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di Michele Paris
Nessuna sorpresa nelle elezioni presidenziali di domenica in Argentina. Il presidente uscente, la 58enne Cristina Fernández de Kirchner, ha infatti conquistato un’agevole vittoria che le permetterà di inaugurare un secondo mandato il prossimo mese di dicembre. Una crescita economica impetuosa, una coraggiosa politica d’inclusione sociale e un’opposizione debole e divisa hanno permesso alla vedova dell’ex presidente, Nestor Kirchner, di ottenere il consenso più alto da quando l’Argentina è tornata alla democrazia nel 1983.
Secondo i dati quasi definitivi, Cristina Fernández ha raccolto quasi il 54 per cento dei voti espressi, staccando il suo più immediato inseguitore di qualcosa come 37 punti percentuali. Il governatore socialista della provincia di Santa Fe, Hermes Binner, si è infatti fermato al 17 per cento. Il risultato ha permesso alla “Presidenta” di chiudere la partita già al primo turno. Secondo la legge elettorale argentina, il vincitore può evitare il ballottaggio se supera la soglia del 45 per cento oppure ottiene almeno il 40 per cento con un margine superiore al 10 per cento sul secondo classificato.
Ancora peggiori sono stati i risultati per gli altri contendenti. Al terzo posto é giunto il senatore Ricardo Alfonsín, figlio dell’ex presidente argentino Raul e candidato per l’Unione Civica Radicale di centro. Più indietro sono giunti il governatore della provincia di San Luis, Rodríguez Saa, e l’ex presidente ad interim (2002-2003) Eduardo Duhalde, entrambi esponenti di fazioni di centro-destra del Partito Peronista. Poco più di una manciata di voti hanno raccolto infine Carlos Altamira ed Elisa Carrió della Coalizione Civica di centro, piazzatasi al secondo posto nelle presidenziali del 2007 con il 23 per cento dei consensi.
La coalizione della Presidenta (Frente Para la Victoria, FPV) ha anche allargato la propria delegazione in Parlamento - domenica erano in palio 130 seggi nella camera bassa e 24 al Senato - dove ha riconquistato la maggioranza che aveva perso nel 2009. Allo stesso modo, la maggior parte dei nove posti di governatore in palio dovrebbero andare al suo Partito Justicialista peronista (PJ).
Nel discorso seguito all’annuncio del trionfo, Cristina Fernández ha ringraziato soprattutto gli elettori più giovani ed ha lanciato un appello all’unità del paese. La Presidenta ha poi sottolineato come sia diventata la prima donna in America Latina ad essere stata rieletta per un secondo mandato alla guida del proprio paese, mentre ha ricordato in maniera commossa il marito e predecessore, scomparso nell’ottobre dello scorso anno in seguito ad un attacco cardiaco.
Proprio sulle orme di Nestor Kirchner, Cristina Fernández ha costruito il proprio successo politico. Grazie ad un modello che ad un’economia allo sbando dopo la bancarotta del 2001 ha combinato lo stimolo con generosi programmi sociali, la coppia presidenziale ha guidato un paese che ha fatto segnare, secondo gli stessi dati del FMI, una crescita del PIL del 94 per cento nell’ultimo decennio. Tutto questo restringendo drasticamente la forbice tra i redditi più alti e quelli più bassi e abbattendo i livelli di povertà.
Solo un paio di anni fa, il gradimento nel paese per Cristina Fernández era in realtà crollato, soprattutto in seguito agli effetti di un durissimo scontro con l’agrobusiness locale attorno all’innalzamento di una tassa sulle esportazioni. Da allora, tuttavia, le sue capacità politiche e il boom economico - a cui va aggiunta l’ondata di simpatia suscitata dalla morte del marito - le hanno permesso di recuperare rapidamente terreno di fronte ad un’opposizione priva di valide alternative.
