di Emanuela Pessina

BERLINO. Grande entusiasmo al congresso di partito dei socialdemocratici tedeschi (SPD), tenutosi a Berlino in questi giorni: due anni dopo le politiche del 2009, che avevano visto l’SPD con la percentuale di voti più bassa dal dopoguerra (23%), il partito sembra aver ritrovato sicurezza e identità. Oltre a riconfermare il segretario di partito Sigmar Gabriel e il consiglio direttivo, i socialdemocratici hanno posto le prime basi per le elezioni del 2013. Un unico dubbio rimane ancora da chiarire: l’SPD non ha rivelato chi sarà lo sfidante di Angela Merkel; un’ultima, fondamentale informazione per cui bisognerà aspettare ancora un po’.

A capo del partito è stato riconfermato Sigmar Gabriel, che ha ottenuto il 91.6% dei voti. Una percentuale di certo inferiore a quella con cui era stato eletto nel 2009, ma comunque soddisfacente: il segretario socialdemocratico ha infatti preso le redini dell’SPD dopo i disastrosi risultati delle elezioni del 2009, che hanno segnato una delle crisi più profonde nella storia del partito tedesco.

Proponendosi come “uomo nuovo”, Gabriel ha voluto rompere con la più recente linea politica dell’SPD, che aveva condotto il partito socialdemocratico alla “catastrofe”. Per il neo-segretario, l’SPD stava diventando un partito d’élite: con le sue riforme Gabriel ha tentato di ricostruire la politica dell’SPD “dal basso”, dando più voce ai circoli di partito locali. E ora, nonostante le molte critiche iniziali, arrivano i grassi numeri della riconferma di Gabriel, quasi a testimonianza della fiducia che i militanti hanno riposto in lui.

A essere giudicato positivamente è stato, in particolare, il discorso del segretario, che ha affrontato tutte le problematiche più attuali tra cui l’immancabile crisi economica. A fronte della grave situazione, Gabriel ha proposto un ridimensionamento del liberalismo: perché non si può fare a meno del liberalismo, ha ammesso il leader SPD, ma una sua riorganizzazione è comunque indispensabile. “Sufficientemente di sinistra” per l’ala più rossa del partito, i suoi argomenti sono stati giudicati “pragmatici” dalle correnti interne più conservative: a quanto pare, Gabriel è riuscito nell’incredibile compito di convincere tutti. Anche l’elezione del consiglio direttivo non ha presentato sorprese: riconfermati i membri già eletti due anni fa, nessuno ha ottenuto una percentuale di voti inferiore all’80%.

Ospite speciale del convegno, l'ex-Cancelliere socialdemocratico, il novantadueenne Helmut Schmidt, applaudito per sei minuti al termine del suo discorso: erano tredici anni che non metteva piede a un congresso di partito e il suo intervento potrebbe non essere del tutto casuale. Alla guida della Germania tra il 1974 e il 1982, Schmidt è stato uno dei leader che maggiormente ha contribuito alla costruzione della Comunità europea. La sua presenza ha voluto forse ricordare alla Germania l’importanza del progetto europeo, la “grande linea” della politica, in una sorta di critica intrinseca alla Cancelliera Angela Merkel e alla sua politica, da molti considerata “antieuropea”.

Si può dire, in conclusione, che il congresso di Berlino ha mostrato un SPD armonico e coeso: sicurezza di sé e unità sono forse gli ingredienti principali per la (ri-)costruzione pubblica di un’immagine di partito seria, e i socialdemocratici sembrano averlo capito. La posta in gioco sono le politiche del 2013 e, dopo la “catastrofe” del 2009, i socialdemocratici agiscono cautamente e non danno nulla per scontato, tantomeno i voti dei propri elettori.

