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di Emanuela Pessina
BERLINO. Una decina di giorni fa la Germania ha scoperto l'esistenza del "Nationalsozialistischer Untergrund" (NSU), l’underground nazionalsocialista, un gruppo neonazista attivo a Zwickau (Est della Germania) da oltre dieci anni e responsabile, con ogni probabilità, dell'omicidio di 9 immigrati e di un poliziotto, di un attentato a Colonia risalente al 2004 (23 feriti il triste bollettino) e di decine di rapine in banca. Grande lo shock mediatico sollevato dall’evento di cronaca, che ha lasciato comunque rapidamente il posto al bisogno di vederci chiaro: perché tutto ciò che ha a che fare con nazismo e neonazismo pesa ancora tanto in Germania, dove la coscienza dei gravi errori del passato non permette di ignorare nessun minimo dettaglio, e fa vergognare oggi forse più che in altri Paesi.
Al cosiddetto “trio del terrore di Zwickau” appartenevano tre membri, due dei quali si sono di recente uccisi dopo un tentativo di rapina finito male. L’unica sopravvissuta del trio è Beate Zschaepe, la donna che ha fatto saltare in aria il domicilio della banda subito poco prima della morte dei complici: da qui è partito tutto. Perché quest’ultima è un’azione incredibilmente eclatante, degna delle più losche storie di terrorismo: un’azione che potrebbe rivelare la volontà di nascondere qualcosa, forse tracce, indizi di relazioni pericolose.
Sono solo supposizioni, eppure qualcosa di ambiguo c’è. In un lungo reportage, il settimanale Der Spiegel ha rivelato una rete molto fitta di relazioni che, più o meno indirettamente, mettono in collegamento il “trio del terrore” al partito nazionaldemocratico tedesco, l’NPD. I tre membri dell’underground nazionalsocialista di Zwickau erano infatti a loro volta collegati a un altro gruppo neonazista regionale, la Thueringer Heimatschutz, in cui verso la fine degli anni ‘90 militavano diversi politici di spicco dell’attuale NPD tedesco.
La presenza attiva di queste figure politiche all’interno dell’associazione neonazi è comprovata da scritti ufficiali degli organi di potere tedeschi, che già nel 2000 indagavano la posizione dell’NPD per un eventuale divieto di un partito considerato a tratti anticostituzionale. Ora la Thueringer Heimatschutz non esiste più, ma il sito internet che le fa capo è ancora attivo. Secondo Der Spiegel, il portale conterrebbe dei contributi che mostrano rapporti fra il partito nazionaldemocratico e i militanti neonazi.
Dalle ultime indagini risulta inoltre l’esistenza di un altro complice del commando di Zwickau, André E., uno dei personaggi politici di riferimento dei giovani nazionalsocialisti di Potsdam, alle porte di Berlino. André E. potrebbe sembra essere anche l’autore di un video nel quale i terroristi di Zwickau hanno dichiarato la propria folle intenzione omicida nei confronti degli immigrati, rivendicando anche l’attentato di Colonia del 2004.
L’NPD, da parte sua, ha immediatamente preso le distanze dal gruppo di Zwickau, ma i fatti non supportano pienamente la posizione del partito. Il presidente nazionaldemocratico Holger Apfel ha dichiarato di “condannare in maniera assoluta” ogni azione terroristica, eppure, i forum che fanno capo alle già nominate associazioni neonazi sembrano mostrare un’altra realtà. Come le parole dell’ex-vice di Apfel, che in una discussione parla della campagna elettorale come „di un argomento da sfruttare per ottenere soldi dalla politica”.
In passato, il giovane è già stato condannato per possesso illegale di armi e per diverse azioni violente. O come le parole di un altro blogger neonazi, che rivendica il bisogno di “stabilire il socialismo nazionale nelle comunità più piccole del popolo, nelle associazioni, nelle città e nei comuni”. Neonazi che fanno politica, politici che militano nei gruppi neonazi: il confine fra partito ufficiale di estrema destra e gruppi neonazi potrebbe davvero essere più labile di quanto si voglia far credere, in Germania.
La parola spetta ora agli inquirenti, che vogliono andare a fondo nella vicenda per dare alla Germania le dovute risposte. Come già nel 2003, il Governo federale sta valutando la possibilità di metter fuorilegge il partito nazionaldemocratico tedesco alla luce dei legami che sembrano esserci con le cellule terroristiche neonaziste: la Cancelliera Angela Merkel (CDU) ha dichiarato l’intenzione di valutare la situazione “con tutti i mezzi possibili”.
Nel 2003 non si era riusciti a bandire l’NPD per la “massiccia presenza di informatori infiltrati” al suo interno, che permettevano un maggiore controllo delle attività dei gruppi neonazi. Altra questione discutibile: perché la presenza d’informatori dei servizi segreti non ha impedito dieci anni di omicidi e attentati?