Il sistema Argentina ha beneficiato enormemente dell’interventismo statale nel settore economico, inaugurato da Nestor Kirchner e proseguito dalla moglie. A due anni dal default sul proprio debito, nel 2003 l’allora presidente decise di svincolarsi dal ricatto della ricetta neoliberista del FMI per farne pagare le conseguenze agli investitori piuttosto che ai cittadini comuni. Vennero così respinte le misure di austerity a favore di iniziative di stimolo finanziate con le riserve della banca centrale. La svalutazione del peso, che uscì così dalla follia monetarista di Domingo Cavallo e Menem che lo avevano quotato 1 a 1 con il dollaro, servì inoltre a ridare competitività all’economia argentina che cominciò ben presto a dare segnali di ripresa.
Nel 2010 il PIL argentino ha fatto segnare una crescita del 9,2 per cento. Nel 2011 la crescita sarà invece dell’8 per cento, cioè superiore a qualsiasi altro paese latinoamericano, mentre i livelli di disoccupazione sono ai minimi storici. Questo andamento ha causato tuttavia un livello piuttosto elevato dell’inflazione - oltre il 20 per cento per il FMI e alcuni analisti privati, intorno al 10 per cento secondo i dati del governo - anche se gli effetti sono stati contenuti dall’adeguamento degli stipendi.
A trascinare l’economia argentina sono state le esportazioni e i prezzi sostenuti delle materie prime e dei prodotti agricoli (grano), destinati in gran parte a paesi emergenti come Cina e Brasile. Il rallentamento dell’economia globale potrebbe perciò frenare a breve la crescita del paese, tanto che le previsioni indicano un aumento del PIL per il 2012 “limitato” al 4,6 per cento. La frenata dell’economia, assieme all’inflazione e alla capacità di mantenere una rete di servizi sociali notevolmente rafforzata in questi ultimi anni, rappresenteranno perciò le sfide più difficili per Cristina Fernández nel corso del suo secondo mandato alla guida del paese.
Su questi punti avevano cercato di conquistare consensi i candidati dell’opposizione, la quale puntava il dito contro la Presidenta anche per la presunta mano pesante usata nei confronti delle voci critiche verso il suo governo e per aver manipolato i dati macroeconomici, così da mascherare l’andamento reale dell’economia.
Le critiche non hanno evidentemente scalfito la popolarità di Cristina Fernández, la quale anzi ha saputo espandere la propria base elettorale - costituita principalmente dai lavoratori e dai ceti più disagiati - raccogliendo consensi tra i giovani e una classe media che, come ha scritto il Financial Times alla vigilia del voto, “condivide il suo messaggio basato sulla redistribuzione della ricchezza e sull’inclusione sociale”.
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di Eugenio Roscini Vitali
Dopo 1941 giorni di prigionia il caporale israeliano Gilad Shalit è tornato a casa, a Mitzpe Hila, in Galilea. La liberazione è avvenuta grazie alla mediazione del Cairo e ad un accordo che prevede il rilascio di 1027 prigionieri palestinesi, 477 dei quali scarcerati a poche dalla consegna di Shalit alle autorità egiziane e 550 nei prossimi mesi. Tra quelli che hanno già ottenuto la libertà ci sono 27 donne e 42 detenuti considerati particolarmente pericolosi, terroristi che per motivi di sicurezza non potranno rientrare nei Territori e verranno esiliati in Siria (16), Qatar (15), Turchia (10) e Giordania (1); 163 i palestinesi residenti in Cisgiordania saranno invece confinati nella Striscia di Gaza.
La decisione israeliana di isolare gli elementi ritenuti più pericolosi ha subito scatenato la reazione delle principali associazioni palestinesi impegnate nella difesa dei diritti umani: attraverso un comunicato stampa le organizzazioni Al-Haq e Addameer hanno sottolineato che la deportazione forzata dei prigionieri è da considerarsi un atto in aperta violazione con le regole dettate dalla Convenzione di Ginevra e con il diritto umanitario internazionale.
