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di Rosa Ana De Santis
Sabato 24 marzo ricorreva il 32° anniversario del martirio di Monsignor Oscar Omero. A celebrarlo nella chiesa del Santo Rosario è stato il vescovo ausiliare di San Salvador, Gregorio Rosa Chavez, e messe in ricordo sono state celebrate in numerose altre chiese sparse per il mondo, tutte quelle in cui Romero è già santo nonostante la mancanza di una canonizzazione ufficiale. Ancora oggi El Salvador è un paese ferito dalle conseguenze disastrose della lunga guerra civile e dalle cruente repressioni contro cui Romero si scagliò senza esitare un momento.
Messo alla periferia del potere ed esiliato dalla stessa Chiesa di Roma, la celebrazione della sua memoria rappresenta con urgenza il bisogno che il cattolicesimo ha, per rinnovarsi, di porre al centro l’opera missionaria e la vocazione di una nuova evangelizzazione. A 50 anni dal Concilio Vaticano II il ritardo su questo aspetto - o meglio lo scollamento tra le gerarchie di Roma e le chiese - è rimasto purtroppo inalterato e la scomodità di figure come quella di un vescovo conservatore divenuto difensore del popolo è ancora palpabile nei corridoi di Piazza San Pietro.
A dimostrarlo la strada tortuosa, avvelenata di ostacoli e resistenze, che finora ha impedito a Romero di essere anche solo beato. Il record di Wojtyla vanta 456 santi e 1288 beati, ma non annovera il martire di El Salvador immolato sull’altare con il corpo eucaristico tra le mani. Gli fu preferito il vescovo di tutta altra linea: Lacalle, fondatore dell’Opus dei. Difficile trovare nella storia della Chiesa, a parte i primi martiri, icona più simbolica e più vicina al sacrificio di Cristo di quella dell’assassinio di Monsignor Romero. Un martirio che la Chiesa di Roma pare non aver colto.
Il processo di canonizzazione di Romero inizia nel ’96 e le posizioni del vescovado salvadoregno e della Curia romana rimangono distanti. Le riserve sembrano stare tutte non tanto sulle opere di dottrina del Monsignore del popolo, quanto su alcune omelie troppo impegnate sulla denuncia della repressione sanguinaria dei militari a danno dei civili e non solo dei guerriglieri dell'FMLN. Il sospetto di sotterranei sabotaggi è confermato da questa lentezza di esame e dall’inserimento in extremis del nome di Romero tra i testimoni della fede ricordati nell’anno giubilare. Un incidente diplomatico evitato per un soffio.
Monsignor Arnulfo Romero era un Vescovo conservatore, ma la brutale repressione dell’esercito salvadoregno addestrato, finanziato e diretto dagli Usa e la ferocia degli squadroni della morte, guidati dal Maggiore Roberto D’Abuisson (mandante dell’assassinio di Romero) lo spinsero sempre più verso un’opera di mediazione prima e di presa di posizione netta poi contro gli eccidi e la repressione forsennata dei campesinos perpetrati in nome della “lotta al comunismo”. E non fu l’unico religioso a cadere sotto i colpi degli squadroni della morte: sei suore statunitensi, insieme al Rettore dell’Università, il gesuita Ignacio Ellacurria, furono brutalmente assassinati perché sospettati di “collaborazione con la guerriglia”.
E’ proprio sull’altare della Basilica di San Salvador che Romero viene ucciso da un cecchino agli ordini di D’Abuisson. Viene colpito durante l’omelia, mentre aveva appena finito di dire: “In nome di Dio, vi chiedo, vi scongiuro: cessi la repressione”. Poi il proiettile del sicario spense la sua voce. Accasciato al bordo dell’altare, divenuto il Golgota di El Salvador, morì compiendo fino all’ultimo respiro la sua missione di uomo di fede e di pace.
E’ forse la catena di responsabilità per la morte del Monsignore che fino ad ora ha frenato il Vaticano: dall’allora Presidente Napoleon Duarte (democristiano) fino ai fratelli D’Abuisson (squadroni della morte e successivamente partito ARENA, fino alla CIA e al Dipartimento di Stato USA della Presidenza Reagan) la lista di coloro che tramarono per assassinare Romero si compone di “amici e sostenitori fedeli” della linea politica di Woytila in quegli anni. Singolare, però, che i maggiori protagonisti del complotto per uccidere Romero siano morti tutti giovani, in preda a malattie devastanti.
