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di Emanuela Pessina
BERLINO. Solo pochi giorni dopo l’approvazione definitiva del nuovo piano europeo contro la crisi, che sembrava aver finalmente rassicurato i mercati, il primo ministro greco George Papandreou ha annunciato di voler sottoporre a referendum l’intero piano di aiuti alla Grecia, rimettendo in discussione tutte le ultime decisioni dei leader dell’Eurozona e facendo così tremare le Borse. La posta in gioco è alta e in Europa si è già scatenato il panico: un “Sì” al referendum andrebbe certo a indebolire la crescente opposizione interna al programma di austerità del Governo greco, alleggerendo la difficile posizione di Papandreou, ma un “No” potrebbe spingere Atene fuori dall'Eurozona, con conseguenze drastiche a livello continentale.
Incomprensibile e inaspettato, l’annuncio di Papandreou ha spiazzato mercati, economisti e leader politici di tutta Europa. Il referendum mette a rischio l’intero piano di aiuti della Troika (formata dai funzionari di Commissione Europea, Fondo Monetario Internazionale e Banca Centrale Europea), che aveva di recente stanziato per la Grecia la seconda tranche di aiuti per 130 miliardi di euro, ma non solo. A essere messa in discussione è l’intera risoluzione anti-crisi dell’Eurozona, elaborata in mesi di vertici e svariate situazioni di emergenza.
L'eventuale bocciatura “aumenterebbe il rischio di un default disordinato e forzato" e di "una potenziale uscita della Grecia dall'euro", hanno commentato dall’agenzia di rating Fitch. Per alcuni analisti, quello della Grecia è un suicidio vero e proprio; qualcuno teme la bancarotta del Paese. Tutte possibilità che non passerebbero inosservate nel Vecchio continente.
Unica cosa sicura, l’esito negativo del referendum chiuderebbe alla Grecia qualsiasi altro tipo di aiuto da parte dell’Europa. Il presidente della Commissione Europea, Jose Manuel Barroso, e il presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, da parte loro, hanno già fatto sapere che terranno conto dell'intenzione del primo Ministro greco durante l'ultimo vertice dei leader europei. Comunque vada, l’intenzione di Papandreou rischia di avere severe implicazioni per la stabilità finanziaria dell'Eurozona.
Papandreou, da parte sua, ha presentato il referendum come “un passo democratico e patriottico“, una sorta di dovere nei confronti del proprio popolo, e certo gli si può dare torto solo con estrema difficoltà. Il piano di austerity approvato da Atene negli ultimi mesi, condizione necessaria per ottenere gli aiuti dall’Europa, chiede ai propri cittadini sacrifici pressoché insostenibili. Oltre al licenziamento del 20% dei dipendenti pubblici, la manovra da 78 miliardi di euro prevede l’introduzione di nuove tasse, così come la vendita della maggior parte dei beni statali e la chiusura di numerose agenzie governative. Misure che rischiano di mettere in ginocchio lo Stato e la dignità del suo popolo.
Senza dimenticare i dubbi che accompagnano fin dall’inizio il piano richiesto dall’Eurozona e accordato dal Parlamento greco: per molti economisti i tagli andrebbero a frenare ulteriormente la crescita dell’economia greca - per la quale nel 2011 è previsto un calo del 4% - e la loro utilità finale è assolutamente discutibile. Come in una spirale diabolica: risparmio significa meno investimenti e l’economia affonda. Nel frattempo la disoccupazione e le spese sociali continuano a crescere, ma di miglioramenti concreti non se ne vedono: per Papandreou diventa sempre più difficile giustificare la propria scelta pro- Europa.
E i cittadini greci, da parte loro, hanno già espresso chiaramente un’opinione a proposito, in svariate occasioni: da mesi ormai sono in centinaia di migliaia a scendere in piazza regolarmente per esprimere il loro esplicito “No”, anche in maniera violenta. C’è poco da fraintendere. Forse è proprio questo il significato del referendum voluto da Papandreou a due giorni dal G20 di Cannes: la Grecia è arrivata al limite della sopportazione e il primo ministro non può far altro che prenderne atto, chiedendo al proprio popolo una legittimazione. In barba all’Europa e a tutti i suoi vertici.