Oltre alle presunte relazioni pericolose di qualche anno fa, ora lo Stato deve giustificare una serie di vittime, e la popolazione non sembra più disposta ad accettare compromessi. Da un sondaggio del settimanale Stern risulta che il 64% dei tedeschi non ha fiducia nella lotta dello Stato contro i gruppi di estrema destra, giudicata poco concreta. Infiltrati o no, tocca ora alle autorità e provare a invertire l’opinione dei tedeschi circa l’efficienza delle misure e, soprattutto, ripulire il Paese.
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di Michele Paris
La storica visita in Myanmar del Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, è iniziata ieri con l’arrivo della ex first lady a Naypyidaw, la remota capitale della ex Birmania. La visita era stata annunciata dallo stesso presidente Obama un paio di settimane fa nel corso della conferenza dell’Associazione dei Paesi del Sud Est Asiatico (ASEAN) a Bali, in Indonesia, e segna un ulteriore passo avanti nella strategia statunitense volta a rafforzare il proprio impegno in Asia orientale per contrastare l’espansionismo cinese.
Quella di Hillary è la prima visita in questo paese di un diplomatico americano di così alto livello da 56 anni a questa parte, dopo quella di John Foster Dulles nel 1955 sotto l’amministrazione Eisenhower. Il Segretario di Stato ha già tenuto un vertice con il presidente birmano, Thein Sein, e con il ministro degli Esteri, Wunna Maung Lwin, per poi incontrare venerdì a Yangon l’icona dell’opposizione, Aung San Suu Kyi.
Hillary Clinton è giunta in Myanmar dopo aver partecipato a una conferenza in Corea del Sud, dove ha discusso con i giornalisti alcuni dei contenuti della visita. Riferendosi alla frase pronunciata recentemente in Indonesia da Obama, il quale ha affermato di vedere segnali di speranza in Myanmar, Hillary si è augurata che questi segnali possano trasformarsi in un vero cambiamento di cui possa godere tutta la popolazione.
Il Segretario di Stato ha poi detto di voler verificare le reali intenzioni dei leader birmani circa le riforme in corso da qualche tempo, sia in ambito politico che economico. Sua intenzione, infine, è quella di chiedere la liberazione di tutti i prigionieri politici e di porre fine ai conflitti con le minoranze etniche che hanno costretto centinaia di migliaia di profughi a lasciare il paese.
Fuori dai discorsi ufficiali dovrebbe rimanere invece la questione delle sanzioni economiche che tuttora pesano sul Myanmar e adottate dagli Stati Uniti e dai loro alleati in Europa dopo le repressioni del 1988 e del 2007. Per la rimozione delle sanzioni sarà necessario un voto del Congresso di Washington, da dove alcuni falchi repubblicani hanno già criticato il viaggio di Hillary Clinton.
Al superamento delle sanzioni puntano però ampi settori delle élite economiche americane. Uno dei punti centrali della trasferta in Myanmar di Hillary, anche se non troppo propagandato, è precisamente l’apertura del paese ai capitali americani. Molto esplicito a questo proposito è stato un articolo di martedì del Wall Street Journal, nel quale viene citato un dirigente di Caterpillar in Asia sud-orientale che afferma come i 700 membri della Camera di Commercio americana a Singapore siano già pronti a lanciarsi sul Myanmar, dove sarebbero in gioco grandi interessi in qualsiasi segmento d’affari.
Un altro manager americano di base a Singapore - l’amministratore delegato della compagnia tecnologica Arrow Technologies - conferma poi come i vertici di molte compagnie stiano solo “attendendo il semaforo verde” per il Myanmar e per questo si “aspettano molto da Hillary”. Molti giornali in questi giorni raccontano d’altra parte di come gli hotel delle principali città del paese siano affollati da uomini d’affari americani pronti a valutare occasioni di investimento in attesa della definitiva eliminazione delle sanzioni economiche.
Il processo di riconciliazione tra gli Stati Uniti e il Myanmar sta causando più di un grattacapo in Cina, tuttora il principale partner commerciale di Naypyidaw. Da alcuni ambienti cinesi sono giunte in questi giorni reazioni piccate al viaggio di Hillary Clinton. Un editoriale del Global Times, ad esempio, pur concedendo che “la Cina non intende opporre resistenza al tentativo del Myanmar di migliorare i propri rapporti con l’Occidente”, ammonisce che “non saranno accettate iniziative che possano danneggiare gli interessi” di Pechino.
