di Mario Braconi

La scorsa domenica, tra le proteste dei manifestanti anti-Assad, si è tenuto al Cairo il meeting della Lega Araba convocato dal Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG, ovvero Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Oman, Qatar ed Emirati Arabi Uniti, più Giordania e Marocco che con il Golfo hanno poco a vedere, ma sono comunque regni arabi). Argomento ufficiale dell’incontro, il deteriorarsi della situazione siriana e la conseguente possibile espulsione del Paese dal “club”, che alla fine è stata respinta.

L’attivismo interessato dell’Arabia Saudita sul caso Siria è evidente sin da quanto, il 7 agosto scorso, fu la prima nazione araba a condannare apertamente l’uccisione di civili nel corso delle violenze di piazza in Siria. “O il governo siriano sceglierà la saggezza di sua spontanea volontà, oppure finirà per scivolare e perdersi nel caos”, dichiarò in quell’occasione il re Adbullah, esortando il governo siriano a seguire la strada delle riforme, “non quelle promesse, ma quelle reali, che possano essere percepite dai nostri fratelli cittadini siriani nella loro vita quotidiana.”

Difficilmente l’Arabia Saudita può essere considerata il baluardo dei diritti umani nel mondo arabo: non solo per ovvie considerazioni sulla sua situazione politica interna, ma anche a valle delle sue iniziative politiche legate alle rivolte arabe. Il Regno ha offerto ospitalità a Ben Ali, cacciato dalla Tunisia dal suo popolo inferocito; espresso imbarazzo per il processo all’ex dittatore egiziano Hosni Mubarak, definendolo “uno spettacolo umiliante per tutti” e, sotto l’ombrello dello “Scudo della Penisola” (il braccio militare del CCG), ha inviato truppe saudite in un altro Paese, il Bahrein, per sostenere la repressione contro le sollevazioni popolari.

In sintesi, l’agenda politica del Regno può essere così riassunta: da un lato, contrastare la cosiddetta primavera araba, mantenendo quanto più a lungo possibile lo status quo ed accreditandosi come potenza di riferimento nella Regione. Dall’altra, regolare i conti con il regime siriano di Al-Assad, di cui è naturale nemico, per motivi di religione e di strategia. Agli occhi dei sauditi, il problema di Al-Assad non è quello di calpestare diritti umani e democrazia, quanto quello di appartenere alla setta alawita, una minoranza non vista di buon occhio dai sunniti (che, incidentalmente, rappresentano circa i tre quarti della popolazione siriana). Se aggiungiamo che sono noti gli eccellenti rapporti tra la Siria e l’Iran (sciita) e che il regime siriano è forse l’unico nell’area non dominato dai religiosi, è chiaro come, per Ryad, la rivolta siriana contro la dittatura rappresenti un’eccellente opportunità per togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

Secondo voci insistenti, tra l’altro, il Regno starebbe sostenendo la resistenza anti-Assad, oltre che con un sostegno politico ufficiale presso la Lega Araba, anche in modo più opaco e fattivo. In questo senso, sono interessanti le parole di Muhammad Rahhal, capo del Consiglio Rivoluzionario Siriano dei Comitati di Coordinamento (opposizione), che a fine agosto dichiarava al giornale siriano stampato in Gran Bretagna Asharq Alawsat: “Abbiamo adottato una risoluzione per armare la rivoluzione, che prenderà una direzione aggressiva molto presto”. Al giornalista che gli chiedeva come la resistenza pensasse di procurarsi le armi necessarie, Rahhal ha risposto in modo ambiguo: “Fintanto che avremo qui gli Stati Uniti, ci saranno sempre armi”; e l’unico Paese dell’area che ospita basi USA è proprio l’Arabia Saudita.

Tormando alla riunione della Lega Araba, a dispetto del discorso pieno di ovvietà tenuto domenica dal ministro degli Esteri del Qatar, Jasim Bin Jabir Al-Thani, è stata approvata una road map che dovrebbe condurre ad un cessate il fuoco in Siria entro due settimane, scandita da incontri tra rappresentanti dell’opposizione e del regime, da tenersi al Cairo.