Tra i 477 prigionieri che hanno lasciato le carceri israeliane si contano 290 ergastolani, più della metà dei quali con pene multiple che in molti casi superano la decina. Per citare alcuni esempi basta ricordare le condanne di Khamis Zaki Abd al-Hadi, membro delle Brigate Qassam con 21 ergastoli per una serie di attacchi contro il Neghev occidentale; Yussuf Taher Mahmud al-Qaram, 15 ergastoli aver introdotto in Israele le bombe utilizzate nell’attentato di Haifa del 2001; Ghanim Abd al-Hadi Rafa, 16 ergastoli per aver partecipato all'attentato contro l'autobus n. 405 Tel Aviv-Gerusalemme che il 6 luglio 1989 causò 16 vittime e 27 feriti; al-Jaaba, Fadi Muhammad Ibrahim, 18 ergastoli per aver preso parte ad Haifa all’attacco che il 5 marzo 2003 uccise 17 passeggeri dell’autobus n. 37; Douglas Muhammad Waal Muhammad Nablus, 15 ergastoli per l’attacco al ristorante Sbarro; al-Hashlimun Mus'ab Ismail, 17 ergastoli per l’attentato che il 31 agosto 2004 a Beersheba provocò la morte di 16 israeliani.
Più della metà dei detenuti rientrati in Cisgiordania saranno soggetti a restrizioni; un centinaio di essi risiederà in Giudea, Samaria e a Gerusalemme est. Esiliate due delle 27 donne che hanno ottenuto la libertà grazie all'accordo tra Hamas e lo Stato ebraico: Amana Mona, condannata all’ergastolo per l’omicidio del sedicenne israeliano Ofir Rahum, studente di Ashqelon attirato in un agguato attraverso un appuntamento fissato durante una chat in Internet, e Ahlam Tamimi, giornalista palestinese accusata di aver partecipato all’attentato che il 9 agosto 2001 devastò il ristorante Sbarro di Gerusalemme e causò la morte di 15 civili e 130 feriti.
Dall’elenco di coloro che lasceranno le carceri mancano i nomi di leader politici che potrebbero infondere un nuovo impulso alla resistenza palestinese: personaggi come Ahmad Saadat, figura di spicco del Fronte Popolare di Liberazione Palestinese (FPLP) condannato a 30 anni di carcere per aver partecipato all'assassinio dell'ex ministro israeliano del Turismo, Rehavam Zeevi, e Marwan Barghuti, segretario generale di al-Fatah in Cisgiordania condannato a 5 ergastoli per aver pianificato altrettanti omicidi e a 40 anni di carcere per atti di terrorismo.
Tra gli uomini di Hamas destinati a scontare la pena ci sono invece Abbas al-Sayyid, capo di una cellula combattente con base a Tulkarm e “cervello” dell’attentato suicida del 27 marzo 2002 contro il Park Hotel di Netanya, e Ibrahim Hamed, comandante dell’ala militare del Movimento Islamico in Giudea e Samaria condannato per gli attentati che tra il 2001 e il 2003 hanno colpito Piazza Zion, il Cafe Moment e il Cafe Hillel di Gerusalemme.
Mentre Hamas festeggia il rilascio dei prigionieri come una vittoria militare, in Israele non tutti appoggiano l’inedita linea del dialogo imposta da Netanyahu e l'idea che per ridare la libertà a Gilad Shalit sia stato giusto raggiungere un accordo evidentemente sproporzionato. La parte che ufficialmente non ha digerito la liberazione di centinaia di palestinesi rappresenta il 20% della popolazione e in seno alla comunità rabbinica la percentuale è ancora più ampia.
Da una parte troviamo personaggi di spicco come il rabbino Rav Ovadia Yosef, capo spirituale del partito Shas che riconosce con gioia il risultato raggiunto dal governo; dall'altra c'è chi non nasconde il suo dissenso, come l'influente rabbino Avihai Rontzki, ex Generale di Brigata e guida spirituale dell'esercito israeliano che sulla questione ha invitato i soldati del Tzahal «ad uccidere i terroristi nei loro letti». In un articolo pubblicato da Haaretz, Rontzki cita il caso della famiglia Fogel, sterminata la sera dello scorso 11 marzo nell’insediamento ebraico di Itamar, nella Cisgiordania settentrionale, e chiede che i palestinesi che si rendono colpevoli di omicidi nei confronti degli israeliani siano «semplicemente sterminati».
