dove martedì si è chiuso il vertice del G-8, l’ha definita “un primo importante passo verso la riconciliazione”, nonostante rimangano “numerosi ostacoli lungo la strada”.
Per rafforzare l’impressone di un qualche progresso in atto nel lungo conflitto, l’annuncio da parte degli Stati Uniti è giunto intenzionalmente in concomitanza con la cerimonia ufficiale per il trasferimento formale dei compiti della cosiddetta “sicurezza primaria” in Afghanistan dalle forze NATO all’esercito indigeno.
Le difficoltà evocate da Obama si sono comunque materializzate immediatamente, quando mercoledì il presidente Karzai ha dato notizia della sospensione improvvisa dei negoziati in corso tra il suo governo e quello USA per finalizzare un accordo che consenta la presenza indefinita di un certo numero di truppe americane in territorio afgano dopo il 2014, quando tutto il contingente straniero dovrebbe lasciare il paese.
Nel giustificare la decisione, il fantoccio di Washington a Kabul ha criticato apertamente l’amministrazione Obama per la politica “imprevedibile” e “contraddittoria” messa in atto in Afghanistan, con un chiaro riferimento alla sua irritazione per l’annuncio dei colloqui di Doha. Il timore principale di Karzai sembra essere quello di rimanere tagliato fuori da un accordo tra gli Stati Uniti e i Talebani, dal momento che, in uno scenario nel quale questi ultimi dovessero tornare a giocare un ruolo di primo piano nel panorama politico afgano, i colossali benefici di cui ha goduto il presidente per oltre un decennio assieme alla sua cerchia di potere finirebbero per svanire.Karzai, in realtà, si era più volte mostrato disponibile a trattare con i Talebani, come aveva confermato una sua visita a Doha a fine marzo per incontrare l’emiro del Qatar, Sheikh Hamad bin Khalifa al-Thani, durante la quale aveva invitato i membri del precedente regime fondamentalista a “tornare a casa nella loro terra”. Le trattative con i Talebani, però, dal suo punto di vista devono avvenire sotto la regia del governo di Kabul, mentre gli incontri di Doha con rappresentanti dell’amministrazione Obama dovrebbero essere soltanto un atto preliminare. I Talebani, invece, preferiscono discutere direttamente con gli USA, ben sapendo chi sia a muovere i fili a Kabul.
Il governo americano, in ogni caso, non deve avere preso troppo bene la reazione così dura di Karzai, la cui firma sul trattato che consentirà a qualche migliaia di truppe di rimanere indefinitamente in Afghanistan risulta fondamentale ai fini della propria strategia di lungo termine nella regione.
Avendo ormai preso atto dell’impossibilità di sconfiggere militarmente la resistenza all’occupazione dell’Afghanistan, gli Stati Uniti intendono infatti coltivare rapporti con quelle fazioni talebane disposte a condividere il potere a Kabul con membri dell’attuale regime e, allo stesso tempo, ad accettare una presenza militare americana prolungata nel paese.
Uno scenario di questo genere è precisamente quello che Karzai aveva prospettato ai Talebani nella già ricordata trasferta di Doha meno di tre mesi fa, quando aveva affermato che gli americani “rimarranno anche dopo il 2014” e che essi “vogliono almeno cinque basi militari in diverse parti dell’Afghanistan, dal nord all’ovest del paese”.
La mancata integrazione di almeno una parte dei Talebani nel sistema politico afgano, assieme al ritiro totale delle forze di occupazione, invece, determinerebbe con ogni probabilità la fine del regime-fantoccio guidato da Karzai o dal successore che prenderà il suo posto dopo le elezioni presidenziali del prossimo anno, mettendo in serio pericolo la promozione degli interessi statunitensi in quest’area cruciale del pianeta.
L’importanza del raggiungimento di un trattato con Kabul per prolungare l’occupazione è stata confermata dagli stessi commenti rilasciati martedì dagli esponenti dell’amministrazione Obama sui colloqui di Doha, attentamente studiati, sia pure senza troppo successo, per non irritare Karzai. Gli USA hanno così ricordato che la discussione avrà obiettivi limitati e che di gran lunga più importanti saranno i negoziati di pace tra i Talebani e il governo Karzai. Quest’ultimo dovrebbe essere rappresentato dal cosiddetto Alto Consiglio per la Pace, i cui membri sono attesi dagli americani a Doha nelle prossime settimane.