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di Michele Paris
Il ritiro delle truppe americane dall’Iraq entro la fine dell’anno dovrebbe preannunciare, secondo le parole del presidente Obama, un disimpegno di Washington in Medio Oriente e un futuro di pace nella regione. Gli obiettivi strategici degli USA, tuttavia, non prevedono per il futuro nessun abbandono di quest’area cruciale del globo né, tantomeno, una riduzione del rischio di nuovi e sanguinosi conflitti.
L’annuncio di Barack Obama del completo ritiro dei militari americani dal paese mediorientale invaso nel 2003 entro la fine dell’anno è giunta il 21 ottobre scorso ed è stata propagandata come il mantenimento della promessa elettorale di porre fine ad una guerra profondamente impopolare. La retorica del presidente nasconde però a malapena una realtà ben diversa.
Innanzitutto, la fine dell’occupazione dell’Iraq era già stata negoziata nel 2008 da George W. Bush con il governo di Baghdad e, soprattutto, l’amministrazione democratica ha cercato disperatamente di convincere il premier Maliki a mantenere nel paese oltre il 31 dicembre prossimo un contingente americano fino a venti mila soldati, sotto forma di addestratori e consiglieri militari. I tentativi americani sono cessati solo quando è stata accertata l’impossibilità di raccogliere il consenso necessario nel Parlamento iracheno per una decisione che avrebbe perpetuato la presenza di un contingente militare che in quasi nove anni di occupazione ha causato oltre un milione di morti e la totale devastazione del paese.
Nonostante il fallimento degli Stati Uniti nel modificare il cosiddetto “Status of Forces Agreement” (SOFA) con Baghdad, Washington non ha alcuna intenzione di abbandonare l’Iraq. A più di cinque mila contractor privati (mercenari) che invaderanno il paese sotto il controllo del Dipartimento di Stato si devono aggiungere infatti circa 16 mila civili alle dipendenze del governo americano, molti dei quali impiegati nell’ambasciata USA della capitale, la più grande del pianeta.
L’assistenza americana alle forze armate locali sarà estesa poi con ogni probabilità anche allo spazio aereo, come ha fatto intuire il capo di stato maggiore iracheno, generale Babaker Zebari, secondo il quale il suo paese non sarà in grado di difenderlo fino al 2020 o 2024 “senza l’aiuto dei partner internazionali”.
In ogni caso, il relativo disimpegno dall’Iraq sarà bilanciato da una rinnovata presenza militare americana in altri paesi alleati del Golfo Persico, come ha messo in luce un articolo pubblicato domenica scorsa dal New York Times. Citando diplomatici e alti ufficiali militari, il quotidiano newyorchese rivela come l’amministrazione Obama sta appunto valutando la possibilità di inviare nuove truppe in paesi come il Kuwait e navi da guerra nelle acque internazionali della regione. Il tutto con lo scopo primario di aumentare le pressioni sull’Iran e stabilire basi d’appoggio per un’eventuale aggressione militare.
Contro Teheran, d’altra parte, le provocazioni di Washington sono nuovamente aumentate nell’ultimo periodo, a cominciare dall’assurda accusa di aver complottato l’assassinio dell’ambasciatore saudita negli Stati Uniti ingaggiando sicari legati ai cartelli messicani del narcotraffico. Quest’ultima accusa ha permesso agli USA e ai loro alleati di alzare i toni nei confronti della Repubblica Islamica e di cercare di raccogliere consensi per imporre ulteriori sanzioni, a cominciare da un embargo economico che dovrebbe colpire la Banca Centrale iraniana, iniziativa che equivarrebbe ad un atto di guerra.
L’obiettivo Iran è nel mirino anche tramite le pressioni in corso sulla Siria, principale alleato di Teheran. Un eventuale intervento occidentale per risolvere la crisi siriana trascinerebbe infatti l’Iran in un conflitto regionale dalle conseguenze disastrose. A ricordarlo è stato lo stesso presidente Bashar al-Assad in una rarissima intervista rilasciata al britannico Daily Telegraph e pubblicata domenica scorsa. Per il presidente, un’azione della NATO o di altri paesi occidentali in Siria provocherebbe un vero e proprio terremoto nella regione e scatenerebbe “decine di Afghanistan”.