Anche se la decisione di Netanyahu è stata certificata dal parere positivo dei vertici delle Forze Armate e dallo stesso capo dell'agenzia d'intelligence interna dello Shin Bet, Yoram Cohen, nel giorno della liberazione dei detenuti palestinesi in Israele le proteste non sono mancate. A ribadire la posizione del rabbino Rontzki e di chi ha interpretato lo scambio come un cedimento al terrorismo ci ha pensato da un gruppo di attivisti dell'estrema destra più radicale che all'uscita del carcere di massima sicurezza di HaSharon ha inscenato una protesta non autorizzata.
Tra loro c'era Itamar Ben-Gvir, il leader dei coloni di Kiryat Arba che nel settembre scorso aveva minacciato di marciare sugli uffici del comando delle forze armate israeliane e sui villaggi arabi in Cisgiordania per protestare contro le richieste palestinesi di entrare a pieno titolo nell’ONU. Fermato e arrestato insieme ad altri cinque attivisti per aver cercato di fermare i mezzi che trasportavano i detenuti verso la Cisgiordania e Gaza, Ben-Gvir è stato comunque rilasciato con sentenza della Corte di Petah Tikva. Shalit é libero, dunque, ma la sua liberazione ha aperto nuove tensioni e la contrapposizione tra le diverse anime del suo panorama politico agiterà ancora a lungo Israele.
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di Mario Braconi
Il 23 settembre, proprio mentre i rappresentanti palestinesi presentavano la domanda presso l’organizzazione internazionale, il Quartetto (Nazioni Unite, USA, Russia ed Unione Europea) proponeva “un incontro preparatorio tra le parti da organizzare entro un mese”. Dunque la mossa di Abbas ha l’indiscutibile merito di rimettere in moto un processo fermo da oltre un anno: a settembre del 2010, infatti i colloqui erano naufragati a causa del rifiuto di Netanyahu di prolungare la moratoria di 10 mesi sulla costruzione di nuove colonie ebraiche. Intanto, spiega il portavoce del Dipartimento di Stato Mark Toner, il 26 ottobre gli inviati del Quartetto incontreranno (separatamente) rappresentanti Israeliani e Palestinesi “per organizzare i preparativi e sviluppare un’agenda per procedere nei negoziati”.
L’iniziativa del Quartetto è l’alternativa al percorso ONU; tuttavia, se Abbas non avesse forzato la mano andando a New York e sfidando Washington e Tel Aviv, con ogni probabilità la situazione sarebbe ancora in stallo. Il fatto che il 26 ottobre israeliani e palestinesi non s’incontrino direttamente, comunque, non è di buon auspicio: come spiega Daniel Levy, analista della New America Foundation, i membri del Quartetto hanno continuato a dialogare con rappresentanti dell’uno e dell’altro contendente, anche durante i tredici mesi di stop.
Nulla di nuovo, dunque, da questo punto di vista. “Inoltre - afferma Levy - la liberazione del sergente israeliano Gilat Shalit a fronte della liberazione di oltre 1.000 prigionieri palestinesi, costituisce un’importante ipoteca sul successo dei negoziati a venire. La capitolazione di Israele alle richieste di Hamas viene infatti letta da Al-Fatah come la designazione dell’interlocutore palestinese con cui trattare. Fatto che non può non irritare e ridurre ulteriormente gli spazi di manovra di Abbas”.
Intanto all’ONU si lavora per il riconoscimento della Palestina (West Bank e Striscia di Gaza) come Stato membro: la decisione finale dovrebbe arrivare l’11 novembre, quando a pronunciarsi sarà il Consiglio di Sicurezza. La data è più lontana di quanto si sperasse inizialmente, per consentire all’eventuale nuovo processo di pace sponsorizzato dal Quartetto di prendere forma (se possibile). La procedura prevede un primo passaggio presso un apposito Comitato (il Membership Admission Committee, o MAC) del Consiglio di Sicurezza, costituito da quindici nazioni. Se il Consiglio di Sicurezza dovesse dare luce verde, la proposta passerebbe al vaglio dell’Assemblea Generale, dove potrà essere approvata se otterrà la maggioranza di due terzi dei votanti (129 voti); per un pieno accreditamento presso le Nazioni Unite, la candidatura della nazione al riconoscimento deve essere approvata da entrambi gli organismi.