La proposta di negoziati è stata immediatamente respinta tanto dal governo siriano (perché ciò costituirebbe una limitazione alle prerogative di uno stato sovrano), che dai suoi oppositori: questi ultimi hanno fatto sapere da tempo di non voler scendere a patti con Al-Assad: esemplare, in tal senso, il commento affidato da Suhair Atassi, una delle figure di spicco dell’opposizione, al suo account su Twitter: “lo abbiamo detto nel giorno in cui è caduto il primo martire: nessun dialogo con gli assassini”.

In ogni caso, domenica non è passata la proposta di sospendere la Siria dalla Lega Araba, che richiederebbe il voto favorevole di due terzi del parlamento della Lega Araba: diversi paesi del “club”, tra cui Sudan, Algeria, Libano e Yemen sono infatti contrari. Del resto, nemmeno presso le Nazioni Unite (NU) è stato possibile stigmatizzare la violenza di stato siriana (si parla di ben 3.000 morti dall’inizio delle sollevazioni popolari, tra cui ben 187 bambini): la condanna ufficiale da parte del Consiglio di Sicurezza è stata infatti impedita dal veto di Russia e Cina e dall’astensione di Brasile, India e Sud Africa.

L’inviato russo presso le NU Vitaly Churkin, assieme all’ambasciatore cinese, Li Boadong, hanno spiegato di non voler offrire alcun pretesto ad eventuali future azioni determinate ad un regime change in Siria. Secondo Churkin la “filosofia del confronto dei paesi occidentali costituisce un ostacolo al possibile accordo tra governo ed opposizione”. Aldilà dell’interesse USA per la caduta di Al-Assad, osteggiato dalle altre potenze, al momento non vi sono le condizioni per alcun accordo tra le due fazioni, mentre appare chiaro che la Russia stia difendendo soprattutto la sua storica alleanza con Damasco, che tra l’altro vede prosperare il suo lucroso business di esportazione di armi. Dopo l’embargo sulla Libia, infatti, la Siria costituisce un eccellente mercato di sbocco.

Intanto, in Siria si continua a morire. Il sito dei Local Coordination Committees (LCC), che rappresenta l’opposizione, parlava l’altro ieri di 23 morti tra le fila degli oppositori del regime nella città di Homs, mentre Al-Jazeera riporta le notizie acquisite dal gruppo britannico Syrian Observatory for Human Rights (SOHR), secondo cui 11 soldati sarebbero stati uccisi dagli oppositori, di cui quattro mediante un dispositivo esplosivo a comando remoto.

Il Comitato, inoltre, riporta la notizia secondo cui uomini del governo siriano starebbero rastrellando studi medici, ospedali e cliniche private sospettati di curare gli oppositori feriti nel corso delle dimostrazioni, coerente con una testimonianza diretta raccolta da chi scrive circa due settimane fa. In particolare, si parla di raid presso gli ospedali Al Fatih e Al Rajaa, nei pressi di Damasco, e dell’arresto di circa 250 tra medici e farmacisti dall’inizio della rivolta.

Nessun dialogo, quindi, tra governo e opposizione, ma il regime di Assad sembra comprendere l’urgenza di uscire dall’isolamento in cui si trova. A proposito di riforme, secondo l’agenzia Nena News, oggi Al-Assad avrebbe nominato un comitato incaricato di redigere una nuova Costituzione; forse un piccolo passo verso la riduzione del peso politico del partito Baath, ma è comunque difficile che un blando atto distensivo, nel corrente contesto esplosivo, possa avere qualche effetto concreto.

 

 

di Michele Paris

Mentre le proteste contro lo strapotere della finanza si allargano spontaneamente in tutti gli Stati Uniti e altrove, i manifestanti scesi per le strade di New York nelle ultime settimane stanno iniziando a formulare le prime richieste concrete alla politica americana. Tra di esse c’è quella di prolungare una modesta imposta aggiuntiva sui redditi dei residenti più ricchi dello stato di New York. Una richiesta però fermamente respinta dal governatore democratico, Andrew Cuomo.