Per il New York Times, come già anticipato, l’amministrazione Obama, “con un occhio all’Iran”, sta cercando di espandere i legami militari esistenti con i paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC) - Arabia Saudita, Bahrain, Emirati Arabi, Kuwait, Oman e Qatar - promuovendo una nuova struttura difensiva per il Golfo Persico che dovrebbe integrare pattuglie aeree e navali, ma anche la difesa missilistica. In altre parole, Washington intende stabilire un’alleanza militare più stretta con le dittature e i regimi reazionari del Golfo in funzione anti-iraniana e per reprimere ulteriormente qualsiasi rigurgito rivoluzionario nel mondo arabo che minacci gli equilibri esistenti.
Alcuni dei negoziati per una più intensa partnership militare sarebbero già in stato avanzato, secondo il New York Times, come quello con il Kuwait. Nell’emirato è stazionato almeno un battaglione americano fin dalla prima Guerra del Golfo, nel 1991, ed è localizzato anche un “enorme arsenale” di armamenti a disposizione delle truppe americane aggiuntive che dall’Iraq si sposteranno oltre il confine meridionale.
La strategia americana in Medio Oriente è stata esposta in maniera chiara dal Segretario di Stato, Hillary Clinton, nel corso del suo recente tour asiatico. Durante una sosta in Tajikistan, la ex first lady ha avvertito che gli USA continueranno ad avere “una robusta e continua presenza nella regione, a riprova del nostro impegno in Iraq e per il futuro della regione stessa, che dovrebbe essere libera da interferenze esterne e continuare il proprio percorso verso la democrazia”. Come possano essere raggiunte per i paesi mediorientali la libertà da interferenze esterne, a fronte di una prolungata presenza americana, e la democrazia, con gli USA che sostengono apertamente dittature come Arabia Saudita e Bahrain, per la Clinton il problema non si pone.
La ribadita difesa degli interessi statunitensi nella regione riflette anche la necessità da parte dell’amministrazione Obama in tempi di campagna elettorale di rispondere alle critiche sollevate in patria da molti esponenti del Partito Repubblicano per aver abbandonato l’Iraq senza aver raggiunto gli obiettivi strategici che avevano portato alla guerra.
Con l’intensificarsi dello scontro sociale negli Stati Uniti, infine, l’innalzamento delle tensioni in Medio Oriente e la prospettiva di nuovi conflitti rappresenta anche un metodo consolidato per distogliere l’attenzione dai problemi interni e unire il paese attorno all’ennesima impresa “umanitaria” o “democratica” d’oltreoceano.
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di Mario Braconi
Tra gli applausi e un grido di giubilo in francese (“lunga vita alla Palestina”) l’autorità Palestinese ha ieri portato a casa il pieno riconoscimento della condizione di stato di fronte all’agenzia delle Nazioni Unite per la cultura: 107 i voti favorevoli, 14 i contrari e 52 le astensioni (tra cui quella della Gran Bretagna e dell'Italia). Un successo importante, che apre il cammino alla discussione della mozione palestinese per l'ingresso nell'Onu, nonostante ilgià annunciato veto Usa al Palazzo di Vetro. Veto sul quale non ci sono dubbi, vista la reazione odierna.
Benché, infatti, l’ambasciatore americano presso l’Unesco abbia ribadito l’impegno degli Stati Uniti per la sopravvivenza dell’agenzia, il successo palestinese rischia di impedirle di continuare a lavorare come oggi." La profonda ed esplicita irritazione americana per l’iniziativa palestinese, infatti, si é trasformata in taglio ai contributi: Washington ha già annunciato il dieci per cento di tagli, pari a 65 milioni di dollari. Attualmente, infatti, gli Stati Uniti - primi contribuenti all’Unesco - hanno fornito il 22% del suo importante budget di circa 650 milioni di dollari a biennio.
Gli USA hanno così contabilizzato irritazione e contrarietà all’iniziativa, che gli ricorda che il mondo, a volte, ragiona, decide e sceglie indipendentemente dai desideri della Casa Bianca. D’altra parte è la seconda volta nel giro di una settimana che Washington viene sonoramente schiaffeggiata nell’ambito delle Nazioni Unite: prima il voto dell’Assemblea Generale contro il blocco a Cuba, ora la Palestina all’Unesco. L’immediata ritorsione statunitense non ha avuto bisogno di un provvedimento particolare: disposizioni di legge statali, approvate da oltre 15 anni, infatti, prevedono la fine di ogni sostegno a qualsiasi agenzia dell’ONU che accetti la Palestina come Stato. La Clinton da tempo lo ha ribadito per bocca della sua portavoce: “Esistono delle chiare linee di confine nella legge americane; se esse verranno valicate, scatteranno le conseguenze previste”. Tradotto, sin da subito, all’Unesco si dovranno organizzare sin da domani, tagliando programmi e personale per fare i conti con il taglio statunitense dei contributi.