Sul percorso di riconciliazione promosso dagli Stati Uniti pesa però anche l’incognita delle intenzioni dei Talebani. Innanzitutto, sono in molti a nutrire dubbi sull’effettiva autorità della delegazione talebana a Doha e sul fatto che essa rappresenti realmente i vertici degli “studenti del Corano”. Simili sospetti sono più che legittimi, soprattutto alla luce delle trattative segrete condotte nel recente passato a Kabul con un presunto comandante di primo piano dei Talebani che nel 2010 si rivelò essere un impostore.Per cercare di fugare ogni dubbio in questo senso, gli americani hanno assicurato nei giorni scorsi che la Commissione Politica dei Talebani con la quale terranno i primi colloqui giovedì in Qatar è stata pienamente autorizzata da tutte le fazioni del movimento e dal suo leader, il Mullah Muhammad Omar.
Inoltre, l’obiettivo dei colloqui per i Talebani coincide a fatica con quello degli Stati Uniti. L’incontro di Doha potrebbe infatti servire unicamente come palcoscenico di rilievo per guadagnare una qualche legittimità a livello internazionale in vista di un prossimo ritorno al potere a Kabul e, soprattutto, la ferma volontà americana di mantenere un consistente numero di propri soldati in Afghanistan dopo il 2014 si scontra in maniera evidente con i progetti talebani per il futuro del paese.
Questa realtà è apparsa in tutta la sua chiarezza proprio all’indomani dell’annuncio del vertice in Qatar, quando i Talebani hanno rivendicato un nuovo attacco contro gli occupanti, questa volta con il lancio di due missili sulla pista di atterraggio della base militare di Bagram, uccidendo quattro soldati americani.
Oltre a confermare che non ci saranno sconti sul campo di battaglia anche se i colloqui di pace dovessero proseguire, il testo della rivendicazione talebana dell’azione di mercoledì ha precisamente preso di mira il punto cardine dei piani degli Stati Uniti per il futuro dell’Afghanistan e da cui gli americani non saranno disposti a transigere nel corso dei negoziati, cioè la conservazione di una presenza militare di lungo periodo nel tormentato paese centro-asiatico.
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di Mario Lombardo
Alla recente pubblicazione di documenti riservati che descrivono i programmi di monitoraggio delle comunicazioni elettroniche di virtualmente tutto il pianeta, messi in atto dai vari organi dell’apparato della sicurezza degli Stati Uniti, si sono accompagnate in questi giorni altre rivelazioni che confermano come il governo di Washington stia procedendo a passo spedito verso la schedatura della maggior parte della popolazione americana al fine di controllare e reprimere ogni forma di dissenso.
In particolare, due ricerche apparse nei giorni scorsi su altrettanti giornali d’oltreoceano hanno alzato il velo sulla raccolta sistematica di campioni di DNA di persone non necessariamente sospettate di un qualche crimine e di immagini di individui da inserire in un sempre più sofisticato programma di riconoscimento facciale a cui possono attingere le autorità di polizia nell’ambito di qualsiasi indagine.
L’attenzione su quest’ultimo programma condotto in maniera silenziosa da vari Stati americani è stata portata da un articolo pubblicato lunedì dal Washington Post. Il database a disposizione delle autorità statali conserva oggi oltre 120 milioni di volti di persone, le cui immagini sono state in gran parte raccolte in relazione al rilascio di patenti di guida, ufficialmente per prevenire o risolvere frodi in questo ambito.
Le fotografie riportate sui documenti di identità vengono così acquisite dalle autorità e archiviate. Le immagini, tuttavia, possono essere ottenute anche in seguito al semplice fermo di una persona per il solo controllo dei documenti. In varie indagini, inoltre, le forze di polizia hanno ricavato immagini personali dai social network per poi inserirle in un programma di riconoscimento facciale con l’obiettivo di identificare i sospettati di un determinato crimine.
Come ha sottolineato il Washington Post, l’utilizzo di queste tecniche non risponde più soltanto a esigenze investigative, dal momento che nei database finiscono spesso “immagini di persone che non sono mai state arrestate”, i cui volti entrano comunque a far parte di una “raccolta digitale perpetua”. Ad essa, l’FBI e altre autorità federali possono così accedere facilmente e da qualsiasi località tramite un personal computer.Attualmente, gli Stati che utilizzano tecnologie di riconoscimento facciale per i propri registri delle patenti di guida sono 37, di cui almeno 26 consentono alle autorità di polizia federali, statali e locali di accedervi per cercare eventuali corrispondenze con persone sotto indagine.
L’attuale livello tecnologico non sembra garantire in molti casi un riconoscimento definitivo, soprattutto se la qualità dell’immagine a disposizione delle autorità non è ottimale, ma sarebbero già allo studio nuovi software che permettono un’identificazione precisa anche quando, ad esempio, un individuo entra per pochi secondi nell’inquadratura di una telecamera di sorveglianza oppure in caso di leggere variazioni dell’aspetto fisico.