Nel corso di una recente conferenza stampa, Cuomo ha ribadito che non intende ascoltare gli appelli provenienti dal movimento “Occupy Wall Street”. “Il fatto che tutti vogliano questa tassa non significa molto”, ha sostenuto il governatore. “Io rappresento i cittadini. La loro opinione è importante ma non ho intenzione di cambiare le mie decisioni a seconda di come tira il vento”, ha aggiunto riferendosi alla sua promessa elettorale di non aumentare le tasse.

Cuomo ha spiegato che questa tassa danneggerebbe la competitività dello stato di New York, a tutto vantaggio di quelli vicini, e spingerebbe i residenti più facoltosi a trasferirsi altrove. Il governatore ha affermato di essere in ogni caso favorevole a un’imposta di questo genere, se applicata dal governo federale, così da colpire tutti i cittadini americani con i redditi più alti. Visti gli equilibri di potere al Congresso, tuttavia, una misura simile non ha nessuna possibilità di essere approvata nell’immediato futuro.

Per giustificare la sua posizione irremovibile di fronte ad un provvedimento che è estremamente popolare nel suo stato, Cuomo ha poi citato il padre Mario - governatore di New York dal 1983 al 1994 - e la sua ferma opposizione alla pena di morte, per la quale era invece a favore la maggioranza dello stato, come se la difesa delle classi privilegiate e la battaglia contro la pena capitale fossero in qualche modo equiparabili.

La sovrattassa in questione è attualmente applicata nello stato di New York ai single con redditi superiori ai 200.000 dollari annui e alle coppie sposate con entrate oltre i 300.000 dollari. Se non ci saranno interventi da parte del governatore o del Parlamento statale, la tassa cesserà di esistere il 31 dicembre prossimo. Alcuni parlamentari democratici hanno in realtà cercato di introdurre un’estensione della tassa, questa volta riguardante i redditi superiori al milione di dollari, ma lo stesso Cuomo, in collaborazione con i repubblicani, è riuscito ad evitarne l’approvazione.

Secondo la proposta democratica, la nuova “millionaire’s tax” potrebbe generare 4 miliardi di dollari di entrate per le casse statali, di cui 2,8 miliardi già dal prossimo anno fiscale. Un importo significativo quest’ultimo, soprattutto alla luce di un deficit di bilancio pari a 2,4 miliardi che lo stato di New York si troverà a dover fronteggiare. Escludendo il mantenimento dell’imposizione fiscale aggiuntiva sui più ricchi, il buco verrà inevitabilmente colmato con nuovi tagli alla spesa sociale che andranno ad aggiungersi a quelli già operati da Cuomo negli ultimi mesi.

I miliardi di dollari su cui lo stato di New York non potrà più contare dal primo gennaio prossimo per finanziare l’assistenza sanitaria, il sistema scolastico e altri servizi pubblici essenziali, finiranno così sul conto di quel 2 per cento di residenti al vertice della piramide sociale. Tutto questo, come ha mostrato un recente sondaggio del Siena College, nonostante il 72 per cento degli elettori registrati nello stato sia favorevole all’estensione della tassa sui milionari.

A chiedere l’imposizione della sovrattassa non sono solo i manifestanti che hanno invaso Wall Street o, nello scorso fine settimana, la capitale dello stato di New York, Albany, ma anche svariati delegati democratici all’assemblea statale e numerose organizzazioni sindacali. Proprio i sindacati che oggi chiedono ai redditi più elevati un modesto sacrificio, sono stati in prima fila lo scorso anno per fare eleggere il governatore Andrew Cuomo con un programma di austerity e, ancora, sono risultati determinanti per far digerire i massicci tagli al settore pubblico implementati negli ultimi mesi.

L’atteggiamento dei sindacati e di molti esponenti del Partito Democratico che oggi sfilano accanto ai manifestanti nelle strade, e chiedono al governatore Cuomo di far pagare una piccola parte della crisi ai ricchi, suona come un chiaro avvertimento per gli studenti, i lavoratori e i disoccupati del movimento “Occupy Wall Street”. Il loro appoggio ai manifestanti non è altro infatti che un tentativo di limitare le rivendicazioni di piazza a qualche richiesta “ragionevole”, così da fornire una valvola di sfogo sicura alle crescenti tensioni sociali che attraversano il paese.