Chi teme che Romero abbia trascinato la Chiesa nella politica delle fazioni e l’abbia collocata a sinistra esacerbando i conflitti politici del paese trascura alcuni argomenti. Omette ad esempio che stare accanto al popolo dei disperati è stato scritto prima nel Vangelo che nel Manifesto di Marx. Che Romero non ha imbracciato armi come altre figure della teologia della liberazione. Che dovremmo chiamare allora“comunisti” tutti quei preti che nel secondo conflitto mondiale accolsero nelle chiese i perseguitati del nazifascismo: ebrei, oppositori politici, semplici civili.
Se le scelte politiche sono fondamento ineludibile per valutare l’operato sacerdotale, diventa difficile allora non chiamare nazisti quanti in seno al Vaticano aiutarono sanguinari kapò a nascondersi in America Latina, come pure a quanta complice alleanza ha consentito ai regimi del Sudamerica degli anni settanta di perseguitare popolazioni intere con la benedizione della Chiesa locale e nella cecità di quella di Roma.
Sembra che la causa di beatificazione sia alle sue battute finali, ma in coerenza con l’esempio di vita pastorale la canonizzazione di Romero è già tutta compiuta dal basso. Romero è santo e martire perché, come indicato dal suo testamento spirituale, egli sarebbe risorto. Ed è risorto. Non nelle basiliche del Vaticano, dove gli fu impedito da Papa Giovanni Paolo II di essere anche solo ascoltato, ma nel popolo di El Salvador, che la memoria del suo pastore continua a tenerla viva nelle carni e nel cuore.
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di Michele Paris
Qualche giorno fa, il Cancelliere dello Scacchiere del governo di coalizione britannico, George Osborne, ha presentato ufficialmente il bilancio per il prossimo anno che, come previsto, contiene nuove misure che beneficiano i redditi più elevati a spese della grande maggioranza della popolazione. Due iniziative, in particolare, hanno suscitato polemiche tra l’opposizione e una parte della stampa: l’abbattimento dell’aliquota fiscale più alta prevista dal codice del regno e quella che è già stata ribattezzata “Granny Tax”, destinata a colpire 5 milioni di pensionati d’oltremanica.
In un paese dove in questi due anni il governo, appoggiato da una maggioranza di conservatori e liberal-democratici, ha già adottato devastanti misure di austerity che hanno ridotto drasticamente la spesa pubblica, peggiorato le condizioni di vita di lavoratori e classe media, aumentato il livello di disoccupazione, mercoledì Osborne ha annunciato la riduzione dell’aliquota fiscale prevista per i contribuenti più ricchi dal 50% al 45%.
Questo livello di tassazione massima, che a detta di Osborne dava un segnale negativo agli investitori, era stato introdotto dal governo laburista come misura provvisoria, andando teoricamente a colpire i redditi superiori alle 150 mila sterline annue. Un simile carico fiscale, tuttavia, è stato puntualmente evitato dai più facoltosi contribuenti britannici grazie ad una serie di scappatoie legali che lo stesso Osborne ha ora promesso di eliminare, così da bilanciare le perdite che andranno a subire le casse statali. Ciononostante, le classi privilegiate del Regno Unito hanno ugualmente preteso dal governo Cameron, che rappresenta i loro esclusivi interessi, il consistente abbassamento dell’aliquota massima.
Il Cancelliere, da parte sua, ha cinicamente affermato che l’aliquota del 50% non ha generato il gettito di 2,6 miliardi di sterline previsto e perciò essa andava abolita interamente. La mossa del governo appare estremamente impopolare, dal momento che qualsiasi sondaggio di opinione ha mostrato come la maggioranza degli inglesi ritenga che i loro connazionali più ricchi debbano essere tassati di più in questo periodo di crisi.
Assieme a questa misura, Osborne intende abbassare anche la tassa sulle corporation al 24% da subito e al 22% entro il 2014, portando così a 5 punti percentuali la riduzione complessiva a partire dall’insediamento del governo Cameron nel maggio 2010. Questo provvedimento, per Osborne, servirebbe alla crescita economica della Gran Bretagna, attirando investimenti esteri che, diversamente, potrebbero essere dirottati su altri paesi con aliquote più favorevoli, a cominciare dalla vicina Irlanda (20%).
