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di Michele Paris
Martedì negli Stati Uniti si è tenuto l’ultimo election day prima del voto per le presidenziali del 2012. I (pochi) elettori americani presentatisi alle urne sono stati chiamati a scegliere sindaci, governatori, membri di assemblee locali e ad esprimersi su una serie di quesiti referendari. A meno di due mesi dall’inizio delle primarie per la Casa Bianca, il voto di martedì era visto da molti come un importante test sullo stato di salute dei due principali partiti e sugli umori dell’opinione pubblica in un periodo di grave crisi economica e sociale.
Tra gli appuntamenti più seguiti c’era un referendum indetto nello stato dell’Ohio, dove si decideva la sorte della legge n. 5 del Senato, firmata dal governatore repubblicano John Kasich lo scorso mese di marzo tra le proteste di migliaia di persone. Il discusso provvedimento prevedeva la drastica restrizione dei diritti sindacali dei lavoratori del settore pubblico. Oltre a limitare seriamente la possibilità di scioperare e di contrattare su alcune questioni contrattuali, la legge n. 5 chiedeva agli stessi dipendenti pubblici, assieme ad altri sacrifici, di pagare una quota maggiore rispetto a quella attuale per il finanziamento dei loro piani sanitari e pensionistici.
La legge - simile ad altre approvate in stati come Wisconsin e Indiana - è stata bocciata dagli elettori dell’Ohio con una maggioranza schiacciante (62 per cento). Il risultato ha inflitto una sonora sconfitta ai repubblicani e alla loro crociata per cancellare i diritti residui dei lavoratori come rimedio alle ristrettezze di bilancio causate dalla crisi del debito.
Questo referendum era stato promosso in particolare dai sindacati e dal Partito Democratico, nonostante a Washington e in altri stati dove questi ultimi governano siano state adottate senza troppi scrupoli iniziative simili che tendono a peggiorare gli standard di vita di lavoratori e pensionati.
L’Ohio rappresenta in ogni caso un barometro importante in vista delle presidenziali del prossimo anno, in quanto è uno stato perennemente in bilico tra i due partiti (“swing state”) e premia quasi sempre il candidato destinato ad entrare alla Casa Bianca. Secondo alcuni, la bocciatura della legge repubblicana sarebbe un segno positivo per i democratici, dal momento che la struttura organizzativa che lavora per la rielezione di Obama ha avuto un ruolo di spicco nella campagna elettorale per il referendum.
In realtà, l’avversione generalizzata nei confronti della legge anti-sindacale non dovrebbe tradursi necessariamente in un sostegno per il partito del presidente, come dimostra il fatto che sempre martedì, in un altro quesito referendario poco più che simbolico, gli elettori hanno approvato l’esenzione per gli abitanti dell’Ohio dall’obbligo di stipulare un’assicurazione sanitaria, come previsto dalla riforma di Obama approvata dal Congresso nel marzo 2010.
Un altro voto dalle vaste implicazioni era quello del Mississippi, dove era sottoposta a referendum una proposta per modificare la costituzione dello stato inserendo una clausola che di fatto avrebbe messo fuori legge l’interruzione di gravidanza. A sorpresa, gli elettori di uno degli stati più conservatori degli Stati Uniti si sono espressi contro un emendamento che intendeva dare lo status legale di “persona” all’embrione fin dal momento del concepimento, rendendo illegale l’aborto - anche in caso di stupro, incesto o pericolo di vita per la madre - così come la fertilizzazione in vitro, la pillola del giorno dopo e alcune forme di contraccezione.
I sostenitori della modifica alla costituzione del Mississippi in senso anti-abortista - già allo studio anche in altri stati - speravano che una vittoria martedì avrebbe rappresentato un trampolino di lancio per ottenere finalmente dalla Corte Suprema degli Stati Uniti la revisione della sentenza del 1973 (“Roe contro Wade”) che ha fissato il diritto all’aborto a livello federale.