Il MAC deve verificare se la Palestina abbia i requisiti necessari a divenire uno Stato membro: allo stato è terminata la nebulosa fase di discussione sulle problematiche relative ad uno Stato palestinese in sé. Le prossime attività in capo al Comitato presieduto dalla nigeriana Joy Ogwu saranno la verifica che il futuro Stato palestinese sia pacifico e che sia in grado di ottemperare agli obblighi di uno Stato Membro. Per inciso, ci sarebbe da domandarsi quante delle Nazioni aderenti possano vantare simili requisiti e se non sia il caso che le Nazioni Unite effettuino delle verifiche regolari per accertare che i requisiti siano ancora presenti in tutti i membri del club…
Le regole di funzionamento del MAC, comunque, sono più semplici di quelle dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza: per ottenere l’approvazione, basta la maggioranza assoluta (8 voti favorevoli) e non esiste il veto di Paesi “più uguali degli altri”. Come ricorda Reuters, anche in caso di fallimento all’Assemblea Generale, per i Palestinesi sarebbe già un buon risultato uscire dal MAC con una raccomandazione favorevole al Consiglio di Sicurezza.
Prima dell’11 novembre il MAC farà le sue raccomandazioni al Consiglio di Sicurezza: a quel punto, per vincere la loro battaglia i palestinesi dovranno aver ottenuto il sostegno di nove dei quindici stati membri oltre che, ovviamente, aver scongiurato il veto (praticamente impossibile). E’ evidente che la battaglia per raggiungere i nove voti ha più che altro un valore politico e simbolico, dato che gli Stati Uniti hanno fatto sapere che certamente opporranno il veto. Secondo i diplomatici USA, le Nazioni Unite non sono infatti il contesto ideale per perseguire l’obiettivo dello Stato palestinese.
In ogni caso, secondo fonti diplomatiche citate ieri da Reuters, la causa dello Stato palestinese avrebbe conquistato otto stati del Consiglio di Sicurezza, ovvero Russia, Cina, India, Sud Africa, Brasile, Libano, oltre a Nigeria e Gabon, contati fino a ieri tra gli “indecisi”. Resterebbe da convincere i rappresentanti della Bosnia. Le speranze sulla Colombia sono infatti sfumate lo scorso undici ottobre, quando, nel corso di una visita ufficiale in Colombia, il presidente Juan Manuel Santos ha detto che il suo paese riconoscerà lo stato palestinese solo se esso nascerà a valle di un negoziato con Israele (quindi non per il momento). Indipendentemente da quale sarà l’esito del processo, la candidatura al riconoscimento della Palestina come nazione presso le Nazioni Unite ha contribuito a smuovere le acque e a stimolare un embrione di processo di pace; un’eventuale vittoria, anche parziale, alle Nazioni Unite, non sarebbe sufficiente senza l’avvio di veri negoziati.
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di Michele Paris
Mentre la repressione e le violenze proseguono senza sosta in Siria, nella giornata di mercoledì è andata in scena ad Aleppo una grande manifestazione popolare in sostegno del presidente Bashar al-Assad. La dimostrazione nella seconda più importante città siriana ha messo in luce l’ampio appoggio che il regime continua a godere in una parte del paese e contribuisce a spiegare lo stallo della crisi dopo oltre sette mesi dall’inizio della rivolta.
Assieme alla capitale, Damasco, la città di Aleppo rappresenta il fulcro del sostegno al governo di Assad. Entrambe le città, infatti, sono state in gran parte escluse dai disordini che hanno lacerato il paese in questi mesi. Il numero dei partecipanti alla manifestazione dell’altro giorno è difficilmente quantificabile. Secondo i media occidentali le persone scese nelle strade sarebbero alcune decine di migliaia, mentre per gli organi di stampa locali oltre un milione.
Il corteo di mercoledì è andato in scena solo pochi giorni dopo un’altra manifestazione oceanica pro-Assad a Damasco. Oltre ai cori e ai simboli di solidarietà verso il presidente, i siriani di Aleppo hanno sventolato le bandiere di Cina e Russia, i due paesi che hanno posto il veto sulla recente risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che intendeva condannare le violenze del regime e aprire la strada a possibili future sanzioni.