Gli Stati Uniti sostengono che devono essere i negoziati a definire il riconoscimento dello Stato palestinese, ma lo dicono sapendo che è un modo come un altro per rinviare sine die il tutto. E infatti, se i palestinesi non mollano sulla questione del riconoscimento dello stato palestinese all’ONU, i colloqui conoscitivi lanciati dal quartetto come contromossa non sembrano condurre a risultati concreti, come risulta dal contenuto di una recente intervista all’“Inviato Speciale” Tony Blair, il cui dato inequivocabile è l’impotenza a fare alcunché, causata anche dalla profonda divisioni tra i suoi componenti (USA, ONU, UE e Russia).
In queste condizioni di stallo, s’inserisce la furibonda polemica lanciata oggi dal Ministro degli Esteri israeliano Avigdor Lieberman contro Abbas. In una riunione organizzata dal suo partito (Yisrael Beiteinu) per programmare le attività della sessione invernale della Knesset, un fiume di rabbia si è liberato dalla bocca del ministro: “Dobbiamo considerare la possibilità di troncare ogni rapporto con l’Autorità Palestinese”. Lieberman dice di temere che Israele divenga lo “zimbello di tutta l’area”: “E’ giunto il momento di ottenere una contropartita per tutte le diatribe, le campagne e i boicottaggi palestinesi.”
L'ultrareazionario Lieberman ha affermato che la sua non è una polemica personale contro Abbas. Il che è tutto da vedere, vista l’elegante preterizione con cui è riuscito ad appioppare all’avversario palestinese una presunta firma sotto una tesi di laurea negazionista, oltre a comportamenti molto disdicevoli quali il pagamento di contanti ai terroristi e le congratulazioni tributate a chiunque abbia ammazzato degli ebrei. Salvo poi ammorbidire lievemente il suo attacco con una furba precisazione, che lo mette al sicuro dalla mancanza di eclatanti prove a sostegno della sua tesi: “Forse ora [Abbas] ha fatto in modo di nascondere [la tesi] o magari ha cambiato idea [sull’Olocausto].
Lieberman ne ha per tutti: se da un lato l’Autorità palestinese non sarebbe un interlocutore affidabile a causa dalla una leadership più interessata alla sua sopravvivenza politica che agli interessi del suo popolo, il regime di Hamas deve semplicemente “essere rovesciato”. Secondo quanto risulta a Haaretz, il Ministro degli Esteri avrebbe presentato un accordo di coalizione nel quale il governo israeliano avrebbe preso l’impegno di rimuovere Hamas dalla Striscia di Gaza. Un documento che fa rabbrividire: la speranza è che non sia il prologo ad un’altro disastro sul tipo dell’operazione “Piombo fuso”.
Quanto ai tentativi del Quartetto di far nuovamente decollare dei colloqui di pace dopo oltre un anno di congelamento, Lieberman ha dichiarato: “Non è stato facile per noi accettare le conclusioni del Quartetto, ma l’abbiamo fatto per garantire un punto di partenze alle negoziazioni. Ma i palestinesi stanno eludendo il processo, giorno dopo giorno. Quando il Comitato distrettuale ha annunciato lo stabilimento di un “quartiere” israeliano a Gilo (vicino a Gerusalemme Est), i Palestinesi ci sono avventati sopra come su un trofeo”.
Per completezza, sarebbe bene precisare che quello che Lieberman chiama “quartiere”, è un blocco di unità abitative per oltre mille persone, collocato oltre la Linea Verde del 1967. E che la decisione di andare avanti con le costruzioni, a fine settembre, ha suscitato reazioni di vivace contrarietà non solo da parte dei palestinesi, ma anche delle Nazioni Unite e degli Stati Uniti. Senza contare il fatto, non proprio indifferente, che i precedenti negoziati si sono arenati proprio a causa del rifiuto opposto dagli israeliani alla richiesta palestinese di prorogare una moratoria sugli insediamenti israeliani.