In molte città importanti si è votato poi per la scelta del sindaco. Smentendo la tendenza degli ultimi tempi a punire i politici in carica, numerosi primi cittadini uscenti sono stati riconfermati, come i democratici Michael Nutter e Stephanie Rawlings-Blake - rispettivamente a Philadelphia e a Baltimora - o il repubblicano Greg Ballard a Indianapolis. Successi democratici sono stati registrati anche a Phoenix, in Arizona, e a San Francisco, dove Edwin Lee - già sindaco ad interim, subentrato l’anno scorso a Gavin Newsom, a sua volta eletto vice-governatore della California - è diventato il primo sindaco di origine cinese scelto dagli elettori per guidare una metropoli americana.
Due erano invece le competizioni per scegliere altrettanti governatori, carica particolarmente importante in vista del 2012 poiché in grado di influire sull’efficacia delle campagne elettorali per le presidenziali. In Kentucky, malgrado le difficoltà che sta attraversando lo stato, è stato rieletto il democratico Steve Beshear, mentre in Mississippi il repubblicano Phil Bryant succede al governatore uscente Haley Barbour, anch’egli repubblicano e giunto alla fine del secondo e ultimo mandato consentito dalla legge.
Delicata era anche la tornata elettorale per il parlamento locale della Virginia, stato a tendenza repubblicana dove Obama aveva trionfato nel 2008. Qui l’anno scorso i repubblicani avevano conquistato la poltrona di governatore e speravano quest’anno di estendere al Senato statale la maggioranza che già detengono alla camera bassa. Lo sfondamento repubblicano non è però avvenuto. I risultati parziali indicano una situazione di stallo al Senato (20 seggi per ciascun partito), dove l’esito finale sarà deciso da una manciata di voti in un singolo distretto elettorale tuttora in bilico.
Tra i molti altri appuntamenti elettorali dell’election day 2011 vanno ricordati almeno quelli di Arizona, Iowa e New Jersey. Un’elezione speciale in Arizona ha rimosso dall’incarico il senatore statale repubblicano ed ex vice-sceriffo vicino ai Tea Party, Russell Pearce, principale artefice della durissima legge anti-immigrazione approvata l’anno scorso da questo stato degli Stati Uniti occidentali.
In Iowa, i repubblicani non sono riusciti a conquistare la maggioranza nel Senato locale per il quale era in palio un seggio. Il voto era fondamentale per far avanzare una proposta repubblicana sul bando dei matrimoni gay, resi legali in Iowa da una sentenza della Corte Suprema dello stato nell’aprile 2009. Nel New Jersey, infine, i due rami del parlamento statale sono rimasti in mano democratica, rendendo così vani gli sforzi del governatore Chris Christie, astro nascente del Partito Repubblicano, per ottenere un mandato ancora più forte per implementare tagli alla spesa e misure anti-sindacali.
La diversità geografiche e delle questioni su cui gli elettori si sono espressi rendono pressoché impossibile trarre una valutazione univoca dell’esito del voto di martedì negli USA. Analizzando alcune delle elezioni più importanti è forse possibile ipotizzare che gli americani recatisi alle urne, pur non esprimendo un chiaro sostegno alle ricette democratiche, hanno respinto alcune delle soluzioni più reazionarie alla crisi, come quelle propagandate dai repubblicani e dalle frange estreme rappresentate da organizzazioni come i Tea Party. A un anno dal voto per la Casa Bianca e con la situazione economica in peggioramento, è comunque difficile intravedere una qualche anticipazione di quello che sarà il comportamento degli elettori nel 2012.
Come al solito negli Stati Uniti, a dominare è stata più che altro la scarsissima affluenza, in molti casi ben lontana anche dal 30 per cento degli elettori registrati. Questo dato, accentuato dalla mancanza di un voto di rilevanza nazionale, testimonia così ancora una volta la sfiducia complessiva in un sistema politico che non rappresenta in nessun modo la grande maggioranza dei cittadini americani.
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di Mario Braconi
Il report della AIEA, attraverso le generose e non casuali anticipazioni, sembrerebbe confermare l’ennesimo fallimento delle intelligence USA. A differenza di quanto da esse sostenuto nel 2007, ovvero che dopo l’inizio della guerra in Iraq la Repubblica Islamica avrebbe cessato di lavorare ad un programma nucleare militare, quest’ultimo è proseguito regolarmente, anche se in modo non ufficiale.