Alcuni Stati per il momento impediscono alle autorità di polizia di fare ricerche nei database dei registri automobilistici ma la tendenza generale va in direzione esattamente opposta. Tanto più che la legge sull’immigrazione all’esame del Congresso proprio in questi giorni prevede, secondo il Washington Post, “la drammatica espansione dei sistemi elettronici di verifica fotografica, verosimilmente grazie all’accesso ai registri delle patenti di guida”.
In definitiva, il quadro legale in questo ambito risulta del tutto insufficiente e, come per la gigantesca banca dati delle comunicazioni elettroniche monitorate dalla NSA, l’utilizzo della tecnologia per il riconoscimento facciale da parte delle autorità va ben oltre le esigenze investigative su determinati crimini. Questo programma, infatti, potrebbe essere utilizzato, e con ogni probabilità viene già usato, in occasione di manifestazioni di protesta anti-governative, di scioperi o altri eventi di massa, durante i quali le immagini dei partecipanti possono essere raccolte da agenti di sicurezza o da telecamere di sorveglianza per essere poi conservate in un database nazionale a disposizione delle forze di polizia.
Come conferma l’articolo del Washington Post, d’altra parte, i programmi di riconoscimento facciale operano all’interno di archivi ben più consistenti di quello prodotto dai registri automobilistici dei vari Stati. L’archivio più grande è quello del Dipartimento di Stato, il quale raccoglie circa 230 milioni di immagini di cittadini americani in possesso di un passaporto e di stranieri che hanno richiesto un visto d’ingresso negli USA.
Complessivamente, gli uffici dei registri automobilistici, il Dipartimento di Stato, il sistema giudiziario, l’FBI e il Pentagono conservano qualcosa come 400 milioni di volti di americani e di cittadini di altri paesi. Queste immagini sono state ottenute in grandissima parte in violazione del Quarto Emendamento della Costituzione USA, senza cioè che le persone ritratte abbiano commesso alcun crimine e senza essere state informate dalle autorità americane.
L’altro programma di schedatura della popolazione, come già anticipato, è quello della raccolta del DNA. In questo caso era stato il New York Times a descrivere la scorsa settimana come le varie autorità di polizia del paese stiano da qualche tempo procedendo alla creazione di un vasto archivio in cui finiscono a tempo indeterminato campioni di DNA non solo di persone indagate per un crimine ma, in alcuni casi, anche di testimoni o addirittura vittime, il tutto a loro insaputa.
A preoccupare sono soprattutto le nuove banche dati di DNA create dalle forze di polizia locali, le quali operano pressoché in totale libertà e senza rispettare i diritti dei cittadini, al contrario degli archivi statali e federali, definiti dal NYT “altamente regolamentati”.I numeri nel caso del DNA sono inferiori rispetto alle immagini della banca dati per il riconoscimento facciale, anche se in alcuni casi tutt’altro che trascurabili. La città di New York, ad esempio, possiede un database con 11 mila campioni, mentre l’ufficio del procuratore distrettuale della contea di Orange, in California, può vantarne più di 90 mila. Secondo una ricerca dell’Electronic Privacy Information Center il cosiddetto Combined DNA Indexing System - il database creato dall’FBI - è aumentato notevolmente negli ultimi anni e a livello nazionale contiene ora più di 11 milioni di profili.
Questi numeri aumenteranno vertiginosamente nel prossimo futuro grazie anche ad una sentenza della Corte Suprema di qualche giorno fa che rappresenta un nuovo aperto attacco ai diritti costituzionali degli americani. Il più importante tribunale degli Stati Uniti ha cioè approvato la raccolta di DNA di individui fermati dalla polizia e non ancora condannati, nonché la conservazione dei campioni e l’utilizzo in indagini di casi irrisolti, in relazione ai quali essi non sono sospettati.
Per il giudice Anthony Kennedy, che ha scritto il verdetto, l’ottenimento del DNA è una procedura compatibile con il dettato del Quarto Emendamento e sarebbe una pratica assimilabile, ad esempio, alla raccolta delle impronte digitali. Per il giudice di estrema destra Antonin Scalia che ha votato con la minoranza della Corte, invece, in seguito al verdetto nel caso Maryland contro King “il DNA potrà essere raccolto e inserito in una banca dati nazionale nell’eventualità che si venga arrestati, giustamente o meno, per qualsiasi ragione”, compresa la partecipazione ad una manifestazione contro il governo.
DNA e riconoscimento facciale, quindi, sono parte integrante dei programmi messi in atto da almeno un decennio dal governo americano con il pretesto della lotta al terrorismo e alla criminalità, ma in realtà destinati al controllo pervasivo di una popolazione sempre meno disponibile ad accettare in maniera passiva le politiche impopolari di una classe dirigente ampiamente screditata ed espressione unica della ristretta oligarchia economico e finanziaria che decide le sorti del paese.