In risposta all’intraprendenza americana, inoltre, due giorni prima dell’approdo del Segretario di Stato USA in Myanmar, la Cina ha ospitato il Capo di Stato Maggiore dell’esercito del vicino meridionale, generale Min Aung Hlaing. Quest’ultimo ha avuto un faccia a faccia sia con il vice-presidente Xi Jinping che con il suo omologo cinese, generale Chen Bingde, i quali hanno ribadito la necessità di continuare a sviluppare i rapporti bilaterali tra i due paesi.
Per la Cina il Myanmar ricopre un’importanza fondamentale per svariati motivi. Tanto per cominciare, Pechino è impegnata nella costruzione di gasdotti e oleodotti che permetterebbero di evitare le rotte marittime sud-orientali esposte alle possibili ritorsioni americane. L’ascendente cinese sul Myanmar è importante anche per la conservazione della stabilità nelle regioni di confine dove operano gruppi ribelli affiliati alle varie minoranze etniche.
Più in generale, l’influenza soprattutto economica esercitata dalla Cina sui paesi del sud-est asiatico è alla base della nuova strategia americana in quest’area cruciale del pianeta. Il recente viaggio di Obama ha incluso infatti molte iniziative adottate in funzione anti-cinese, come l’annuncio di inviare un contingente di soldati in Australia o la conferma di voler di “mediare” le rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale tra Pechino e i vicini meridionali.
La volontà di riavvicinamento di Washington al Myanmar è in ogni caso ricambiata dal regime. Proprio in seguito ad un riallineamento dei propri obiettivi strategici, dopo le elezioni del dicembre 2010 che hanno trasferito il potere dai militari a un governo nominalmente civile, il Myanmar ha intrapreso alcune riforme “democratiche”. Tra di esse spiccano la liberazione di un certo numero di detenuti politici, l’allentamento della censura, la legalizzazione dei sindacati ed altre riforme volte a liberalizzare l’economia.
In particolare, nel processo di avvicinamento all’Occidente sta giocando un ruolo chiave il rapporto del regime con Aung San Suu Kyi, con la quale non a caso Obama ha avuto una conversazione telefonica nel corso della sua trasferta asiatica. La liberazione del premio Nobel per la pace e il suo reintegro nella politica birmana era infatti una delle condizioni richieste per ristabilire i rapporti con gli USA. A sancire il disgelo, Aung San Suu Kyi ha da poco confermato che il suo partito, la Lega Nazionale per la Democrazia, prenderà parte ad una serie di elezioni speciali in programma a breve.
Legittimando così il regime e facendo da tramite tra esso e l’Occidente in vista della rimozione definitiva delle sanzioni economiche, Aung San Suu Kyi ha in sostanza confermato di rappresentare non tanto la maggioranza della popolazione birmana oppressa, quanto piuttosto quegli strati della borghesia locale desiderosi di aprire il paese ai capitali esteri.
La svolta di Washington nei confronti del Myanmar è coincisa con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca e con la revisione complessiva della strategia americana in Asia orientale. Durante la precedente amministrazione, a prevalere era invece un atteggiamento di chiusura pressoché totale. Se a ciò si aggiungono le risorse e le attenzioni che George W. Bush ha riservato all’Iraq e all’Afghanistan, è facile comprendere come gli USA abbiano lasciato per anni via libera all’espansione cinese in quest’area che oggi è tornata al centro dell’attenzione americana.
In definitiva, ufficialmente l’amministrazione Obama sta cercando di inquadrare il tentativo di dialogo con il Myanmar nei consueti termini della promozione della democrazia. Come dimostra ampiamente la politica estera americana, tuttavia, gli scrupoli democratici di Washington riguardo questo paese appaiono ancora una volta a esclusivo consumo dell’opinione pubblica internazionale. Ci che conta nel cambio di rotta epocale nei rapporti degli Stati Uniti con Naypyidaw sono esclusivamente i loro interessi strategici ed economici, i quali implicano necessariamente il contenimento della Cina, nonostante le ripetute smentite della Casa Bianca.
Da parte del nuovo governo birmano, invece, la decisione di svincolarsi dall’ingombrante vicino settentrionale (oltre a trarre origine da rapporti tradizionalmente complicati) è legata a molteplici fattori. L’accesso limitato ai mercati e agli investimenti occidentali, a causa delle sanzioni, ha ad esempio un impatto sempre più negativo sull’economia locale, nonostante i progetti per lo sviluppo di infrastrutture e lo sfruttamento delle risorse naturali portati avanti con la Cina.
Tutt’altro che da escludere è poi anche il timore di un possibile contagio delle proteste esplose nel mondo arabo. Per un regime che ha più volte dovuto reprimere duramente il dissenso interno, la minaccia di una nuova rivolta da affrontare con un black-out dei rapporti con l’Occidente e con un’imponente presenza militare americana nelle vicinanze è verosimilmente apparsa troppo rischiosa.