Il rapporto riferirebbe che “diverse persone ed entità collegate con l’esercito (iraniano) si stanno procurando attrezzature nucleari destinabili ad uso tanto militare che civile”. Il regime iraniano tenterebbe di sviluppare metodologie non dichiarate per la produzione di materiale nucleare” e di acquisire informazioni e documentazioni per lo sviluppo di armi nuclerari attingendo ad un network clandestino”. L’Iran, infine, starebbe lavorando al progetto di un dispositivo interamente costruito “in casa”, effettuando anche test sui componenti”.
La “mente” dietro al rapporto è il diplomatico giapponese Yukiya Amano, che può contare su un curriculum significativo in tema di non proliferazione nucleare, ma la cui indipendenza è seriamente discutibile dopo la pubblicazione di un cable Wikileaks datato 16 ottobre 2009, ovvero qualche mese dopo la sua elezione al ruolo di Direttore generale della AIEA. Il documento “top secret” riferisce di un incontro che Amano ha avuto con l’ambasciatore americano, nel corso del quale ha ricordato più volte che, al di là delle necessarie concessioni ai paesi del G77, che gli richiedono di comportarsi in modo equo ed indipendente, Amano “si posiziona in modo inequivocabile dalla parte degli americani su tutte le questioni strategiche, a partire dalla nomina di funzionari di alto livello fino alla gestione del presunto programma nucleare militare iraniano”. Del resto, gli Stati Uniti e Israele si sono molto impegnati per ottenere la nomina di Amano a capo dell’Agenzia, facendo in modo che la soffiasse per un pelo al sudafricano Abdul Minty.
Come spiegano alcuni esperti di Medio Oriente, sentiti ieri dal sito israeliano YNews, il rapporto in realtà non contiene nulla di nuovo rispetto a quanto già noto alle intelligence occidentali. Spiega infatti il professor Motti Kendar, della Bar Ilan University: “I dati pubblicati nel report sono noti ai servizi da lungo tempo: la vera novità qui è che, per la prima volta, un ente specializzato indipendente vi appone sopra il suo sigillo”. Dell’indipendenza della AIEA sotto l’attuale leadership di Amano si è già detto sopra. Quanto alle informazioni rese note attraverso i leakage, specialmente quelli fatti trapelare al Washington Post, si tratta principalmente di una presentazione in PowerPoint di un ex ispettore dell’agenzia nucleare ONU, David Albright.
Da questo documento è possibile concludere che la Repubblica Islamica avrebbe superato una serie di importanti problematiche tecniche, che la avvicinerebbero alla conquista di una potenzialità offensiva nucleare (in inglese, “nuclear capability”). Il tutto anche grazie all’aiuto interessato di alcuni amici perfettamente compatibili con lo stereotipo del “cattivo” tipico di un film di James Bond: il fisico freelance russo Vyacheslav Danilenko, lo scienziato pachistano Abdul Qadeer Khan, e perfino qualche non meglio identificato personaggio proveniente da quella super-potenza di cartapesta che si chiama Corea del Nord. La Spectre, insomma.
Secondo Flynt Leverett, professore di Relazioni Internazionali alla Pennsylvania University, nonché capo dell’Iran Project della New America Foundation, la gran parte delle informazioni erano disponibili da anni all’AIEA: solo che il precedente capo, il compianto El Baradei, si sarebbe sempre rifiutato di renderle note, dal momento che non si sentiva in grado di sostenerle, né si sentiva sicuro della loro qualità e provenienza. Leverett, sul suo sito “Race for Iran”, fa notare che il Trattato di Non Proliferazione (TNP) impedisce il trasferimento, diretto o indiretto di qualsiasi arma nucleare o dispositivo bellico nucleare. Gli Stati firmatari s’impegnano a non fabbricare e/o acquisire in qualsiasi altro modo armi nucleari, e a non cercare aiuto esterno per la costruzione di dispositivi nucleari.