Bisognerà tuttavia attendere un po' prima che l’SPD annunci il proprio candidato alla cancelleria: il partito ha deciso di attendere il prossimo gennaio, data delle elezioni regionali in Bassa Sassonia, prima di fare il nome dello sfidante di Frau Merkel. Oltre a Gabriel, da molti considerato il favorito, si parla dell'ex-ministro degli Esteri Frank Walter Steinmeier e dell'ex-ministro delle Finanze Peer Steinbrueck. I risultati delle regionali di quest’anno hanno sì segnalato una profonda crisi della Cancelliera e della sua coalizione, ma è anche vero che la situazione internazionale non è stata delle più favorevoli ai governi e altrove ha provocato cambiamenti molto più drastici, come in Italia o in Grecia. E i cittadini lo sanno: allo sfidante cancelliere non basteranno le belle parole, il carico è ingombrante e forse proprio per questa ragione l’SPD ha evitato di pronunciarsi chiaramente in merito.

 

 

di Michele Paris

Un articolo pubblicato domenica scorsa dal New York Times ha rivelato come da qualche anno gli agenti dell’antidroga statunitense sotto copertura stiano partecipando attivamente alle operazioni di riciclaggio di decine di milioni di dollari provenienti dai traffici dei cartelli messicani. Gli agenti infiltrati della DEA (Drug Enforcement Administration) conducono cioè operazioni speciali in Messico, nelle quali gestiscono in prima persona il trasporto di enormi somme di denaro destinate ad essere ripulite nelle banche americane. L’indagine, firmata dalla reporter Ginger Thompson, si basa sulle dichiarazioni rilasciate in forma anonima da alcuni ex agenti, ed altri tuttora impiegati sul campo, dell’agenzia federale antidroga creata nel 1973 dal presidente Nixon.

Secondo il giornale newyorchese, questi agenti sotto copertura prendono in consegna in territorio messicano due o tre carichi di denaro a settimana. A volte, sono gli agenti messicani infiltrati a ricevere il denaro dai narcos. Quelli americani, poi, lo trasportano negli Stati Uniti su velivoli governativi, per poi depositarlo su conti corrente aperti dai cartelli o dagli stessi agenti. Da qui, i proventi del narcotraffico vengono successivamente trasferiti a società che forniscono beni e servizi ai cartelli. In altre occasioni, invece, gli agenti della DEA si fingono riciclatori ed entrano in contatto diretto con i rappresentanti dei cartelli, dai quali ricevono il denaro che viene allo stesso modo depositato nelle banche americane e in seguito trasferito nuovamente in Messico.

Alla domanda di quanto denaro sia stato finora trasportato in questo modo dal Messico agli Stati Uniti, un agente intervistato dal Times ha risposto soltanto “parecchio”. Solitamente, continua la fonte anonima, la DEA cerca di sequestrare gli stessi importi riciclati, in parte facendo pagare commissioni ai cartelli per i servizi forniti dai finti riciclatori e in parte arrestando i narcotrafficanti al momento degli scambi di denaro. In teoria, la DEA dovrebbe richiedere una speciale autorizzazione al Dipartimento di Giustizia, da cui dipende, prima di organizzare singole operazioni che prevedano importi da riciclare superiori ai dieci milioni di dollari, ma in pratica ciò avviene molto raramente.

Attualmente, sono in corso circa 50 operazioni di questo genere in tutto il mondo, autorizzate personalmente dal Ministro della Giustizia (Attorney General), Eric Holder. In Messico, esse erano state bandite fino a pochi anni fa, dopo le polemiche scoppiate a causa di un’operazione condotta oltre confine dagli agenti americani della dogana nel 1998 senza aver informato le autorità locali. Il ritorno a queste operazioni speciali è avvenuto in concomitanza con il maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra al narcotraffico nel vicino meridionale seguito all’elezione del presidente Felipe Calderón nel dicembre 2006.

Secondo la versione ufficiale, le operazioni di riciclaggio della DEA sarebbero indispensabili per comprendere le modalità con cui i cartelli trasferiscono negli USA i proventi del narcotraffico per essere riciclati, ma anche per individuare dove essi collocano il loro denaro e per risalire ai vertici dei cartelli stessi. Senza queste rischiose operazioni, inoltre, sarebbe molto difficile trovare le prove che collegano il denaro riciclato ai cartelli, i quali hanno da tempo creato reti finanziarie complesse che sarebbe impensabile poter penetrate con i tradizionali strumenti di indagine.