In questa prospettiva, le liberalizzazioni messe in atto dal governo del Myanmar non sembrano tanto l’iniziativa di una cerchia di leader “riformisti”, le cui aperture sarebbero minacciate dai falchi della vecchia guardia, come pretendono quasi tutti i giornali occidentali. Come ha scritto qualche giorno fa la testata on-line Asia Times, la svolta del regime, suggellata dalla visita di Hillary Clinton, appare piuttosto il risultato di una strategia condivisa dalle élite politiche e militari, ben poco interessate alla democrazia o ai diritti umani se non come strumento per sciogliere il paese da quello che stava diventando un rapporto di eccessiva dipendenza dalla Cina e che poteva minacciare, a lungo termine, la sopravvivenza stessa del paese.
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di Michele Paris
Nella Repubblica Democratica del Congo, lunedì ha avuto inizio il secondo voto ufficialmente democratico nella travagliata storia del paese centro-africano. I 32 milioni di elettori registrati si sono recati alle urne tra violenze, intimidazioni e accuse di brogli per scegliere i membri del nuovo Parlamento e, soprattutto, il prossimo Presidente, una carica contesa tra Joseph Kabila (in carica dal 2001) e il principale esponente dell’opposizione, il veterano Étienne Tshisekedi.
Il primo voto organizzato interamente dal governo locale senza l’aiuto della comunità internazionale ha fatto registrare da subito una serie infinita di difficoltà. Oltre agli svariati assassini tra le varie fazioni alla vigilia dell’appuntamento elettorale, lunedì in molti seggi sono emersi innumerevoli problemi logistici, come la mancanza di schede o l’assenza di nomi di elettori dai registri ufficiali.
Alla luce delle difficoltà riscontrate quasi ovunque nel paese, la commissione elettorale del Congo ha alla fine deciso di prolungare le operazioni di voto nella giornata di martedì. I risultati finali sono attesi non prima della prossima settimana, visti anche i tempi necessari per il trasferimento delle schede elettorali dalle località più remote alla capitale, Kinshasa, in un paese che dispone di una rete stradale a dir poco disastrata.
Nelle settimane che hanno preceduto il voto, le violenze sono state attribuite soprattutto alle forze di sicurezza del presidente Kabila, le quali si sono rese protagoniste di arresti e torture nei confronti dei sostenitori dell’opposizione. Uno degli episodi più gravi fin qui registrati durante il voto è avvenuto invece a Lubumbashi, capitale della provincia meridionale di Katanga al confine con lo Zambia. Secondo quanto riferito dal Ministero degli Interni, in questa città, ritenuta una delle più prospere e pacifiche del Congo, un gruppo di ribelli mascherati avrebbe attaccato un seggio e un mezzo che trasportava materiale elettorale, causando la morte di cinque persone nel conseguente scontro a fuoco con polizia.
Inoltre, nella provincia del Kasai occidentale, baluardo dell’opposizione, alcuni attivisti hanno dato fuoco a decine si seggi, mentre a est, nel Nord-Kivu, ufficiali dell’esercito sarebbero andati di villaggio in villaggio intimando ai residenti di votare per il presidente Kabila.
I timori più diffusi per la possibile esplosione di nuove violenze riguardano in ogni caso il probabile esito incerto della corsa alla presidenza. Degli undici candidati alla guida del paese, gli unici due con concrete possibilità di successo sono appunto Kabila e Tshisekedi. Quest’ultimo, oppositore storico del deposto dittatore Mobutu Sese Seko e tre volte primo ministro tra il 1991 e il 1997, si é infatti già autoproclamato vincitore delle elezioni, minacciando di far scendere per le strade i suoi sostenitori se i risultati ufficiali non dovessero premiarlo.
Il quasi 79enne Étienne Tshisekedi risulta molto popolare a Kinshasa ed è il leader del gruppo etnico Luba, uno dei più numerosi del paese. Pur essendo in assoluto il politico di opposizione più conosciuto, le divisioni sul fronte anti-Kabila potrebbero penalizzarlo. Il 40enne presidente in carica, oltretutto, è favorito da una modifica costituzionale che ha fatto approvare recentemente e che ha soppresso il secondo turno di ballottaggio nelle elezioni presidenziali. Eventuali dispute, inoltre, saranno decise da una commissione elettorale affollata da membri fedeli a Kabila e guidata dall’amico personale del presidente, Daniel Ngoy Mulunda.
Pur essendo favorito, per molti osservatori Kabila potrebbe essere costretto a far ricorso a brogli elettorali per rimanere in sella. Nel voto del 2006 fu decisivo per il suo successo l’appoggio delle regioni orientali del paese, dove oggi deve invece far fronte alla candidatura autorevole di Vital Kamerhe, ex speaker dell’Assemblea Nazionale e già ministro dell’Informazione. Joseph Kabila è al potere in Congo da quasi undici anni, da quando cioè è succeduto al padre, Laurent-Désiré Kabila, protagonista della deposizione di Mobutu Sese Seko nel 1997 e assassinato nel gennaio del 2001.