A dare l’idea del danno alle casse statali provocato da simili “riforme” fiscali è stata, ad esempio, un’analisi del Guardian, secondo la quale il Tesoro britannico potrebbe incassare fino a 20 miliardi di sterline in meno nei prossimi tre anni. Il costo di tali provvedimenti graverà inevitabilmente sulle spalle di lavoratori, pensionati, classe media e di coloro che sono costretti a vivere di assistenza pubblica, vale i segmenti più deboli della popolazione già colpiti in maniera sproporzionata dalla crisi economica e dalla risposta ad essa venuta sia dal governo laburista che da quello conservatore-liberaldemocratico.
La seconda misura che ha causato le maggiori divisioni all’interno dell’esecutivo e tra i suoi sostenitori è la già citata “Granny Tax”, secondo la quale verranno congelate le consuete detrazioni fiscali previste per i pensionati. Essa dovrebbe far risparmiare allo stato circa 5 miliardi di sterline e costerà a quanti vivono di pensione tra le 60 e le 200 sterline all’anno.
Se pure la perdita di reddito per i pensionati appare relativamente contenuta, va ricordato che il welfare britannico è già stato privato da questo governo di 18 miliardi di sterline, mentre altri 10 miliardi di tagli sono previsti entro il 2016. Numeri, questi, che si concretizzeranno in una riduzione del 5,3% della spesa pubblica totale, colpendo il tenore di vita di decine di milioni di persone. A tutto questo vanno aggiunti almeno anche i licenziamenti di massa tra i dipendenti pubblici e, nelle ultime settimane, l’accelerazione delle privatizzazioni nel settore della sanità.
Il budget presentato da George Osborne, in larga misura modellato su proposte dei Tories, è stato nuovamente accettato integralmente dai liberal-democratici, considerati almeno fino a due anni fa addirittura a sinistra dei laburisti. Il tracollo dei consensi per quest’ultimo partito fin dall’ingresso nel governo Cameron difficilmente sarà arrestato dalle modestissime misure a favore dei redditi più bassi introdotte nel nuovo bilancio. Le principali risultano essere l’aumento dal 5% al 7% della tassa sui possessori di immobili del valore di oltre 2 milioni di sterline e l’innalzamento a 9.250 sterline/anno del reddito minino al di sotto del quale non vengono pagate tasse.
Contro alcuni dei provvedimenti fiscali del governo di Londra, in particolare la “Granny Tax”, si sono scagliati anche i giornali vicini ai conservatori, come il Daily Mail o il Daily Telegraph. Il timore per gli ambienti a cui fanno riferimento questi quotidiani è che la mano pesante dell’esecutivo possa rendere sempre più impopolare la maggioranza che sostiene l’esecutivo, provocando un’esplosione del conflitto sociale nel paese. Misure punitive contro i pensionati, inoltre, rischiano di alienare questa fetta dell’elettorato che aveva contribuito in maniera decisiva alla vittoria dei Conservatori nel 2010.
Le iniziative fiscali appena avanzate da Osborne, assieme a quelle precedenti di austerity per ridurre il debito britannico e obbedire al diktat dei mercati finanziari, sono state adottate praticamente senza ostacoli. Nonostante la retorica del Labour, l’ex partito di maggioranza non ha in realtà fatto una seria opposizione, poiché condivide in sostanza la linea del rigore e perché molte delle misure implementate dall’attuale governo, a cominciare dalla “riforma” del settore pubblico, erano state valutate inizialmente proprio dai laburisti. Le stesse organizzazioni sindacali, infine, non sembrano intenzionate a mobilitare i lavoratori britannici, come dimostra la rientrata minaccia di sciopero generale che avrebbe dovuto essere organizzato entro la fine del mese di marzo.
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di Michele Paris
Il candidato favorito per la conquista della nomination repubblicana martedì ha conquistato una nuova importante vittoria nelle primarie dell’Illinois. Il margine di vantaggio con cui Mitt Romney si è assicurato la maggior parte dei delegati in palio nello stato di Barack Obama è stato decisamente superiore alle aspettative ed è il risultato, oltre che della composizione dell’elettorato repubblicano in Illinois, dell’aggressiva e dispendiosa campagna elettorale volta a mettere in cattiva luce i rivali interni nella corsa alla Casa Bianca.