Queste operazioni, tuttavia, sollevano quanto meno molte perplessità, dal momento che, oltre a compromettere la sovranità messicana, di fatto facilitano i traffici illegali delle già potenti organizzazioni criminali. Oltretutto, i risultati ottenuti dai governi di Washington e di Città del Messico appaiono trascurabili e sembrano non incidere minimamente sulla situazione generale.

Come ha commentato un altro ex agente DEA al Times, se si contribuisce “a riciclare denaro, è opportuno mostrare dei risultati. Altrimenti, la DEA finisce per diventare il maggiore riciclatore nel business della droga e il denaro va a finanziare violenze e assassini”. I risultati, al contrario, sono tutt’altro che convincenti. Nel 2010 la DEA ha confiscato circa un miliardo di dollari - 26 milioni il governo messicano - vale a dire una frazione minima del flusso di denaro che si muove tra Stati Uniti e Messico, stimato annualmente tra i 18 e i 39 miliardi di dollari. Questi stessi dubbi cominciano ad averli ora anche i parlamentari americani, tanto che già lunedì alcuni membri repubblicani del Congresso hanno manifestato l’intenzione di aprire un’indagine su queste operazioni sotto copertura.

Le polemiche sollevate dai repubblicani hanno in ogni caso una connotazione politica e intendono colpire l’amministrazione democratica del presidente Obama. Tanto più che il reportage del Times si aggiunge ad un altro scandalo dai contorni simili e che riguarda il traffico di armi. Una commissione della Camera dei Rappresentanti sta infatti indagando sulla cosiddetta operazione “Fast and Furious”, condotta tra il 2009 e il 2010 dagli agenti dell’ATF (Bureau of Alcohol, Tabacco, Firearms and Explosives), i quali hanno facilitato l’acquisto e il contrabbando di armi dagli USA al Messico nel tentativo di seguirne le tracce e giungere ai piani alti dei cartelli del narcotraffico. L’operazione è però decisamente sfuggita di mano ai federali, come dimostra il recente ritrovamento di centinaia di queste stesse armi sulle scene di crimini efferati commessi da entrambe le parti del confine e in uno dei quali è rimasto ucciso un agente di frontiera americano.

Rivelazioni come quella di domenica scorsa del New York Times, assieme all’esplosione dello scandalo “Fast and Furious”, ripropongono in maniera inquietante la questione dell’ambiguità del governo americano nella lotta al narcotraffico.

Non solo l’attività dei cartelli della droga contribuisce a far lievitare i profitti dei fabbricanti di armi in America - la cui profonda influenza sulla politica di Washington è inutile ricordare - e delle grandi istituzioni finanziarie, che notoriamente riciclano il denaro dei narcos, anche al di fuori delle operazioni sotto copertura delle agenzie federali. La minaccia perenne dei narcotrafficanti serve anche e soprattutto a giustificare la militarizzazione di molti paesi latinoamericani, così da garantire la continua presenza degli Stati Uniti sull’intero continente. Una necessità, quest’ultima, diventata ancora più pressante negli ultimi anni, alla luce delle minacce all’egemonia americana provenienti da governi come quelli di Hugo Chavez in Venezuela o di Evo Morales in Bolivia.

Una politica quella degli Stati Uniti che continua ad imporre un prezzo carissimo alle popolazioni locali, come dimostrano gli effetti di cinque anni di guerra al narcotraffico in Messico. L’impiego dei militari deciso da Calderón per combattere lo strapotere dei cartelli ha infatti portato ben pochi benefici ad un paese che dal 2006 ad oggi conta qualcosa come 50 mila morti ed una serie infinita di abusi commessi dalle proprie forze di sicurezza.

di Carlo Musilli

Lunedì nella Piazza Rossa non si poteva entrare. La polizia di Mosca aveva chiuso tutti gli ingressi. Solo nella capitale sono finite in carcere circa 260 persone, ma si dice che in tutta la Russia siano scesi in strada fra i 5 mila e i 10 mila manifestanti. Un fatto epico per il Paese. La protesta si è scatenata dopo le elezioni legislative di domenica, viziate da brogli più o meno clamorosi. E questo purtroppo è un fatto usuale per il Paese.