Mentre l’atteggiamento bellicoso del Ministro degli Esteri israeliano nei confronti della leadership di South Bank costituisce una pesante ipoteca sull’esito dell’abbozzo di processo di pace del Quartetto, i palestinesi conseguono un mezzo successo politico all’assise dell’Unesco, dove il futuro stato palestinese riceve per la prima volta un pieno riconoscimento. Si tratta di una mossa per mantenere focalizzata l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema, mentre le trattative per il riconoscimento davanti al Consiglio di sicurezza vanno per le lunghe, e il quartetto sta, più o meno, a guardare.
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di Mario Braconi
La morte del principe Sultan bin Abd al-Aziz Al Saud, fratellastro del monarca assoluto saudita Abdallah bin Abd al-Aziz Al Saudi, ha lasciato un importante vuoto nelle istituzioni saudite. Il Principe Sultan, morto ad un’età stimata di ottanta anni in uno dei migliori ospedali americani (il Presbyterian di New York), accentrava nelle sue mani la doppia carica di erede al trono, ottenuta nel 2005, ed è stato per un cinquantennio Ministro delle Difesa e dell’Aviazione. Il Principe Sultan, uno dei sette figli avuti dal fondatore del Regno, Abdulaziz Ibn Saud, dalla sua moglie favorita, è stato uno degli artefici dell’alleanza di ferro con gli Stati Uniti, mentre suo figlio, il principe Khaled è il padrone del quotidiano arabo Al-Hayat.
Per la prima volta, il successore è stato nominato da un apposito Comitato per la Fedeltà, voluto da re Abdullah, che lo ha istituito nel 2006 per affrontare, a modo suo, il tema della scarsa trasparenza nel processo di selezione dei successori. E questa misera concessione sembra il massimo di cui gli osservatori si possano rallegrare. Ieri notte il Comitato, infatti, ha nominato principe ereditario il Ministro degli Interni, il settantenne Principe Nayif; non propriamente una sorpresa, dato che Nayif nel 2009 è stato nominato secondo Viceministro del governo saudita, cosa che attesta il gradimento del Monarca. Resta vacante, per il momento, la poltrona del ministro della Difesa, un ufficio che sovraintende spese multimiliardarie destinate ad uno degli eserciti meglio equipaggiati della Regione.
Per gli Stati Uniti, legati a triplo filo alle sorti della monarchia saudita, la nomina é una soluzione gradita. Dal punto di vista degli oppositori liberali della monarchia assoluta, invece, la nomina di Nayif è tutt’altro che una buona notizia. Sembra infatti che il neo principe ereditario saudita si sia distinto nell’ultimo decennio per il suo atteggiamento vagamente critico nei confronti di Adbullah, da egli considerato troppo liberale in tema di riforme e di diritti civili. Secondo quanto riportato da Reuters, Nayif avrebbe richiamato un membro della Shura consultiva per aver espresso parere favorevole ad una possibile rimozione del divieto di guida per le donne. Tanto per capire il soggetto.
Del resto, sono noti gli eccellenti rapporti di Nayif con il clero wahabita: “La sua preoccupazione per il mantenimento della stabilità fa in modo che Nayif tenda a cedere a concessioni ai religiosi, soprattutto su temi culturali e sociali”, sostiene un cablo diplomatico USA del 2009 pescato da Wikileaks. Il New York Times ne tratteggia la figura con una brillante sintesi: “Il potente e temuto ministro degli interni che ha combattuto una battaglia senza soste tanto contro gli estremisti islamici quanto contro la libertà d’espressione”.
Nayif mantiene un fitta e potente rete di conoscenze, sviluppata nella sua funzione di referente dei 13 governatori regionali del Regno. Anche se è noto il suo atteggiamento gentile nei confronti di nipoti (maschi e femmine), i servizi segreti sotto il suo comando hanno avuto per anni - e hanno tuttora come obiettivo esplicito - capi sciiti, progressisti ed islamisti. Non sono dunque molte le speranze che, come pure sostiene qualche analista, nel suo nuovo ruolo Nayif mostrerà un volto più umano e tollerante. Ricorda infatti Mohammed Fahd al-Qahtani, capo di una associazione di dissidenti saudita: “Quest’uomo parla di sviluppo, anziché di riforme. Ha sbattuto in galera un mucchio di persone solo per aver espresso desiderio di riforme. Quest’uomo è un duro.”