I problemi legati ad un voto caotico e dalla più che dubbia regolarità sono comunque molteplici, a cominciare dalla quantità dei candidati. In corsa per i 500 seggi della camera bassa (Assemblea Nazionale) ci sono addirittura 18 mila candidati, mentre in un solo distretto elettorale sono in corsa 1.400 candidati per un singolo seggio.
Inoltre, la legittimità di molti candidati solleva perplessità. In un distretto nella parte orientale del paese, ad esempio, il comandante Ntabo Ntaberi Sheka è alla ricerca di un seggio nel Parlamento nonostante nei suoi confronti il governo centrale abbia emesso un mandato di arresto. Sheka è a capo della milizia paramilitare Mai Mai che nel luglio dello scorso anno commise centinaia di stupri durante un blitz in alcuni villaggi nella stessa area dove ora è candidato.
Secondo quanto riportato dalla testata americana The Christian Science Monitor, l’esito del voto potrebbe avere conseguenze molto gravi sulla stessa integrità nazionale della Repubblica Democratica del Congo. In particolare, in caso di mancata rielezione di Joseph Kabila, le province orientali di Nord e Sud-Kivu sarebbero pronte a dichiarare la secessione. Qui opera il Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP), una milizia armata Tutsi sostenuta dal governo ruandese che nel 2009 aveva siglato un accordo di pace con Kabila, trasformandosi in un partito politico e integrando i suoi membri nell’esercito regolare.
Il CNDP ha fornito tutto il suo appoggio alla candidatura di Kabila, per il quale ha svolto un’aggressiva campagna elettorale, e una sua eventuale sconfitta potrebbe far riesplodere le tensioni nell’area più precaria del paese. Soprattutto, il CNDP teme un successo di Tshisekedi, il quale recentemente ha affermato che, nel caso fosse eletto presidente, procederebbe a cacciare dal Congo tutti i ruandesi e i loro simpatizzanti, riferendosi precisamente a Kabila e al CNDP stesso.
Dopo il periodo coloniale belga, il Congo (ex Zaire) è stato sottoposto a 31 anni di durissima dittatura sotto Mobutu Sese Seko, deposto solo nel 1997 dalle forze ribelli appoggiate dagli eserciti dei vicini Ruanda, Burundi e Uganda. Da allora il paese, ribattezzato Repubblica Democratica del Congo, è sprofondato nelle violenze di due guerre civili che hanno fatto più di un milione di vittime. La situazione nel paese è tuttora drammatica, soprattutto nelle province orientali, dove continuano ad imperversare svariati gruppi paramilitari.
Tutto questo nonostante il Congo sia uno dei paesi con le maggiori ricchezze naturali del continente africano, con vaste riserve di diamanti, oro, cobalto, rame, petrolio e legname. I benefici di queste risorse, tuttavia, sono andati puntualmente ad una ristretta élite di potere, mentre la gran parte della popolazione è costretta a vivere in estrema povertà, come conferma l’ultimo posto occupato dal Congo nella classifica stilata dall’ONU sull’indice di sviluppo umano di 187 paesi.
Il Congo, infine, ha anche una enorme importanza strategica per l’intera regione centro-africana. L’eventuale instabilità in cui il voto di questi giorni potrebbe far ripiombare il paese potrebbe infatti avere conseguenze pericolose su molti dei nove stati con i quali confina, come i fatti del recente passato hanno già ampiamente dimostrato.
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di Michele Paris
Venerdì scorso in Marocco si sono tenute le prime elezioni dopo l’approvazione delle timide riforme costituzionali promosse dal sovrano, Mohammed VI, in risposta alle proteste di piazza che dall’inizio dell’anno stanno interessando anche questo paese nordafricano. A conquistare la maggioranza relativa è stato il partito islamista moderato Giustizia e Sviluppo (PJD) il quale, nonostante la necessità di fare affidamento su altre formazioni politiche per la creazione del nuovo governo, potrà per la prima volta indicare il nome del prossimo primo ministro.
Quello del PJD in Marocco è il secondo successo elettorale in poche settimane ottenuto da un partito d’ispirazione islamica, sia pure moderata, dopo l’affermazione di Ennahda in Tunisia, mentre precede la probabile vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto, dove la prima fase del discusso processo di transizione ha preso il via con il voto di lunedì.