Nelle ultime ore il primo ministro Vladimir Putin viene trattato come uno sconfitto, ma la verità è che il suo partito, Russia Unita, ha vinto ancora una volta, conquistando il 49% dei voti e 238 seggi. Certo, si tratta di un bel passo indietro rispetto alle ultime consultazioni, quelle del 2007, quando i putiniani avevano ottenuto il 64% delle preferenze e ben 315 seggi. Alcuni stimano i voti persi addirittura in 10 milioni. Tuttavia, che il potere reale in mano allo zar Vladimir sia stato davvero ridimensionato dalle urne è ancora tutto da dimostrare.

In primo luogo bisognerà vedere quale spazio di manovra e quale capacità politica dimostreranno nel nuovo assetto della Duma i partiti di opposizione. Su tutti i comunisti di Gennady Zyuganov, che hanno praticamente raddoppiato la propria presenza nella camera bassa del Parlamento, passando dall'11 al 20% dei voti e da 38 a 64 seggi. Al terzo posto si piazzano i nazionalisti di Vladimir Zhirinovsky, che passano comunque dall'8 al 12 % e da 40 a 56 seggi.

In questa situazione, Russia Unita manca l'obiettivo della maggioranza costituzionale (315 seggi), ma tiene comunque in pugno la maggioranza assoluta, anche se per soli 13 seggi. Insomma, teoricamente potrebbe ancora navigare in solitaria, ma tanto per stare tranquillo il presidente Dmitri Medvedev ha annunciato che il suo partito governerà "sulla base di accordi di coalizione con altre forze politiche". Sembra un'innovazione storica ma, prima di credere al nuovo bagliore di pluralismo che pare illuminare le buie stanze del Cremlino, aspettiamo di vedere da chi sarà composta la coalizione. E soprattutto quale voce in capitolo avranno gli alleati.

Bisogna poi ritornare sulla questione dei brogli. Secondo l'Osce (l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea) gli scrutatori russi si sarebbero ritrovati a conteggiare anche delle urne gentilmente riempite non dagli elettori, ma da qualcun altro. "Le elezioni erano ben organizzate - scrivono gli osservatori - ma durante il conteggio dei voti la qualità della procedura si è deteriorata in modo significativo". C'erano "gravi indizi che le urne fossero state riempite in precedenza". Messi di fronte all'evidenza d'esser stati truffati, i comunisti hanno annunciato ricorsi alla Corte suprema e a una miriade di tribunali locali, la cui giurisdizione si estende su almeno 1.600 seggi elettorali.

"Gravi preoccupazioni" sono state espresse perfino dal segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che ha anche ricordato gli attacchi cibernetici contro il sito web degli osservatori russi indipendenti di Golos. Per queste "anomalie", Clinton ha sottolineato la necessità di un'inchiesta approfondita.

Su questo punto le interpretazioni possibili sono diverse. Alcuni sostengono che gli uomini di Putin sono talmente in grado di manipolare gli esiti delle urne da aver perfettamente calibrato anche i risultati ottenuti dai partiti avversari. In quest'ottica, l'indebolimento di Russia Unita sarebbe solo apparente e risponderebbe più che altro alla necessità di alleviare la crisi di credibilità che ha colpito il potere centrale, il cui autoritarismo diventa ogni giorno più indigesto ai cittadini. Altri analisti ritengono invece che quella dei brogli elettorali sia ormai una tradizione ineludibile in Russia, ma non in grado di spostare radicalmente la composizione del voto nello sterminato Paese. Che questo sia vero o no, a ben vedere è comunque indiscutibile che la popolarità di Putin stia attraversando una fase di declino.

Quello di domenica era essenzialmente un voto su di lui e sul destino che lo aspetta alle prossime elezioni presidenziali di marzo, che lo potrebbero far rimanere in sella per altri 12 anni (dopo una riforma costituzionale varata ad hoc). Putin ha in mano tutte le carte per riuscirci, potendo controllare ancora tutti i massimi apparati dello Stato. Rimane da vedere come vorrà presentarsi al popolo per raggiungere la meta: se nelle vesti di un autocrate ancora più severo, o come un buon padre ormai intenerito. In ogni caso la sua immagine non è ancora quella dello sconfitto.  