Nel frattempo, anche gli ultimi giorni hanno fatto registrare nuovi scontri e altri morti in Siria. Secondo i resoconti di alcune associazioni umanitarie, mercoledì sarebbero state almeno 26 le vittime, di cui 16 nella città di Homs, dove la resistenza contro il regime è particolarmente intensa. Altre morti sarebbero avvenute nei sobborghi di Damasco e nella città di Qusayr, al confine con il Libano, dove ci sono stati scontri tra le forze di sicurezza e i militari che hanno disertato l’esercito siriano.
Da qualche giorno, poi, il neonato Consiglio Nazionale Siriano - formato da membri di vari orientamenti che si battono contro il regime di Assad - ha avviato un’offensiva su scala internazionale per ottenere un qualche riconoscimento dalle potenze occidentali. Alcuni esponenti del Consiglio vorrebbero iniziative più concrete da parte della comunità internazionale per risolvere il conflitto in corso in Siria, tra cui un intervento della NATO, com’è avvenuto in Libia.
A questo proposito, un membro del Consiglio, Najib Ghadbian, nel corso di una recente conferenza stampa proprio a Tripoli, ha affermato che l’aiuto dell’Occidente “potrebbe includere la creazione di un’area cuscinetto o una no-fly zone”. Dichiarazioni simili la dicono lunga sulla legittimità di parte dell’opposizione siriana organizzata politicamente e degli interessi che essa rappresenta.
Molti dissidenti sono figure screditate che vivono da tempo in Occidente - lo steso Ghadbian insegna all’Università dell’Arkansas - e le cui attività sono finanziate dai governi che da decenni cercano di isolare il governo di Damasco. Al contrario di gran parte del Consiglio Nazionale Siriano, in ogni caso, la maggioranza dei manifestanti pacifici nelle città della Siria è fermamente contrario a qualsiasi intervento di forze straniere.
Un’evoluzione simile a quella libica in Siria porterebbe d’altronde al potere, con ogni probabilità, un regime filo-occidentale, mentre una delle ragioni che rendono Assad sopportabile agli occhi della popolazione è appunto l’indipendenza della propria politica estera da quella degli Stati Uniti e dei loro alleati nella regione.
La recente manifestazione ad Aleppo, come quella di Damasco di settimana scorsa e le altre che pure hanno avuto luogo in questi mesi, se anche sono state organizzate con il contributo del governo, dimostrano che Assad può contare su una base d’appoggio tuttora consistente. Anzi, non è da scartare l’ipotesi che proprio le pressioni, le minacce e la propaganda occidentali abbiano convinto molti siriani - soprattutto tra coloro che più hanno beneficiato delle politiche del regime baathista - a mobilitarsi per sostenere il presidente. Per questo, escludendo interventi militari diretti dall’estero, é difficile prevedere una caduta del regime in tempi brevi.
Nel medio e lungo periodo, tuttavia, saranno cruciali per verificare la resistenza di Assad gli effetti della crisi economica che ha colpito la Siria in seguito all’esplosione delle proteste e, soprattutto, all’applicazione unilaterale delle sanzioni da parte di Stati Uniti e Unione Europea.
Il fattore forse più importante per il futuro del regime rimane tuttavia la svolta violenta che la protesta ha avuto negli ultimi mesi. Nonostante le proteste e le richieste democratiche abbiano mantenuto in larga misura un carattere pacifico, frange di oppositori si stanno facendo sempre più violente, minacciando di gettare il paese in una sanguinosa guerra civile.
Gruppi di militari che hanno defezionato e di integralisti islamici, appoggiati da paesi come l’Arabia Saudita, stanno infatti combattendo con le armi le forze del regime. L’arrivo nel paese di carichi di armi da fuoco in maniera clandestina dalla Turchia e dal Libano è stata d’altra parte documentata ampiamente. L’obiettivo di questi gruppi di oppositori sembra essere proprio quello di creare il caos nel paese, facendo leva sulle rivalità settarie che contraddistinguono la Siria e sulle quali il regime secolare baathista ha operato fin ad ora come un collante. Sarà dunque in gran parte l’evoluzione di tutte queste forze contrastanti che operano dentro e fuori la Siria a determinare il destino del travagliato regime di Bashar al-Assad.