Secondo i risultati definitivi annunciati dal governo, il PJD ha conquistato 107 seggi sui 395 complessivi del parlamento marocchino, vale a dire più del doppio della sua attuale rappresentanza (46). Come stabilito dalle recenti modifiche costituzionali, il nuovo premier verrà scelto dalle fila del partito con il maggior numero di seggi che procederà poi a formare la coalizione di governo. Candidato alla carica di primo ministro è il segretario del partito, Abdelilah Benkirane, il quale dovrebbe diventare non solo il primo capo di governo marocchino espressione di una consultazione popolare, ma anche il primo appartenente ad un partito islamista. Fino ad ora, il sovrano aveva facoltà di indicare un primo ministro di sua scelta e l’incarico era perciò sempre stato assegnato ad un esponente dei partiti che tradizionalmente orbitano attorno alla corte alauita.
Non avendo raggiunto la maggioranza assoluta nel nuovo parlamento, il PJD dovrà trovare dei partner di coalizione. Molto probabile appare un accordo con l’attuale formazione di governo, il partito nazionalista conservatore Istiqlal (Indipendenza). Quest’ultimo, storico partito della monarchia marocchina, ha ottenuto 60 seggi (+ 8 rispetto al 2007) e l’attuale premier, Abbas El Fassi, nella giornata di sabato ha già confermato di essere pronto ad entrare in un governo di coalizione con Giustizia e Sviluppo. Al terzo posto, con 52 seggi (+ 13), si è posizionato poi un altro raggruppamento vicino al sovrano, l’Unione Nazionale degli Indipendenti (RNI) di centro-destra, guidato dal Ministro delle Finanze in carica, Salaheddine Mezouar.
Come nel resto del mondo arabo, anche in Marocco a inizio anno avevano cominciato a diffondersi proteste popolari che chiedevano una democratizzazione del sistema, monopolizzato dall’istituzione monarchica. Qui, tuttavia, le manifestazioni sono sempre state relativamente contenute e non si sono verificati gravi episodi di violenza come in altri paesi. In risposta alle richieste avanzate principalmente dal Movimento 20 Febbraio, Mohammed VI si era comunque mostrato disponibile a rinunciare ad alcune prerogative reali e a lanciare riforme di facciata.
Un’apposita commissione da lui istituita aveva così studiato una serie di riforme costituzionali che sono state poi approvate a larga maggioranza tramite un referendum popolare nel mese di luglio. In base alle nuove misure, il sovrano è stato privato del potere di controllo sul sistema giudiziario, ma anche, come già anticipato, di scegliere il primo ministro senza tenere conto dei risultati elettorali e di sciogliere il parlamento. Queste e altre modifiche, tuttavia, hanno mantenuto sostanzialmente immutata la struttura del potere in Marocco, dove la monarchia continua ad avere un ruolo centrale. Il re conserva, infatti, tutto il proprio potere decisionale, ad esempio sulle questioni religiose, sulla politica estera e in materia di sicurezza e difesa.
Mohammed VI era salito al trono nel 1999 in seguito alla morte del padre, Hassan II, e viene generalmente considerato in Occidente come un riformatore che ha relativamente aperto la società marocchina e limitato gli abusi dei diritti umani nel paese. Nonostante una serie di misure di impatto limitato, il Marocco in questi dodici anni non ha in realtà evidenziato progressi democratici significativi, come confermano le persistenti detenzioni per motivi politici e le distorsioni seguite alla partnership con Washington nell’ambito della cosiddetta guerra al terrore.
La risposta della maggioranza della popolazione marocchina ai presunti cambiamenti del panorama politico marocchino negli ultimi mesi è sembrata in ogni caso piuttosto tiepida. L’affluenza alle urne ha fatto segnare qualche progresso dalle ultime elezioni nel 2007, passando dal 37 al 45,4 per cento. Il dato di venerdì è però nettamente inferiore rispetto al 2002, quando votò il 51,6 per cento degli elettori registrati. Oltre alla disillusione per un sistema in gran parte identico al recente passato, sul numero dei votanti ha influito anche l’appello all’astensione del Movimento 20 Febbraio, che ritiene inadeguate le riforme di Mohammed VI e continua a chiedere una monarchia costituzionale sul modello britannico.
Il partito Giustizia e Sviluppo si ispira all’omonimo partito di governo turco e promuove un Islam moderato. Nel corso della campagna elettorale appena conclusa sono stati pressoché totalmente tralasciate le questioni religiose, per puntare piuttosto sulle emergenze economiche e sociali degli strati più disagiati della popolazione. Come Ennahda in Tunisia, d’altra parte, anche il PJD intende dare un’immagine rassicurante di sé come prossima forza di governo, così da non inimicarsi i partner occidentali del Marocco.