Ma il TNP parla chiaramente di “fabbricazione” e di “acquisizione” e, secondo Leverett, esso non vieterebbe lo studio di progetti di armi nucleari, la ricerca sugli inneschi, e nemmeno gli esperimenti su esplosivi ad alto potenziale che potrebbero essere teoricamente usati su una bomba atomica. El Baradei lo avrebbe spiegato a più riprese.
In una intervista del 2010 a Race for Iran, il sito animato da Leverett e dalla moglie, El Baradei inoltre avrebbe spiegato che “realizzare un potenziale offensivo nucleare è kosher secondo il TNP”. Altra cosa, ovviamente, sarebbe ottenere le prove di una effettiva costruzione di armi, cosa che sembrerebbe esclusa anche dalla semplice circostanza che la Repubblica Islamica non disporrebbe al momento di del materiale fissile per realizzare la Bomba.
Come spiega in modo vivace Simon Tindall sul Guardian di ieri, nonostante la scarsezza di informazioni in grado di rivoluzionare gli scenari internazionali, il rapporto della AIEA sta mettendo in fibrillazione i governi di tutto il mondo. A cominciare da quelli di Israele e dell’Arabia Saudita, i quali, per una volta uniti dalla comune avversione all’Iran, gettano benzina sul fuoco.
In modo netto, come accade in Israele, con il governo che cerca di farsi autorizzare un “attacco preventivo” sulle installazioni nucleari iraniane, o in modo più mediato, ma non meno violento, come in Arabia Saudita, dove va forte la tesi che vede l’Iran come causa di ogni male: finanziatore (sciita) di Hamas, di Hezbollah, della famiglia alawita al comando in Siria. Si può porre rimedio solo “mozzando la testa del serpente”: un modo come un altro per acquisire l’egemonia su tutta la regione.
Dalla Germania e dalla Russia giungono caveat preoccupati, mentre Tindall rispolvera un report del US Army War College del 2006, secondo cui occorrerebbero ben 1.000 attacchi preventivi in Iran per avere ragionevole certezza di sradicare “il serpente” virtuale che - forse - si aggira nel suo sottosuolo: cosa che potrebbe risultare nell’uso di… armi nucleari tattiche, certamente benefiche in quanto made in USA. Quando si dice che il veleno si cura con il veleno!
In questo contesto incandescente allarmano non poco le parole di due esperti americani, Jeffrey Goldberg e David Rothkopf, citati da Tindall, i quali non escludono che Obama possa essere risucchiato in questo isterico vortice bellico. Cosa che, oltre a mettere a rischio il futuro del mondo, finirebbe per mandare in fumo quel poco del sogno di cambiamento che il presidente Obama avrebbe voluto incarnare.
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di Michele Paris
Il giudizio che i leader delle principali potenze occidentali sembrano avere del loro alleato israeliano, il primo ministro Benjamin Netanyahu, non appare molto differente da quello condiviso dalla gran parte dell’opinione pubblica mondiale. Questo è ciò che si è appreso da una conversazione privata tra Sarkozy e Obama, ascoltata accidentalmente da una manciata di giornalisti francesi accorsi a Cannes in occasione del G-20. A rendere di pubblico dominio lo scambio di battute che avrebbe dovuto rimanere riservato tra i presidenti di Francia e Stati Uniti è stato il sito web transalpino Arrêt sur Images.
Giovedì scorso i due leader, al termine di una conferenza stampa congiunta nella località della Costa Azzurra, si sono ritirati in una stanza per un breve faccia a faccia lontano dai microfoni. Sicuri di non essere ascoltati, Sarkozy e Obama hanno così iniziato a parlare liberamente della questione israelo-palestinese.
I loro microfoni, però, erano rimasti aperti per errore e una mezza dozzina di giornalisti francesi, che indossava ancora le cuffie per la traduzione simultanea delle parole appena pronunciate da Obama, ha potuto seguire l’interessante colloquio tra i due presidenti.