Il tutto, possibilmente, canalizzando la protesta verso l’imminente inizio della campagna elettorale democratica per il voto del 2012, a cominciare da quella per la rielezione del “male minore” Obama, ed evitando qualsiasi evoluzione verso un prospettiva autenticamente alternativa al sistema dominante, ultraliberista e bipartitico.

di Michele Paris

Con l’annuncio della caduta definitiva di Bani Walid diffuso lunedì, i “rivoluzionari” libici sembrano avere annientato una delle due rimanenti roccaforti principali della resistenza pro-Gheddafi a due mesi dalla conquista di Tripoli. Le forze guidate dal Consiglio Nazionale di Transizione (CNT), appoggiate dalla NATO, si apprestano ora a dare l’assalto finale a Sirte, dove la situazione umanitaria è precipitata in seguito ai massicci bombardamenti aerei e alle operazioni di terra condotte dagli ex ribelli.

I giornalisti al seguito delle forze del CNT l’altro giorno hanno documentato l’ingresso di queste ultime nei quartieri centrali della cittadina situata nel deserto a 140 km in direzione sud-est da Tripoli. I comandanti militari hanno affermato di avere liberato completamente Bani Walid, dove sarebbero ormai cessate del tutto le operazioni dei fedeli di Gheddafi. Dopo i falliti negoziati con i capi tribali per una resa pacifica, la città è stata al centro di un durissimo assedio nelle ultime settimane, che ha causato ingenti danni agli edifici e ha inflitto gravi sofferenze alla popolazione civile.

In una dichiarazione rilasciata al quotidiano britannico Daily Telegraph, uno dei leader militari del CNT, Mohammed Shakonah, ha confermato che “Bani Walid è stata definitivamente liberata nella notte tra domenica e lunedì. Le brigate fedeli a Gheddafi sono state costrette al ritiro e abbiamo conquistato le nostre posizioni” nella città.

Dopo la caduta di Tripoli e la fuga del Colonnello lo scorso mese di agosto, i vertici del CNT avevano dichiarato che la liberazione del paese sarebbe stata dichiarata una volta prese Bani Walid e Sirte. Proprio quest’ultima località - città natale di Gheddafi sulla costa del Mediterraneo - rimane ora l’ultimo avamposto di una qualche resistenza alle forze sostenute dal fuoco e dalle armi della NATO.

Anche Sirte, in realtà, risulta ormai quasi completamente conquistata, dal momento che rimangono solo alcune sezioni della città in mano ai fedeli del rais e tutto fa pensare che le ultime sacche di resistenza saranno piegate a breve. Nella giornata di martedì, infatti, il CNT ha lanciato quello che dovrebbe essere l’assalto decisivo alla città, con una forza di circa mille uomini e l’appoggio aereo della NATO.

L’offensiva dei “rivoluzionari” anti-Gheddafi ha peraltro già causato la pressoché totale devastazione di Sirte e la fuga di buona parte dei suoi centomila abitanti. Quelli ancora rimasti all’interno della città si trovano invece in condizioni a dir poco precarie, spesso senza un’abitazione né accesso a cibo, acqua e assistenza medica.

Nonostante gli eventi in corso a Sirte e a Bani Walid siano scomparsi da settimane dalle prime pagine dei giornali occidentali, sono svariati i resoconti che testimoniano la distruzione operata dai combattenti del CNT e dalla NATO. Secondo un inviato del Washington Post entrato a Sirte nel fine settimana, “dopo settimane di battaglia intensa, la città natale di Gheddafi è apparsa sabato in gran parte distrutta e la popolazione fuggita”. Allo stesso modo, per il Telegraph, Sirte è ormai ridotta a un cumulo di “squallide rovine” e lo scenario che si presenta agli occhi del corrispondente britannico ricorda “le orribili scene viste a Grozny alla fine della sanguinosa guerra condotta dall’esercito russo in Cecenia”.