La vittoria di martedì va dunque ad aggiungersi a quelle che Romney già aveva ottenuto nelle precedenti settimane in altri due stati del Midwest - Michigan e Ohio - anche se qui la sfida con Rick Santorum era stata molto più equilibrata. Il distacco di quasi 12 punti percentuali inflitto all’ex senatore della Pennsylvania testimonia ancora una volta la preferenza per Romney degli elettori relativamente moderati che rappresentano la maggioranza dei repubblicani in questa regione degli Stati Uniti, così come di quella sezione della working-class bianca che vota per il “Gran Old Party” e che, secondo alcuni, avrebbe dovuto essere più in sintonia con il messaggio populista di Santorum.
In Illinois, Romney ha raccolto il 46,7% dei consensi, contro il 35% di Santorum. Molto lontani sono giunti Ron Paul (9,3%) e Newt Gingrich (8%), i quali non avevano praticamente fatto campagna elettorale nello stato. Romney si è assicurato il successo grazie al voto dei distretti di Chicago e della fascia che circonda la metropoli. Nelle aree rurali e dell’ovest dello stato, tradizionalmente più conservatrici, Santorum ha invece fatto meglio del rivale.
Dei 69 delegati complessivamente in palio in Illinois, Romney se ne sarebbe assicurati almeno 43 e Santorum una decina. Quest’ultimo è stato penalizzato anche dall’assenza del suo nome sulle schede in alcuni distretti elettorali. Le primarie di martedì assegnavano 54 delegati, mentre gli altri 15 saranno decisi dalla convention statale del partito in programma a giugno. Al saldo positivo di Romney in quest’ultima settimana hanno contribuito anche le primarie di domenica scorsa a Porto Rico, dove aveva vinto con un ampio margine su Santorum (88% a 8,5%), assicurandosi 22 delegati su 23.
La vittoria in Illinois consentirà nei prossimi giorni allo staff di Romney di ribadire l’appello all’unità nel partito attorno ad un solo candidato per la Casa Bianca in vista della sfida con il presidente Obama di novembre, nonostante i profondi dubbi che persistono nei suoi confronti tra l’ala conservatrice. Nel tentativo di promuovere la propria immagine di candidato “presidenziale”, Romney ha così festeggiato il successo di martedì proprio a Chicago, concentrando i suoi attacchi sullo stesso presidente democratico.
Grazie al numero di delegati finora accumulati, d’altra parte, Mitt Romney appare pressoché irraggiungibile. Per questo motivo, nei giorni precedenti le primarie in Illinois, Santorum aveva più volte sollevato l’ipotesi di una convention “divisa” o “aperta”, quando il Partito Repubblicano si riunirà a Tampa, in Florida, a fine agosto per stabilire ufficialmente il proprio candidato alla presidenza.
L’unica speranza per Santorum è infatti legata al mancato raggiungimento da parte di Romney della soglia dei 1.144 delegati che assegnerebbe automaticamente la nomination repubblicana. Nel caso Romney dovesse giungere alla convention senza la maggioranza assoluta dei delegati in palio, sostiene Santorum, il partito potrebbe decidere di attribuire la nomination al candidato che più rappresenta i valori conservatori, cioè lo stesso ex senatore della Pennsylvania.
In questa prospettiva, per molti osservatori risulterebbe fondamentale la permanenza nella corsa di Newt Gingrich. Se da un lato l’ex speaker della Camera continua a sottrarre voti conservatori a Santorum, dall’altro la sua continua presenza sulle schede elettorali toglie delegati allo stesso Romney, dal momento che essi vengono assegnati in gran parte su base proporzionale. Tanto più che molti sostenitori di Gingrich appaiono lontani dal fondamentalismo cristiano di Santorum e, con l’eventuale uscita di scena del loro candidato preferito, potrebbero dirottare il loro voto proprio su Romney.
A tenere accesa qualche residua speranza per Santorum sono anche le oscure regole delle primarie del Partito Repubblicano. Il conteggio e le proiezioni dei delegati conquistati dai vari candidati sono resi incerti dal fatto che essi, a seconda dei vari stati, sono suddivisi tra coloro che sono liberi di scegliere quale candidato appoggiare alla convention (“unpledged”), quelli che sono legati all’esito di primarie e caucus (“bound”) e quelli che, pur essendo teoricamente vincolati ai risultati, possono cambiare idea durante la convention stessa senza subire sanzioni (“pledged”).
Secondo il calcolo della Associated Press, dopo il voto in Illinois, Mitt Romney avrebbe raccolto un totale di 563 delegati, Rick Santorum 263, Newt Gingrich 135 e Ron Paul 50. Più bassi per tutti i candidati sono i numeri forniti dal Partito Repubblicano, il quale non include per ora i delegati non vincolati che hanno comunque già espresso la loro preferenza. Più favorevole a Santorum è infine la stima del suo team, in quanto tiene in considerazione l’ipotesi che molti delegati possano abbandonare il campo di Romney da qui alla convention.