Per cominciare, l’inquilino della Casa Bianca ha rimproverato Sarkozy per il recente voto favorevole della Francia sull’ammissione della Palestina all’UNESCO senza aver prima avvertito Washington. Da questo argomento, i due hanno sono poi passati a discutere del premier israeliano Netanyahu. A proposito di quest’ultimo, Sarkozy avrebbe rivelato a Obama: “Non lo posso più sopportare. È un bugiardo”.
Allo sfogo del numero uno dell’Eliseo, il presidente americano, con una certa dose di comprensione, ha risposto: “Tu non ne puoi più di lui, ma io devo averci a che fare tutti i giorni!”. Successivamente, Obama ha chiesto a Sarkozy di provare a convincere l’Autorità Palestinese a rallentare il passo sulla questione della richiesta di entrare a far parte delle Nazioni Unite, a cui gli USA si oppongono fermamente.
Questi commenti dei due leader non sono stati subito riportati dalla stampa d’oltralpe, poiché pare che i giornalisti presenti - facendo appello ad un dubbio scrupolo di natura deontologica - si fossero accordati per tenerli segreti. La conversazione, secondo quanto scritto da Arrêt sur Images, sarebbe proseguita per circa tre minuti prima che gli organizzatori del G-20 si accorgessero del disguido tecnico.
Anche se è risaputo che i reali punti di vista dei politici raramente corrispondono a quanto sostengono pubblicamente, il malinteso che a Cannes ha coinvolto Barack Obama e Nicolas Sarkozy contribuisce a rivelare come entrambi siano ben consapevoli del ruolo destabilizzante per la pace in Medio Oriente del premier Netanyahu e del suo governo di estrema destra, nonostante Washington e Parigi continuino ad essere - per convinzione o necessità politica - strenui alleati di Israele.
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di Mario Braconi
Tutto inizia quando i genitori di Menachem Zivotofsky, un incolpevole ragazzino americano, hanno sentito una curiosa quanto irrinunciabile necessità: papà Zivotofsky, infatti, sul passaporto del figlio, alla voce “luogo di nascita” non ha ritenuto giusto che dovesse figurare semplicemente la città in cui è nato il figlio, ovvero Gerusalemme. Accanto al dato certo (la città natale di Menachem) ci dovrebbe infatti essere la politicamente urticante specifica “Israele”. Zivotofsky, per carità, è libero di ritenere che Gerusalemme sia Israele, e in effetti questo è quanto stabilisce la legge israeliana. Sfortunatamente, però, lo status di capitale non è riconosciuto internazionalmente, e men che meno dall’Autorità Palestinese, che anzi considera Gerusalemme la capitale del futuro stato palestinese - per il momento esistente solo davanti all’UNESCO.
Non è un caso se tutte le ambasciate estere presso Israele, a differenza dei consolati, hanno sede a Tel Aviv. Anche se la questione sollevata da Zivotofsky è chiaramente il capriccio di un fanatico convinto che un (impossibile) riconoscimento formalistico possa cancellare i drammi della lotta decennale tra due popoli, bisogna riconoscere che la sua provocazione è stata pianificata in modo accurato. E che essa, al di là della sua futilità sostanziale, ha portato alla luce un potenziale conflitto di poteri tra Congresso ed Esecutivo, e ha costretto i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti a (tentare di) dirimere la questione.
Il Dipartimento di Stato riconosce ai circa 50.000 americani nati a Gerusalemme la facoltà di specificare nel proprio passaporto il luogo di nascita come “Gerusalemme”, ma proibisce di specificare nei documenti anche “Israele”, perché la compresenza dei due nomi su un documento emesso da un’entità statale americana configurerebbe una fattispecie in cui gli Stati Uniti riconoscono Gerusalemme come città israeliana. Ciò equivarrebbe alla rottura della “neutralità” americana in merito alla questione, uno dei capisaldi della sua politica estera in Medio Oriente. A complicare le cose c’è un documento approvato dal Congresso nel 2002, e che dunque è divenuto operativo in corrispondenza della data di nascita del piccolo Zivotofsky.