 

di Michele Paris

Colpito da una serie di scandali sessuali, uno dei principali candidati alla Casa Bianca per il Partito Repubblicano, Herman Cain, qualche giorno fa ha deciso di dare l’addio ufficiale alla corsa per la nomination. L’annuncio della sospensione della campagna elettorale è avvenuto di fronte a suoi sostenitori ad Atlanta, dove il 65enne imprenditore di colore, apparso a fianco della moglie Gloria, pur non ammettendo alcuna responsabilità, ha citato le “continue distrazioni e il continuo dolore causato alla sua famiglia” dalle vicende di queste ultime settimane.

I grattacapi per Herman Cain erano iniziati ai primi di novembre, quando una donna di Chicago - Sharon Bialek - era uscita allo scoperto, denunciandolo per averla molestata durante un incontro avvenuto quattordici anni prima. Secondo la ricostruzione dei fatti della donna, al termine di una serata trascorsa a Washington con Cain - all’epoca presidente dell’Associazione Nazionale Ristoratori - quest’ultimo avrebbe tentato un approccio nei suoi confronti, proponendole una relazione sessuale in cambio del suo aiuto nella ricerca di un impiego.

Qualche giorno dopo, una seconda donna - Karen Kraushaar, attualmente alle dipendenze del Dipartimento del Tesoro - aveva poi affermato pubblicamente di essere stata indotta a lasciare il proprio posto di lavoro presso la stessa Associazione Nazionale Ristoratori nel 1999 a causa della difficile situazione in cui si era venuta a trovare in seguito alle ripetute avance di Cain.

Autodefinitosi cristiano devoto e “family man” modello, Cain ha dovuto inoltre incassare le accuse di molestie sessuali da parte di altre due donne, le quali hanno tuttavia deciso di rimanere nell’anonimato. Karen Kraushaar e una delle due accusatrici di Cain che non hanno voluto rivelare la propria identità erano state risarcite con una somma pari ad un anno di salario dall’Associazione Nazionale Ristoratori per rimediare alle conseguenze del comportamento dell’allora presidente.

Da parte sua, Herman Cain ha sempre smentito qualsiasi comportamento inopportuno, definendo gli scandali come una cospirazione ordita nei suoi confronti e la cui responsabilità ha attribuito di volta in volta ai media, al Partito Democratico e al governatore del Texas Rick Perry, anch’egli in corsa per la nomination repubblicana. Alla fine, l’entourage di Cain ha dovuto ammettere l’infondatezza della tesi del complotto, suggellando una gestione a dir poco confusionaria della bufera che si è abbattuta sulla sua campagna elettorale.

Già fiaccato da questi scandali, Cain ha subito infine il colpo di grazia settimana scorsa, quando una quinta donna ha fatto una nuova rivelazione pubblica. Intervistata da una TV locale di Atlanta, Ginger White - già colpita da un’ingiunzione restrittiva per stalking nei confronti di un suo ex partner d’affari - ha rivelato di avere avuto una relazione extra-coniugale con Herman Cain durata 13 anni e troncata solo otto mesi fa.

A testimonianza dei fatti, la donna ha portato le tracce di numerose telefonate e scambi di SMS con il candidato repubblicano, il quale l’avrebbe anche voluta spesso al suo fianco durante alcune trasferte in varie località americane dove erano in programma eventi organizzati dall’Associazione Nazionale Ristoratori. Di fronte alle prove della relazione, Cain non ha potuto non ammettere di aver conosciuto Ginger White, alla quale avrebbe dato inoltre un aiuto economico. A suo dire, però, il rapporto che legava i due era di pura amicizia, anche se la moglie ne era all’oscuro.