A breve, in ogni caso, la competizione in casa repubblicana avrà con ogni probabilità un altro temporaneo capovolgimento di fronte in seguito alle primarie di sabato prossimo in Louisiana (46 delegati in palio), stato del sud degli Stati Uniti dove Santorum parte da favorito dopo i successi di settimana scorsa nei vicini Alabama e Mississippi. Ad aprile, tuttavia, Romney potrebbe chiudere definitivamente il discorso grazie ad una serie di primarie in stati, soprattutto nel nord-est del paese, dove l’elettorato repubblicano appare più moderato. Il mese prossimo, l’unica possibile vittoria di un certo peso per Santorum potrebbe arrivare dal suo stato, la Pennsylvania, che voterà il 24 aprile.
Le difficoltà per Rick Santorum, che si riflettono nel margine incolmabile di delegati rispetto a Romney, sono emerse anche martedì in Illinois, dove i sondaggi della vigilia davano una sostanziale equilibrio tra i due favoriti. L’ex senatore di fede cattolica fatica cioè a trovare un seguito consistente in quegli stati dove l’elettorato repubblicano appare relativamente eterogeneo o a maggioranza di orientamento moderato. I suoi successi sono finora giunti, al contrario, in stati dove a prevalere erano i seguaci dei Tea Party, i cristiani evangeli e, più in generale, gli elettori ultra-conservatori, i quali complessivamente sono però una minoranza su scala nazionale.
Questi stenti sono peraltro la conseguenza inevitabile delle posizioni tenute in campagna elettorale dallo stesso Santorum. Quest’ultimo, indicato da un recente profilo del Washington Post come molto vicino agli ambienti dell’Opus Dei, ha puntato tutto sui temi sociali e sulle questioni morali che tanto stanno a cuore all’estrema destra repubblicana, senza fare mistero della sua avversione per il principio di separazione tra Stato e Chiesa.
Queste sue opinioni, assieme alla sostanziale estraneità alle questioni economiche, in cima alla lista delle preoccupazioni della maggioranza degli elettori americani e che con ogni probabilità saranno al centro del dibattito con il presidente Obama il prossimo autunno, sono in sostanza alla base sia della sorprendente ascesa di Santorum che della ormai pressoché inevitabile sconfitta che lo attende al termine di una insolitamente lunga stagione di primarie repubblicane.
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di Michele Paris
Il conflitto in corso ormai da un anno in Siria è sembrato intensificarsi negli ultimi giorni con una serie di attentati terroristici e violenti scontri armati nelle due principali città, Aleppo e Damasco, fino a poco tempo fa relativamente risparmiate dal caos registrato nel resto del paese. Nella capitale, in particolare, lunedì sono stati segnalati combattimenti nei pressi del quartiere benestante di Mezzeh tra le forze di sicurezza del regime e l’opposizione armata.
Secondo i resoconti dei media occidentali, gli scontri nel quartiere che ospita molte residenze diplomatiche e uffici delle Nazioni Unite sarebbero stati i più intensi dall’inizio della rivolta andati in scena a Damasco. Per i gruppi dissidenti di stanza all’estero, il "Libero Esercito della Siria" avrebbe lanciato un’offensiva a Mezzeh per mostrare al regime la capacità tuttora intatta dell’opposizione di colpire obiettivi sensibili anche dopo i progressi delle forze di sicurezza nelle ultime settimane.
Secondo quanto riportato dall’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani, l’organizzazione di stanza a Londra puntualmente citata dalla stampa internazionale nonostante i profondi dubbi sulla sua attendibilità, gli scontri di lunedì nella capitale avrebbero causato 18 morti tra i fedelissimi di Assad. I dati dell’agenzia di stampa ufficiale SANA indicano invece una vittima tra le forze del regime e due tra i ribelli.
Questi ultimi episodi seguono le devastanti esplosioni del fine settimana che avevano colpito le stesse metropoli siriane, considerate il centro nevralgico della base di potere del regime alauita del presidente Bashar al-Assad. Tre autobombe esplose a Damasco e Aleppo avevano ucciso un totale di 29 persone e fatto più di cento feriti. I più recenti attentati hanno così confermato come tra l’opposizione appoggiata dall’Occidente e dai paesi del Golfo Persico ci siano gruppi terroristici che cercano di destabilizzare il regime, anche se non appare del tutto chiaro se essi siano affiliati all’opposizione stessa oppure operino in maniera indipendente.