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di Michele Paris
Negli ultimi giorni, molte città degli Stati Uniti hanno fatto registrare una preoccupante escalation della repressione da parte delle forze di polizia contro le manifestazioni di protesta ormai note in tutto il mondo con il nome di “Occupy Wall Street”. La brutalità impiegata dalle autorità un po’ ovunque nel paese fa seguito alle dure prese di posizione di sindaci e amministratori locali contro un movimento in grandissima parte pacifico e dimostra come la pazienza della classe dirigente americana verso le decine di migliaia di persone scese nelle piazze stia giungendo al termine.
Tra i più violenti interventi della polizia in questi giorni spicca quello andato in scena a partire da martedì a Oakland, città affacciata sulla Baia di San Francisco. Qui le forze dell’ordine sono state protagoniste di violenti scontri per disperdere i manifestanti e impedire loro di rioccupare la piazza del municipio. Nella sola giornata di martedì, gli arresti sono stati 250 e la polizia ha causato il ferimento di un veterano della guerra in Iraq tra i manifestanti, Scott Olsen, colpito da un proiettile vagante e ora ricoverato in condizioni critiche.
Il soffocamento delle proteste a Oakland ha avuto il pieno appoggio del sindaco democratico, Jean Quan, ed è avvenuto in concomitanza con la presenza di Barack Obama nella vicina San Francisco. Il presidente stava presiedendo ad un evento esclusivo per raccogliere finanziamenti elettorali in un hotel della città e, ovviamente, non ha fatto alcun riferimento alle violenze della polizia. Anche nella stessa città californiana, ritenuta una delle più liberal d’America, sempre martedì le autorità hanno poi ordinato ai manifestanti di abbandonare i loro accampamenti a downtown, perché illegali.
Nonostante molti politici democratici in queste settimane abbiano espresso apprezzamento per le ragioni alla base del movimento Occupy Wall Street, sono stati spesso proprio i sindaci di questo partito a ordinare la più dura repressione nelle città americane. A Chicago, ad esempio, dove il sindaco è l’ex capo di gabinetto di Obama, Rahm Emanuel, nelle scorse settimane sono stati arrestati più di 300 manifestanti. Il sindaco democratico di Atlanta, Kasim Reed, ha invece definito “necessari” i 53 arresti operati mercoledì scorso dalla polizia tra gli occupanti di un parco pubblico nella metropoli della Georgia.
Le stesse autorità cittadine hanno invariabilmente citato come giustificazione per arresti e sgomberi brutali i timori per presunte infiltrazioni criminali tra i manifestanti, oppure generici quanto ingiustificati motivi di ordine pubblico o addirittura preoccupazioni per le condizioni igieniche degli accampamenti. Questa è stata finora la strategia dei sindaci di metropoli come Los Angeles, Philadelphia, Boston, Baltimora ed altre ancora.
Secondo i dati raccolti da un sito web d’oltreoceano, basati sui rapporti delle forze di polizia e sui resoconti dei media, a partire dal mese di settembre - quando è nato a New York il movimento Occupy Wall Street - gli arresti di manifestanti nel paese sarebbero più di 2.500.
Se i racconti delle manifestazioni e degli scontri tra dimostranti e polizia si sono moltiplicati con l’espandersi della protesta negli USA, la gran parte dei media ha però evitato di denunciare il comportamento delle forze di sicurezza. Di fronte a questo atteggiamento di giornali e televisioni, c’è da chiedersi quali reazioni ci sarebbero state negli Stati Uniti se la brutale repressione di manifestazioni di protesta pacifiche come quella a cui si assiste ormai quotidianamente nelle città americane avesse avuto luogo, ad esempio, in Iran o a Cuba.
Con ampi strati della popolazione americana costretti a fare i conti con l’intensificarsi della crisi economica, con un livello di disoccupazione sempre alle stelle e con i devastanti effetti delle misure di austerity già adottate e ancora da implementare sia a livello statale che federale, le tensioni sociali e la partecipazione popolare al movimento Occupy Wall Street non faranno altro che aumentare nei prossimi mesi.
In questa atmosfera di crescente conflittualità negli Stati Uniti, la risposta violenta delle istituzioni alle proteste spontanee di queste settimane rappresenta solo un primo avvertimento, diretto non solo ai manifestanti ma a tutti i cittadini americani. Le élite politiche americane non sono infatti disposte ad accettare proteste di piazza prolungate e sono pronte perciò ad utilizzare la forza per reprimere qualsiasi movimento popolare che possa rappresentare una minaccia per la stabilità del sistema.