Mentre le precedenti rivelazioni di molestie sessuali avevano ricevuto una reazione agguerrita da parte di Cain e del suo staff, quest’ultima vicenda è sembrata da subito potenzialmente fatale per la sua carriera politica. I responsabili della sua campagna elettorale avevano infatti annunciato che Cain avrebbe valutato con attenzione le opzioni a sua disposizione per l’immediato futuro, facendo presagire un addio alla corsa alla Casa Bianca, come è avvenuto puntualmente nella giornata di sabato.

A spingere Cain verso questa decisione hanno contribuito con ogni probabilità anche i più recenti sondaggi che davano la sua popolarità in caduta libera. L’indagine più recente è stata quella condotta qualche giorno fa dal Des Moines Register, un giornale dell’Iowa da dove il 3 gennaio prossimo prenderà il via la stagione delle primarie con i consueti caucuses.

Secondo il sondaggio, i consensi per Cain in questo stato sono crollati rispetto a poco più di un mese fa, passando dal 23 all’8 per cento. A beneficiare maggiormente di questa emorragia di consensi sarebbe l’ex speaker della Camera, Newt Gingrich (25 per cento), attuale favorito in Iowa davanti al deputato del Texas, Ron Paul (18 per cento), e a Mitt Romney (16 per cento).

L’ingresso di Herman Cain nella competizione per la nomination repubblicana era avvenuto in tono minore, come si conveniva a un outsider pressoché sconosciuto alla maggior parte degli americani. Nato da una famiglia della working-class nel sud degli Stati Uniti, Cain ha fatto fortuna dirigendo una catena di pizzerie (Godfather’s Pizza) per poi ricoprire la carica di vice-presidente della Federal Reserve di Kansas City. I toni populisti e un certo appeal anti-establishment in un momento di profonda sfiducia verso la politica di Washington gli avevano consentito di collocarsi in una posizione sempre più favorevole alla vigilia delle primarie repubblicane.

La rapida ascesa di Cain era stata segnata da una serie di prestazioni convincenti nei dibattiti repubblicani degli ultimi mesi e da un programma elettorale basato sul cosiddetto “piano 9-9-9”, un progetto di riforma fiscale ad aliquota unica (pari al 9 per cento, appunto) che avrebbe dovuto sostituire l’attuale sistema di tassazione americano con un’imposizione del 9 per cento sulle aziende, sui redditi personali e sui consumi.

Soprattutto il relativo successo di quest’ultima trovata propagandistica - che avrebbe finito col far pagare più tasse ai redditi più bassi - gli aveva permesso di vincere a sorpresa un voto informale (straw poll) tra i sostenitori repubblicani in Florida a settembre e di collocarsi addirittura al primo posto, assieme al “front-runner” Mitt Romney, in un sondaggio condotto a fine ottobre  sul gradimento nazionale dei candidati alla nomination.

Nel corso di svariate interviste erano emersi però anche i clamorosi limiti di preparazione di Herman Cain, in particolare sulle questioni di politica estera. Una gaffe su tutte aveva sollevato parecchi dubbi circa le sue competenze. Nel corso di una recente intervista con il Milwaukee Journal Sentinel, gli fu chiesto un giudizio sulla gestione di Obama della crisi libica. Colto di sorpresa, Cain aveva stentato per alcuni minuti ad articolare una frase sensata, senza riuscire a dare una risposta alla domanda dei giornalisti.

Se i suoi sostenitori hanno reagito all’annuncio del ritiro dalla corsa alla nomination con sdegno, accusando il sistema di aver fatto fuori un candidato critico del modo di fare politica a Washington, decisamente sollevati sono apparsi al contrario i vertici del Partito Repubblicano, che hanno visto naufragare la campagna di un aspirante alla Casa Bianca considerato troppo debole per sostenere un confronto con Barack Obama.