Per gli attentati di Damasco e Aleppo, in ogni caso, il governo siriano ha per la prima volta puntato il dito in maniera esplicita contro altri paesi arabi, accusando Qatar e Arabia Saudita di istigare attacchi terroristici. I precedenti attentati organizzati nelle stesse città erano stati attribuiti sia dal regime che dall’Occidente a cellule di Al-Qaeda, verosimilmente provenienti dal vicino Iraq.
L’aumento delle violenze in Siria è coinciso con l’arrivo a Damasco di un team di osservatori ONU inviati dall’ex segretario generale, Kofi Annan, il quale settimana scorsa aveva incontrato Assad in due occasioni nel tentativo di promuovere una soluzione pacifica alla crisi e fermare gli scontri, così da consentire l’ingresso nel paese di aiuti umanitari. Gli attentati e gli scontri dimostrano però come le opposizioni armate intendano far naufragare sul nascere qualsiasi possibilità di dialogo.
A fronte di queste operazioni anti-regime, le forze fedeli ad Assad hanno invece recentemente ripreso il controllo di alcune città che sembravano essere, almeno parzialmente, nelle mani dei ribelli, come Idlib nel nord del paese, Dara’a a sud e, proprio nella giornata di martedì, Deir al-Zor a est.
Sempre martedì, i gruppi di opposizione costretti a lasciare queste località hanno dovuto incassare per la prima volta un duro colpo alla loro immagine di difensori delle aspirazioni democratiche del popolo siriano, almeno secondo la propaganda della maggior parte dei media occidentali.
In una lettera aperta indirizzata al Consiglio Nazionale Siriano (CNS), Human Rights Watch ha infatti accusato i ribelli armati di aver commesso seri abusi e violazioni dei diritti umani, tra cui esecuzioni sommarie, rapimenti, detenzioni arbitrarie e torture ai danni di membri delle forze di sicurezza del regime ma anche di civili.
La denuncia dell’ONG newyorchese sembra dare credito dunque a quanto sostenuto da tempo dalla Russia, secondo la quale entrambe le parti coinvolte nel conflitto in Siria si sono rese responsabili di atti di violenza e, perciò, per giungere ad una soluzione negoziata è necessario che le Nazioni Unite facciano appello sia al regime che all’opposizione.
Lo stesso governo di Mosca nella giornata di martedì ha anche fatto sapere di essere pronto ad approvare una risoluzione ONU che appoggi il piano di pace di Kofi Annan, peraltro non ancora reso ufficialmente pubblico. Per il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, la risoluzione non deve suonare però come un ultimatum per Damasco, così come non deve richiedere le dimissioni di Assad.
Secondo alcuni, la posizione di Mosca, soprattutto in seguito alla recente rielezione alla presidenza di Putin, rivelerebbe da qualche tempo una certa impazienza nei confronti dell’alleato siriano dopo il potere di veto esercitato, assieme alla Cina, in due occasioni per bloccare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU altrettante risoluzioni che avrebbero aperto la strada ad un intervento esterno sul modello libico.
La Russia nei giorni scorsi aveva infatti chiesto a Damasco di aprire dei corridoi umanitari in Siria e di permettere l’acceso della Croce Rossa. Lo stesso Lavrov, parlando al Parlamento russo, aveva poi criticato Assad, mettendolo in guardia da un’implementazione troppo lenta delle riforme promesse, con il rischio che il conflitto possa sfuggire definitivamente di mano.
Quest’ultimo è il rischio che Mosca sembra temere maggiormente, cioè che la crisi in Siria si aggravi a tal punto che Russia e Cina non siano più in grado di reggere le pressioni internazionali e di difendere Assad e i propri interessi in Medio Oriente di fronte all’assalto occidentale. La posizione della Russia è complicata tuttavia dal fatto che gli Stati Uniti e i loro alleati europei e nel mondo arabo appaiono ormai decisi ad andare fino in fondo con il cambio di regime a Damasco, aldilà delle concessioni di Assad o di qualsiasi soluzione di pace si cerchi di percorrere.