Nella “Policy Ufficiale riguardo a Gerusalemme Capitale d’Israele”, infatti, il Congresso richiese al Dipartimento di Stato di consentire a quanti ne facessero richiesta perché nati a Gerusalemme di poter scrivere “Gerusalemme, Israele”. Non solo: il documento sollecitava l’allora presidente George W. Bush a spostare la sede diplomatica statunitense da Tel Aviv alla Città Santa, quale “riconoscimento della sovranità israeliana di fatto su tutta la città”.
Bush firmò la legge, non essendo possibile bloccarla con un veto, specificando però in una nota datata 30 settembre 2002 che le disposizioni in essa contenute costituivano una limitazione indebita ai poteri concessi al Presidente dalla Costituzione: il Presidente non accetta il primato di una legge che “interferisce in modo inaccettabile con l’autorità del Presidente di condurre gli affari esteri e supervisionare il potere esecutivo in modo univoco […] La posizione degli Stati Uniti su Gerusalemme non è cambiata”.
Obama la pensa in modo molto simile: secondo l’attuale presidente, la politica estera è affare del Governo e il Congresso non ha il potere di alterare le decisioni del Presidente e del suo governo. Ma Zivotofsky ha citato l’attuale Segretario di Stato Hillary Clinton, chiedendole di assoggettarsi a quanto stabilito nella legge del 2002. I tribunali ordinari hanno rigettato la richiesta dell’appellante, in quanto a loro dire non titolati a entrare nel merito di questioni afferenti al potere esecutivo; inoltre il nodo appariva ai giudici ordinari più di tipo politico che giuridico.
Nella (comprensibile) inerzia del Segretario di Stato, che ovviamente non ha mai dato retta all’avvocato di Zivotofsky, è stata interpellata la Corte Suprema. Purtroppo, però, i giudici non hanno le idee chiare su come dirimere la questione, che in effetti, apre un importante interrogativo: chi ha veramente l’ultima parola sulle questioni estere, il potere legislativo o quello esecutivo?
Il giudice Donald Verrilli, sostenitore del primato dell’Esecutivo, ha citato il caso di George Washington, che, quando si trattò di riconoscere il governo rivoluzionario francese, prese la sua decisione consultandosi con i colleghi del governo, e non si curò nemmeno di mandare una nota per informare il Congresso. Sembra proprio che la questione israelo-palestinese non cessi di creare divisioni e conflitti, da una parte e dall’altra dell’Oceano. La magra consolazione è che, almeno nel caso Zivotofsky, si tratta di solo di una guerra di carte bollate.
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di Michele Paris
In attesa della pubblicazione ufficiale del rapporto sul programma nucleare iraniano da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), alcune indiscrezioni sui contenuti sono già apparse in questi giorni sulla stampa di mezzo mondo. Secondo i rapporti di intelligence pervenuti all’agenzia delle Nazioni Uniti con sede a Vienna, la Repubblica Islamica avrebbe ormai acquisito le capacità per costruire un ordigno nucleare, anche se non esiste prova che il governo di Teheran sia effettivamente incamminato su questa strada.
L’ottenimento dei vari componenti e del know-how necessari a creare in tempi relativamente brevi un’arma di questo genere è il risultato delle ricerche sul nucleare che l’Iran avrebbe portato avanti in questi ultimi anni. Questa tesi, se confermata, smentirebbe clamorosamente le precedenti conclusioni dell’intelligence americana, presentate nel 2007 dall’amministrazione Bush, nelle quali si sosteneva che l’Iran aveva abbandonato la ricerca sul nucleare a scopi militari nel 2003 in seguito alle pressioni della comunità internazionale.
Il rapporto dell’AIEA sarà reso noto in maniera ufficiale non prima di mercoledì, ma fonti anonime hanno già fornito alla stampa gran parte del suo contenuto. Le difficoltà che l’Iran ha incontrato nel condurre i propri test, spiegano diplomatici e funzionari a conoscenza dello studio, sarebbero state superate anche grazie all’assistenza di tecnici stranieri. In particolare, il rapporto cita Vyacheslav Danilenko, ex scienziato sovietico, reclutato negli anni Novanta da Teheran per sviluppare un complesso meccanismo necessario per giungere alla realizzazione di un’arma nucleare. Agli sforzi iraniani avrebbero contribuito anche i tecnici nordcoreani e il padre del nucleare pakistano, Abdul Qadeer Khan.