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di Fabrizio Casari
E’ finita a Sirte, nella una buca di una condotta, l’avventura di Moammar El Ghadafi, beduino e leader della Libia dal 1969. E’ finita in un’anonima ambulanza, avevano detto in un primo momento quelli del CNT, i supposti liberatori della Libia; ma non appena hanno compreso che nessuno avrebbe creduto alla storiella dell’ambulanza, ritenendo molto più verosimile che l’ex leader della Rivoluzione libica fosse stato giustiziato, hanno deciso di raccontare la verità. "Il colonnello Muammar Gheddafi é stato ucciso, la sua era é finita". Così ha annunciato Abdel Hakim Belhaj, capo militare del Cnt a Tripoli, alla tv araba al-Jazeera. Il capo militare, noto per essere della corrente islamica, ha aggiunto: "Gheddafi era stato catturato dai nostri uomini e il suo cadavere é nelle nostre mani".
Quindi nessun processo per lui, come avevano annunciato quando la sua cattura sembrava imminente. Per paura che la Nato potesse chiederne la consegna e per evitare che potesse, da vivo ancorché prigioniero, rappresentare ancora un catalizzatore per la popolazione libica che non si riconosce nei nuovi feudatari, i nuovi padroni della Libia hanno deciso di eliminarlo senza troppe cerimonie. Una vendetta tribale, un’affermazione di autorità e, insieme, una spavalda rivendicazione della nuova impostazione coranica della giustizia che regnerà nel nuovo protettorato occidentale a guida islamica.
Scompare così, circondato dai suoi ultimi fedelissimi e nascosto nella sua roccaforte, l’uomo che aveva annunciato dall’inizio della guerra la sua intenzione di morire resistendo, ma di non arrendersi o espatriare. E così è finita la vicenda del leader politico che il 1° Settembre del 1969, militare con il grado di tenente, diresse il colpo di stato con il quale un gruppo di ufficiali deposero il vecchio re Idriss, avanzo della monarchia dominante verso l’interno e dominata dall’esterno. Deposto Idriss, venne deposto anche il dominio delle compagnie petrolifere che della monarchia e del paese erano proprietarie.
Iniziò quindi l’epoca delle nazionalizzazioni, delle espulsioni di inglesi e italiani cui seguì l’adesione entusiastica al panarabismo nasseriano da parte del tenente che, ben presto, si promosse, modestamente, “Guida della Rivoluzione”. E siccome non c’è guida senza manuale che lo testimoni, nel 1976 decise di ammantare ideologicamente il suo regime, pubblicando il “Libro verde della Rivoluzione”, nel quale si fondevano con una discreta miscela di confusione elementi di nazionalismo e panarabismo, eletti ad avversari del marxismo e del capitalismo. Nel 1977 Gheddafi decise di cambiare il nome alla Libia, che da quel momento si chiamò Jamahirya (lo Stato delle masse ndr) Araba Libica Popolare e Socialista”.
Il successo di un regime durato 42 anni si è fondato probabilmente nella capacità che Gheddafi ebbe di costruire un comune denominatore nel mosaico delle tribù e di clan che da sempre hanno determinato gli equilibri interni alla Libia, anche internamente alle due etnie (Arabi e Berberi). Le tribù dei Warfalla (i più numerosi), gli Zintan, i Qadhadfa (alla quale apparteneva Gheddafi) e gli al-Magarha, gli az-Zawiya, i Banu Salim, i Meshrata e gli al-Awagir hanno infatti usufruito di un ruolo tutt’altro che secondario nell’amministrazione del governo sul piano territoriale. L’abilità principale del Rais libico è stata proprio quella di ridurre alla fisiologica compatibilità i contrasti interni attraverso una politica fatta di inclusione (di alcuni) e di elargizioni più diffuse.
Pur tenendo con mano durissima le redini del potere politico, infatti, ebbe l’arguzia di dispensare sufficiente potere economico e riconoscimenti formali e sostanziali alle diverse tribù, concretizzatosi anche tramite un relativo mantenimento di alcune prerogative nella gestione degli affari interni a livello locale. Le risorse straordinarie derivate dalla vendita del petrolio hanno permesso, a suggello, una struttura di welfare-state generalizzata che ha reso i libici la popolazione con il maggior reddito pro-capite del nord Africa.