Nel frattempo, anche l’offensiva diplomatica si sta intensificando. I paesi riuniti nel Consiglio di Cooperazione del Golfo (Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar), ad esempio, qualche giorno fa hanno annunciato la chiusura delle loro rappresentanze diplomatiche in Siria dopo aver ritirato da tempo i propri ambasciatori.
Le monarchie assolute del Golfo, strettissime alleate degli Stati Uniti, sono in prima linea per arrivare alla rimozione di Assad, così da assestare un colpo mortale all’Iran, e criticano perciò apertamente il regime per l’escalation di violenza che esse stesse contribuiscono ad alimentare fornendo armi e sostegno materiale all’opposizione.
Pur non appoggiando in maniera ufficiale la fornitura di armi ai ribelli, principalmente per il timore che possa esplodere il caos nelle aree di confine con la Siria, anche la Turchia è al centro delle manovre anti-Assad. Oltre a dare rifugio ai vertici del CNS e del Libero Esercito della Siria, il governo di Erdogan il prossimo 2 aprile ospiterà entro i propri confini il secondo summit dei cosiddetti “Amici della Siria”, dopo quello tenuto in Tunisia a febbraio senza Russia e Cina, per coordinare le prossime mosse e cercare di indirizzare la crisi vero un esito gradito.
Secondo una fonte anonima citata martedì dalla Associated Press, infine, anche tutti i paesi dell’Unione Europea potrebbero decidere di chiudere a breve le loro ambasciate a Damasco in seguito agli scontri di lunedì nella capitale. La misura dovrebbe essere discussa nel corso di un vertice UE a Bruxelles in programma domani e venerdì. Finora, sei paesi UE hanno già chiuso le loro ambasciate a Damasco, mentre molti altri hanno ridotto sensibilmente il personale diplomatico impiegato in Siria.
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di Michele Paris
Le numerose vittime civili causate dall’aggressione militare NATO dello scorso anno in Libia continuano a rimanere senza responsabili. A puntare nuovamente il dito contro l’Alleanza atlantica è stata ieri Amnesty International, secondo la quale la NATO continuerebbe a rifiutarsi di indagare seriamente sui bombardamenti effettuati contro obiettivi non militari nel corso della campagna aerea durata sette mesi nel paese nord-africano per rimuovere Muammar Gheddafi e installare un regime meglio disposto verso gli interessi occidentali.
Le accuse alla NATO di aver provocato un numero imprecisato di vittime tra civili che nulla avevano a che fare con le forze di sicurezza dell’ex regime erano in realtà giunte da più parti fin dall’inizio di un conflitto scatenato attraverso la manipolazione, da parte degli USA e dei loro alleati, della risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza ONU lo scorso mese di marzo.
Simili accuse risultano particolarmente gravi, dal momento che, come ha ricordato Donatella Rovera di Amnesty International, nel corso della campagna militare “la NATO ha ripetutamente sottolineato il proprio impegno volto a proteggere i civili”. Anzi, la stessa aggressione contro Gheddafi era stata presentata ufficialmente come un’iniziativa “umanitaria” per evitare un massacro di civili da parte del regime di Tripoli.
Per questo motivo, secondo la stessa Rovera, consigliere per la gestione delle crisi per la ONG britannica, la NATO “non può ignorare le vittime civili limitandosi a emettere generiche dichiarazioni di scuse senza indagare adeguatamente su questi incidenti mortali”. Secondo Amnesty, un’indagine seria dovrebbe stabilire se le vittime civili sono state causate da violazioni del diritto internazionale e, in tal caso, i responsabili devono essere portati davanti alla giustizia.
Le cifre fornite dalla NATO, con ogni probabilità abbondantemente sottostimate, indicherebbero 55 vittime civili durante i raid sulla Libia, di cui 16 bambini e 14 donne, uccise dopo attacchi aerei che hanno colpito abitazioni private a Tripoli, Zlitan, Majer, Sirte e Brega. A queste vanno aggiunte altre 34 vittime, tra cui 8 bambini, in tre incursioni su due abitazioni a Majer e per le quali non viene data alcuna spiegazione.
Al desiderio di vedere rapidamente archiviata la questione delle responsabilità occidentali per le morti di civili innocenti aveva dato sostanzialmente il proprio contributo qualche giorno fa anche un rapporto della speciale Commissione ONU d’Inchiesta sulla Libia. Questa commissione era stata creata pochi giorni dopo l’esplosione della rivolta a Bengasi e ha presentato le proprie conclusioni il 2 marzo scorso di fronte al Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra.