Uno degli indizi decisivi contenuti nell’atto d’accusa dell’AIEA contro l’Iran sarebbe l’attività di ricerca su armamenti nucleari condotta presso la base militare di Parchin. In passato, le autorità iraniane avevano ammesso di lavorare a procedimenti legati all’ambito militare a Parchin, anche se limitati però alle armi convenzionali. Un’affermazione quest’ultima confermata dagli stessi ispettori AIEA ammessi all’interno dell’impianto. Ora, tuttavia, la agenzie di intelligence occidentali sostengono che negli ultimi anni le cose sono cambiate drasticamente a Parchin.
Per gli Stati Uniti, l’imminente rapporto dell’AIEA conferma dunque la pericolosità dell’Iran, anche se i vertici di questo paese non avrebbero ancora preso la decisione definitiva di indirizzare verso la costruzione di armi atomiche gli sforzi fatti dalla ricerca. Come fa notare il New York Times, in ogni caso, il quadro è tutt’altro che completo e le restrizioni imposte da Teheran agli ispettori AIEA in questi anni – anche in seguito alle intimidazioni occidentali – rendono il vero stato del programma nucleare iraniano di difficile lettura.
Come previsto, la risposta dell’Iran al rapporto sono state molto dure. Il ministro degli Esteri ed ex negoziatore sul nucleare, Ali Akbar Salehi, ha affermato che “la controversia sul nostro programma nucleare è al cento per cento politica” e che l’AIEA “è sottoposta alle pressioni delle potenze straniere”. Secondo Salehi, l’Iran avrebbe già risposto all’agenzia con un proprio rapporto di 117 pagine, mentre le accuse rivolte al suo paese si basano su informazioni false, come già accaduto con la denuncia delle armi di distruzione di massa attribuite al regime di Saddam Hussein, sfruttata per lanciare l’invasione dell’Iraq nel 2003.
Che i documenti in possesso dell’AIEA siano manipolati non è d’altra parte da escludere a priori, dal momento che fanno riferimento a rapporti di intelligence di Stati Uniti, Israele e altri paesi europei, i quali da tempo si adoperano più o meno apertamente per rovesciare il regime di Teheran. L’Iran, da parte sua, ha sempre sostenuto invece che il proprio programma nucleare è solo ad uso civile e in questo senso agisce in piena legittimità, in quanto firmatario del Trattato di Non Proliferazione.
Le anticipazioni dell’AIEA erano state precedute da una nuova escalation di minacce verso della Repubblica Islamica, provenienti soprattutto da USA e Israele. A far dubitare dell’imparzialità delle conclusioni dell’agenzia di Vienna era stato anche un recente viaggio a Washington del suo direttore, il filo-americano Yukia Amano, il quale aveva incontrato alla Casa Bianca alcuni esponenti del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. I leader iraniani avevano puntato il dito contro questa visita inopportuna che sarebbe servita, a loro dire, a coordinare gli attacchi verbali contro Teheran in vista appunto della pubblicazione del rapporto AIEA.
Le accuse e le pressioni americane sull’Iran sembrano volte a raccogliere sufficiente consenso nella comunità internazionale per imporre una nuova serie di sanzioni contro Teheran. Dal 2006 il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha votato quattro volte per applicare sanzioni contro l’Iran, l’ultima delle quali nel giugno 2010. Eventuali nuove misure andrebbero ora a toccare il cruciale settore del petrolio e del gas naturale. Anche per questo motivo, appare però molto difficile che Cina e Russia - le quali hanno forti interessi nel settore energetico iraniano - possano dare il proprio assenso a nuove sanzioni, limitando così l’iniziativa occidentale a sanzioni unilaterali. A conferma dell’opposizione di Mosca e Pechino ai piani di Washington, i due governi hanno rilasciato un insolito comunicato unitario in risposta al rapporto AIEA, nel quale si afferma che “Russia e Cina sono dell’idea che un simile documento serve soltanto a mettere in un angolo l’Iran”.