Il PJD, oltretutto, appoggia la casa reale, al contrario di al-Adl Wal Ihsane (Giustizia e Carità), un altro movimento islamista di massa, ufficialmente illegale anche se tollerato dal governo, che ha partecipato alle proteste di piazza promosse dal Movimento 20 Febbraio e, come quest’ultimo, ha insistito per il boicottaggio delle elezioni. Il successo del PJD conferma comunque il discredito dei partiti vicini al sovrano o nominalmente di opposizione. In mancanza di valide alternative, la maggioranza dei marocchini che si sono recati alle urne ha scelto di votare per gli islamisti moderati, i cui appelli populisti hanno avuto un certo successo tra le classi medie e quelle più povere.
Nonostante alcune agenzie di stampa abbiano scritto di insolite apparizioni sulle TV locali di giornaliste marocchine con l’hijab all’indomani del voto, è improbabile che la vittoria del PJD possa produrre una svolta in senso islamista o anti-occidentale in Marocco. A confermarlo sono stati, tra l’altro, i commenti positivi dei governi di Francia e Stati Uniti. Da Parigi, il Ministro degli Esteri, Alain Juppé, ha affermato che “il risultato del voto va rispettato” e che a suo parere il PJD “ha posizioni moderate”. Da Washington, invece, il Segretario di Stato, Hillary Clinton, si è congratulata per il “successo delle elezioni”, ricordando che i leader scelti dal voto “non saranno giudicati soltanto da quello che dicono ma anche da quello che fanno”. A cominciare dalla disponibilità a continuare ad assecondare gli interessi americani, ovvio.
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di Michele Paris
Scaduto l’ennesimo ultimatum contro il governo di Bashar al-Assad, la Lega Araba ha dato il via libera domenica ad una serie di sanzioni che dovrebbero convincere la Siria a fermare la repressione delle proteste in corso nel paese da oltre otto mesi. La risoluzione approvata al Cairo, la cui efficacia sarà tutta da verificare, segna un ulteriore passo verso un possibile intervento esterno nella crisi siriana, obiettivo a cui puntano sempre più apertamente gli Stati Uniti e le potenze regionali del Medio Oriente per rovesciare il regime di Damasco.
La nuova scadenza per l’accettazione del piano proposto dalla Lega Araba era fissata a venerdì. Il giorno successivo, in assenza di una risposta positiva dalla Siria, la Lega Araba ha rispolverato una bozza di sanzioni sulla quale si era già accordata qualche giorno prima, senza la delegazione di Damasco, durante un summit nella capitale marocchina, Rabat. Come ampiamente previsto, ieri è arrivato infine il voto decisivo da parte dei ministri degli Esteri riunti al Cairo con 19 favorevoli e due astensioni (Iraq e Libano).
Secondo le richieste della Lega Araba, la Siria avrebbe dovuto accettare l’ingresso nel paese di osservatori internazionali, ritirare le forze di sicurezza dalle città interessate dagli scontri e aprire immediatamente un dialogo con l’opposizione. In presenza di gruppi armati sempre più attivi negli ultimi mesi contro le forze del regime, l’accettazione delle condizioni della Lega Araba da parte di Damasco senza vincoli per l’opposizione avrebbe tuttavia rappresentato un vero e proprio suicidio per il governo. Da qui il previsto - e verosimilmente desiderato - rifiuto ad adeguarsi da parte di Assad.
Le sanzioni appena approvate al Cairo comprendono lo stop a tutti i rapporti d’affari con la Banca Centrale siriana, la sospensione dei voli commerciali, il divieto di espatrio tramite gli aeroporti dei paesi arabi per alcuni esponenti di spicco del regime, il congelamento dei beni siriani negli stessi paesi arabi e il ritiro degli investimenti di questi ultimi in Siria.
In linea teorica, queste misure dovrebbero avere effetti molto pesanti, dal momento che la metà delle esportazioni siriane sono destinate proprio ai paesi arabi, così come da essi Damasco riceve almeno un quarto delle proprie importazioni. I meccanismi d’implementazione delle sanzioni imposte dalla Lega Araba non sono però del tutto chiari e, soprattutto, non tutti i paesi dell’organizzazione appoggiano l’iniziativa. Libano e Iraq, ad esempio, hanno già fatto sapere di non essere intenzionati a rendere effettive le sanzioni.
La risposta alla nuova iniziativa della Lega Araba è stata accolta duramente a Damasco. Il Ministro degli Esteri, Walid al-Muallem, ha indirizzato una lettera all’organizzazione panaraba, accusandola di voler “internazionalizzare” il conflitto in Siria. Muallem ha inoltre sollevato una serie di questioni relativamente alla proposta della Lega, tra cui il mancato accoglimento della richiesta del regime di coordinare con le autorità locali l’attività degli osservatori e l’assenza di qualsiasi riferimento alla necessità di fermare le violenze di cui si è resa protagonista l’opposizione.