La Commissione ha documentato 60 vittime e 55 feriti tra i civili in conseguenza delle incursioni NATO prese in esame, anche se l’Alleanza non avrebbe agito in maniera deliberata. In almeno cinque occasioni, tuttavia, la pretesa della NATO di aver colpito centri militari di comando in Libia non è stata supportata dalla realtà sul campo. Per questi casi non sono state trovate prove a sufficienza per raggiungere una conclusione. Al rapporto della Commissione d’indagine, i vertici NATO hanno risposto pochi giorni più tardi, sostenendo che tutti gli obiettivi colpiti in Libia erano legittimi.
Il dibattito attorno al rapporto ONU ha innescato poi un’accesa polemica tra la Russia da una parte e gli Stati Uniti e il nuovo governo libico dall’altra. L’ambasciatore di Mosca alle Nazioni Unite, Vitaly Churkin, nel pieno dello scontro diplomatico sulla Siria, ha chiesto le scuse ufficiali della NATO per le vittime civili provocate dalla campagna militare in Libia. Per tutta risposta, l’ambasciatore americano all’ONU, Susan Rice, ha difeso l’azione della NATO in Libia, facendo riferimento allo stesso rapporto della speciale commissione d’inchiesta nel quale si dice che le forze dell’Alleanza hanno preso tutte le precauzione necessarie per evitare vittime civili.
Gli stessi ribelli, appoggiati nella loro avanzata in maniera decisiva dall’offensiva NATO contro le forze di Gheddafi, nonostante siano stati dipinti dalla stampa occidentale quasi sempre come eroi della rivolta democratica in Libia, hanno frequentemente adottato metodi non meno brutali di quelli del regime contro cui combattevano.
Il trattamento riservato dagli uomini agli ordini del Consiglio Nazionale di Transizione (CNT) agli immigrati africani e ai cittadini libici di colore, ma anche ai combattenti pro-Gheddafi catturati, così come il devastante assedio a Sirte alla vigilia della definitiva caduta del regime e lo stesso barbaro assassinio del rais, sono alcuni tra i crimini più evidenti e maggiormente documentati dell’intero conflitto.
Già nel novembre dello scorso anno, anche il giudice della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno-Ocampo, prontissimo a mettere sotto accusa i principali esponenti del regime, era stato costretto ad annunciare che il suo ufficio avrebbe preso in esame i crimini commessi da entrambe le parti in Libia. Finora, come era prevedibile, la Corte dell’Aia ha tuttavia aperto procedimenti solo contro membri della famiglia Gheddafi e i suoi più stretti collaboratori.
Con il governo provvisorio di Tripoli di fatto alle dipendenze dei paesi occidentali e del Golfo Persico che hanno appoggiato da subito la causa dei ribelli, la Libia non sembra per nulla disposta a consentire un’indagine completa sulle vittime civili causate dalla NATO. Al contrario, la volontà è piuttosto quella di insabbiare qualsiasi procedimento che cerchi di portare alla luce le responsabilità delle milizie locali e dei loro sponsor occidentali in un conflitto che ben poco ha a che fare con le aspirazioni democratiche del popolo libico e molto di più, invece, con gli interessi strategici delle potenze coinvolte.
Solo in questi ultimi mesi sono stati parecchi i rapporti critici del CNT e della NATO. A gennaio, ad esempio, alcune ONG mediorientali (l’Organizzazione Araba per i Diritti Umani, il Centro Palestinese per i Diritti Umani e il Consorzio Internazionale per l’Assistenza Legale) avevano documentato i crimini di guerra commessi sia dai ribelli che dalla NATO. Anche in questa occasione, gli autori dello studio sul campo chiedevano un’indagine sulle vittime civili dei bombardamenti contro scuole, edifici governativi e abitazioni private, nonché sugli abusi subiti dai soldati e dai combattenti pro-Gheddafi detenuti dal CNT.
A febbraio, infine, la stessa Amnesty International aveva descritto dettagliatamente in un rapporto i metodi di tortura ampiamente diffusi nelle carceri libiche gestite dal nuovo governo, dove vengono detenuti presunti membri del vecchio regime e fedelissimi del colonnello. Anche in questo caso, ovviamente, i vertici del CNT, con la complicità dei governi occidentali autoproclamatisi difensori dei diritti umani in Libia, hanno accuratamente evitato di aprire un qualche procedimento per individuare e punire i responsabili degli abusi.