Se la strada delle sanzioni appare ufficialmente quella preferita dall’Occidente e da Israele, l’opzione militare è nuovamente tornata in primo piano nelle ultime settimane. Secondo quanto riportato dal quotidiano israeliano Yediot Aharonot il 28 ottobre scorso, il premier Netanyahu e il ministro della Difesa, Ehud Barak, avrebbero cercato in tutti i modi di persuadere il proprio gabinetto, così come i settori più riluttanti delle forze armate e dell’intelligence, della necessità di un attacco militare contro le installazioni nucleari iraniane.
In un’intervista alla BBC un paio di giorni fa, lo stesso Barak – esponente di spicco del governo di un paese che possiede centinaia di armi nucleari non dichiarate – ha ribadito di “non poter sottovalutare la natura della minaccia iraniana alla stabilità dell’intera regione”. Sempre domenica, da Israele è intervenuto anche il presidente Shimon Peres, presunta colomba nonché premio Nobel per la Pace, il quale al quotidiano Israel HaYom ha ammesso che “siamo sempre più vicini ad un attacco militare contro l’Iran piuttosto che a una soluzione diplomatica”.
Alla retorica si aggiungono alcune manovre militari di Israele che indicano la preparazione di un blitz militare. Settimana scorsa Tel Aviv ha infatti testato un missile balistico a lungo raggio con il potenziale di colpire il territorio iraniano. Inoltre, da una base NATO in Sardegna è andata in scena un’esercitazione con aerei da guerra israeliani per missioni a lungo raggio. Infine, nel week-end appena trascorso l’assistente al Segretario di Stato USA per gli affari militari, Andrew Shapiro, ha annunciato un’altra esercitazione congiunta dei due paesi per testare le capacità di Israele di far fronte ad un attacco missilistico simile a quello che scatenerebbe l’Iran in caso di aggressione.
Se la stampa ufficiale negli Stati Uniti continua a scrivere degli scrupoli della Casa Bianca e dei timori per un’azione unilaterale israeliana contro l’Iran, in realtà le vedute dei due alleati appaiono pressoché identiche. Non solo, anche le altre principali potenze occidentali sono pronte a prendere parte ad un eventuale attacco militare, come ha rivelato ad esempio un’inchiesta del Guardian la settimana scorsa a proposito dei piani bellici britannici in vista di un conflitto con Teheran.
In ultima analisi, a ben vedere, i timori occidentali e di Israele nei confronti dell’Iran poco o nulla hanno a che fare con la questione del nucleare. Per Tel Aviv gli effetti della Primavera Araba hanno prodotto effetti a di poco sgraditi, come il rovesciamento di regimi compiacenti - a cominciare da quello di Hosni Mubarak in Egitto - e l’esplosione di proteste e manifestazioni anti-governative senza precedenti all’interno dei propri confini. In una tradizione provocatoria ampiamente consolidata, un’aggressione militare contro l’Iran rappresenterebbe perciò un modo per distogliere l’attenzione dai problemi interni e per riguadagnare terreno sullo scacchiere mediorientale.
Per gli Stati Uniti, invece, il nuovo innalzamento dei toni nei confronti di Teheran coincide con l’ammissione del sostanziale fallimento delle missioni in Iraq (dove buona parte delle truppe abbandoneranno un paese sempre più sotto l’influenza iraniana entro la fine dell’anno) e in Afghanistan – dove il disimpegno USA è previsto per il 2014 – e la necessità di mantenere la propria supremazia in un’area cruciale del pianeta.
Ben consapevoli delle disastrose conseguenze che un nuovo conflitto in Medio Oriente scatenerebbe nella regione e non solo, i governi di Stati Uniti e Israele sono pronti nondimeno ad accettarne il rischio pur di difendere i propri interessi strategici. Il rapporto dell’AIEA sul programma nucleare di Teheran, in questo scenario, non è altro che una parte della propaganda orchestrata per convincere l’opinione pubblica dell’inevitabilità della soluzione militare per risolvere definitivamente il “problema” iraniano.