Quale che sia il giudizio sul regime di Gheddafi, non si può non riconoscere che ha trasformato la Libia da oscura entità territoriale nordafricana in paese con un suo ruolo specifico nell’ambito internazionale. Di volta in volta indossando i panni dell’anticolonialista, del profeta dell’unità africana (scelta dopo aver constatato che quella araba rimaneva una chimera) ha avuto però molto più seguito all’interno del Paese che nella regione, dove i regimi arabi e nordafricani non hanno mai voluto degnarlo di attenzione, negandogli con qualche torto e con molte ragioni una leadership che il Rais aveva tentato di ottenere con parole e dollari.
Troppe le ingerenze della vecchia Europa coloniale e degli Stati Uniti (e della stessa Unione Sovietica, all’epoca) sui regimi nordafricani e mediorientali e sugli stessi regni del Golfo perché il leader beduino potesse assumere un ruolo unificatore. Nei confronti dei regimi vicini, del resto, l’antipatia era ricambiata: non si contano i gesti di disprezzo, quando non di aperta sfida, che l’ex Colonnello ha dispensato in lungo e largo durante gli ultimi trent’anni. E se negli Usa veniva chiamato “il pazzo di Tripoli”, nelle altre capitali arabe veniva considerato più o meno un visionario inaffidabile e inattendibile. Della sua passione per stupire e provocare diede dimostrazione plastica nelle visite in Italia, omaggiato e riverito da chi, oggi, senza pudore, definisce la sua morte “una bella notizia per il popolo libico”.
Proprio gli Usa, che dal 1979 (quando in una manifestazione venne incendiata l’ambasciata Usa a Tripoli) al 2006 (quando Gheddafi annunciò la fine del programma nucleare libico) inserirono la Libia nella lista dei “Paesi che sostengono il terrorismo”, cioè i paesi che non ricevono ordini dagli Usa, furono decisivi nella messa alle corde del regno del Colonnello. E quando l’Onu (dal 1992 al 2005) gli decretò contro un embargo aereo e militare, oltre a sanzioni economiche, Gheddafi tentò di tessere una tela di relazioni internazionali a 360 gradi con partiti, movimenti e gruppi che all’interno dei rispettivi paesi mediorientali promuovevano l’opposizione più dura. L’illusione del Rais era quella di divenire il leader di ogni rivolta, ma la verità è che era sopportato solo in virtù del denaro che elargiva ai rivoltosi, i primi a considerarlo inaffidabile tanto quanto i regimi contro i quali combattevano.
Finita l’epoca bipolare, finì anche il ruolo (anche qui, non particolarmente influente) che il Rais si era disegnato nel composit eterogeneo che si ritrovava nei Paesi Non Allineati, strutturazione d’altra parte superata da un mondo ormai privo della contrapposizione tra Est e Ovest. Proprio in quell’ambito, in effetti, avrebbero potuto trovare maggiore eco le teorie di Gheddafi: indisponibile a divenire cinghia di trasmissione del modello sovietico, ma fortemente contrassegnato da posizioni anti-imperialiste e nazionaliste, il blocco, che vedeva il maresciallo Tito e Indira Ghandi come leader più influenti, aveva potenzialmente un’apertura concettuale alle suggestioni gheddafiane. Ma, anche in quel contesto, il personaggio di Gheddafi divenne il primo killer delle tesi e del ruolo di Gheddafi stesso.
La sua repentina riconversione all’obbedienza verso l’Occidente non gli è però bastata a salvargli né il dominio sulla Libia né la sua stessa vita. Furbo, certo; equilibrista, forse. Ma non abbastanza scaltro da comprendere come finanziare alcuni governi europei in cambio della sua rivalutazione non sarebbe comunque stato sufficiente a paragone di quanto le ricchezze energetiche del suo Paese promettono. Il sipario calato a Sirte é stato così solo l’ultimo atto di un beduino che volle farsi re, senza capire che il trono su cui sedeva era infinitamente più interessante del sovrano stesso.