Con Herman Cain fuori dalla competizione, i sei rimanenti candidati repubblicani cercheranno ora di contendersi i suoi sostenitori e finanziatori per il prosieguo della campagna elettorale. La notizia del ritiro di Cain è stata indubbiamente accolta con soddisfazione soprattutto nel quartier generale di Newt Gingrich, le cui quotazioni sono in netta ascesa nelle ultime settimane. Proprio l’ex speaker della Camera negli anni Novanta è stato infatti il candidato alla nomination che ha espresso maggiore apprezzamento per il businessman di colore, dal quale secondo i media americani si appresterebbe ora a ricevere l’appoggio ufficiale (endorsement).

di Michele Paris

Mentre in sei paesi europei la crisi del debito ha causato la caduta di altrettanti governi dall’inizio dell’anno, in Belgio le pressioni dei mercati sono invece riuscite a dare la spinta decisiva a risolvere una interminabile impasse politica e a dar vita ad un nuovo gabinetto di coalizione. Tra molte difficoltà, sei partiti fiamminghi e valloni hanno così superato le profonde spaccature che attraversano il panorama politico belga, permettendo con ogni probabilità al leader socialista francofono di origine italiana, Elio Di Rupo, di ottenere l’incarico di primo ministro.

Dopo le elezioni del giugno 2010, in Belgio sono seguiti quasi 18 mesi durante i quali sono andati in scena 80 round di negoziati per provare a raggiungere un accordo sulla nascita del nuovo governo. Le divergenze emerse tra le varie forze politiche s’intrecciano con le divisioni tra le due comunità linguistiche del paese che, dopo un periodo record di 535 giorni, sono state messe provvisoriamente da parte per la necessità di approvare al più presto il bilancio del prossimo anno.

Il Belgio, come è noto, è diviso tra la comunità fiamminga settentrionale, dove risiede circa il 60 per cento della popolazione e sono concentrate le attività economiche più prospere del paese, e quella vallone-francofona a sud. A sbloccare la situazione politica, oltre alle manovre di alcuni partiti negli ultimi mesi, è stato il rischio sempre più concreto di veder precipitare il Belgio nel vortice della crisi del debito che sta attraversando l’Europa.

Il 25 novembre scorso, infatti, Standard & Poor’s aveva abbassato il rating del paese da AA+ ad AA, mentre in precedenza Moody’s aveva sottoposto a revisione il suo giudizio della solvibilità belga. A ciò va aggiunta anche la situazione sempre più precaria del sistema bancario belga e l’impennata fatta segnare negli ultimi giorni dai tassi d’interesse sui bond decennali, saliti al 5,91 per cento settimana scorsa, vale a dire al livello più elevato da 11 anni a questa parte.

Nella tarda serata di mercoledì scorso, i partiti coinvolti nelle trattative hanno annunciato il raggiungimento di un accordo. Il giorno successivo si sono recati dal sovrano, Alberto II, e, salvo sorprese, oggi Elio Di Rupo verrà insediato come nuovo primo ministro, succedendo al democristiano Yves Leterme, giusto in tempo per partecipare all’imminente vertice dei leader dell’Unione Europea.

Il 60enne Elio Di Rupo, figlio di emigrati abruzzesi, sarà il primo capo di governo socialista in Belgio dal 1974 (Edmond Leburton). Il suo governo sarà chiamato da subito a implementare una serie di misure di austerity, già richieste dai mercati e dalle autorità europee, che comprendono modifiche al sistema pensionistico, aumento del carico fiscale e tagli al settore pubblico. L’obiettivo imposto al nascente governo belga è quello di ridurre il deficit di bilancio al 2,8 per cento del PIL entro il prossimo anno, con tagli alla spesa pubblica per oltre 11 miliardi di euro.

Fuori da una variegata coalizione (che comprende, tra gli altri, i socialisti fiamminghi e i Cristiano Democratici), è significativamente rimasta proprio la formazione politica che ha raccolto il maggior numero di voti nelle scorse elezioni, il partito della destra separatista fiamminga N-VA (Nuova Alleanza Fiamminga), guidato da Bart De Wever.

Oltre alle difficoltà che deriveranno dalla necessità di far digerire misure impopolari ad una popolazione già abbastanza sfiduciata dalla politica belga, il nuovo esecutivo, guidato da un premier che ha poca confidenza con la lingua fiamminga, dovrà dunque far fronte anche al sentimento anti-francofono diffuso tra le élite della maggioranza fiamminga della popolazione, da dove già in questi giorni sono arrivate le prime dure critiche alla coalizione di governo.


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