Quest’ultimo punto risulta particolarmente significativo e dimostra le reali intenzioni della Lega Araba, o meglio delle autocrazie del Golfo che stanno coordinando la campagna anti-siriana al suo interno. La Lega infatti non intende fare alcun appello all’opposizione armata al regime di Assad - rappresentata principalmente dal cosiddetto Esercito Libero della Siria e da gruppi estremisti salafiti - perché a finanziarla e sostenerla sono precisamente paesi come Arabia Saudita, Qatar e la fazione sunnita in Libano vicina all’ex premier Saad Hariri.
Le sanzioni della Lega Araba fanno seguito a quelle già adottata unilateralmente da Stati Uniti e Unione Europea e che prendono di mira anche il settore petrolifero siriano. Altre manovre sono già in corso per aumentare le pressioni sul governo di Assad. La Francia, ad esempio, ha proposto la creazione di “corridoi umanitari” per far giungere cibo e medicinali ai civili isolati dalle operazioni militari. Questa iniziativa sarebbe un evidente pretesto per giustificare un qualche intervento armato in Siria, come ha confermato il Ministro degli Esteri di Parigi, Alain Juppé, secondo il quale i convogli destinati ai civili necessiterebbero appunto di protezione militare. La Turchia, a sua volta, dopo l’invito a lasciare fatto recentemente dal premier Erdogan ad Assad, ha confermato di aver predisposto delle proprie sanzioni, che verranno implementate di comune accordo con quelle della Lega Araba.
La campagna internazionale contro la Siria verrà poi ulteriormente rinvigorita questa settimana, in seguito alla prevista pubblicazione di un rapporto stilato da una commissione “indipendente”, sponsorizzata dall’ONU e incaricata di investigare sulle forze armate siriane, accusate di aver commesso crimini contro l’umanità. Giovedì scorso, peraltro, pochi giorni dopo la sospensione di Damasco dalla Lega Araba, la commissione per i diritti umani dell’Assemblea Generale dell’ONU aveva già votato a maggioranza per condannare la repressione in Siria.
Che le violenze nel paese siano ormai commesse da entrambe le parti è confermato dai quotidiani resoconti delle vittime. Nel fine settimana appena trascorso le autorità siriane hanno dato ampio spazio ai funerali di 22 membri delle forze armate uccisi in vari attacchi dell’opposizione. Secondo quanto riferito da alcuni attivisti, nella sola giornata di sabato sono state 16 le vittime civili nella sola provincia di Homs, mentre l’Osservatorio sui Diritti Umani in Siria - di stanza in Inghilterra - ha ammesso che nella parte orientale del paese i disertori dell’esercito hanno ucciso 10 soldati.
Gli sviluppi più recenti della crisi siriana, in definitiva, sono la conseguenza delle trame orchestrate in questi mesi dalle potenze occidentali e regionali, a cominciare da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Arabia Saudita, Turchia e Qatar. Questi governi - come già accaduto in Libia - hanno sfruttato l’esplosione più che legittima del malcontento diffuso tra la popolazione siriana nei confronti del governo di Assad per promuovere un cambio di regime inteso principalmente a colpire e isolare il nemico numero uno in Medio Oriente, l’Iran, e di riflesso anche Russia e Cina.
Per raggiungere questo obiettivo, così, viene fornito appoggio ad un’opposizione in buona parte screditata e ben poco rappresentativa della popolazione siriana, legittimandola agli occhi della comunità internazionale anche grazie ad una incessante campagna di stampa. L’opposizione “ufficiale” al regime di Assad è rappresentata dal Consiglio Nazionale Siriano - composto da dissidenti filo-americani riuniti sotto la Dichiarazione di Damasco e dai Fratelli Musulmani - e dal già ricordato Esercito Libero della Siria, che ha istituito le proprie basi oltre confine, in Turchia e in Libano.
Per gli Stati Uniti e i loro alleati in Europa e nel mondo arabo, rimuovere Assad significherebbe assestare un colpo mortale all’Iran, scardinando l’arco sciita in Medio Oriente che, oltre a Teheran, comprende appunto l’alleato siriano ed Hezbollah, in Libano. A questo piano hanno dato il loro assenso anche Turchia e Israele, nonostante Ankara nel recente passato avesse instaurato rapporti economici e diplomatici piuttosto intesi con Damasco e Tel Aviv vedesse Assad sì come un nemico, ma tutto sommato affidabile e garante di una certa stabilità.
L’atteggiamento sempre più aggressivo dell’Occidente e della Lega Araba nei confronti della Siria rischia allora di infiammare l’intera regione. La minaccia sempre più concreta della caduta di Bashar al-Assad trascinerebbe infatti nel conflitto con ogni probabilità non solo l’Iran e gli sciiti libanesi ma, in qualche modo, anche una Russia che, con la fine dell’alleato a Damasco, vedrebbe a rischio i propri interessi in Medio Oriente e che, non a caso, continua a insistere per una soluzione negoziata alla crisi siriana.