Come ha denunciato Medici Senza Frontiere, circa dieci mila civili rimasti ancora a Sirte - tra cui donne, bambini e feriti - si trovano bloccati in aree dove continuano ad infuriare i combattimenti ed è impossibile portare assistenza medica. Vendette e saccheggi da parte dei “rivoluzionari” sono ampiamente documentati e particolarmente spietato appare il comportamento dei reparti provenienti da Misurata, città che ha subito uno dei più intensi assedi del regime di Gheddafi nelle fasi iniziali del conflitto in Libia.

A conferma della natura punitiva di molte operazioni delle truppe del CNT ci sono poi le testimonianze degli abitanti di Sirte raccolte dai reporter sul campo. Un residente di questa città costiera, ad esempio, ha riferito alla Reuters che “le forze del CNT demoliscono e saccheggiano case, negozi e edifici pubblici”. Secondo un altro civile, invece, “quello che sta accadendo a Sirte è una vendetta, non una liberazione”.

Durante il conflitto, d’altra parte, l’avanzata degli ex ribelli è stata accompagnata da vendette violente e detenzioni arbitrarie di presunti sostenitori del vecchio regime, per non parlare degli attacchi razzisti indiscriminati contro libici di colore e immigrati sub-sahariani, accusati quasi sempre senza ragione di essere mercenari al servizio di Gheddafi.

Ancora una volta, e in maniera ancora più evidente, il trattamento riservato alle città di Bani Walid e Sirte, e ai loro abitanti, rivela dunque il vero carattere della presunta operazione umanitaria promossa dall’Occidente contro il regime di Gheddafi. L’avventura neo-coloniale, intrapresa ufficialmente per fermare la repressione e le violenze da parte del governo di Tripoli contro la popolazione civile di città come Bengasi, si è trasformata in un incubo di distruzione e vendette di massa ai danni dei civili residenti nelle località che hanno ospitato l’estrema resistenza delle forze fedeli al Colonnello.

In questo scenario, i leader delle potenze occidentali che hanno scatenato il conflitto per rovesciare il regime di Gheddafi e instaurare un nuovo governo più docile e disponibile a “condividere” le enormi ricchezze minerarie della Libia continuano a sfilare a Tripoli per manifestare la loro solidarietà al governo di transizione.

Lunedì è giunto nella capitale il ministro degli Esteri britannico, William Hague, per festeggiare la riapertura dell’ambasciata di Londra dopo i danneggiamenti seguiti allo scoppio della guerra. Hague ha promesso un nuovo pacchetto di aiuti al governo provvisorio di Tripoli. Ulteriori aiuti sono stati annunciati anche da Hillary Clinton, approdata in Libia martedì per incontrare il presidente del CNT, Mustafa Abdul Jalil.

Quella della ex first lady è la visita del più autorevole esponente del governo americano nel paese nordafricano dopo la caduta del regime e la prima di un Segretario di Stato americano dal 2008, quando Condoleezza Rice ebbe un incontro molto cordiale con un Gheddafi da poco sdoganato dall’amministrazione Bush. Erano altri tempi…

di Mario Braconi

Mentre vengono pubblicati i loro nomi, i primi 477 prigionieri palestinesi che verranno rilasciati martedì come contropartita per la liberazione del caporale Gilad Shalit sono stati trasferiti dall’amministrazione penitenziaria israeliana in due centri per l’espletamento delle formalità di rito. Continua a salire la tensione tanto in Israele (dove secondo Reuters quasi l’80% degli intervistati approva lo scambio), che presso le famiglie di quei palestinesi (di Al-Fatah) esclusi dall’accordo. Secondo la legge israeliana i nomi dei detenuti devono essere pubblicati prima del loro rilascio, al fine di consentire ai terzi di opporsi alla grazia concessa dallo stato di Israele, ovvero alla premessa giuridica del loro ritorno in libertà (anche se per una quarantina di loro per la verità è previsto l’esilio come condizione).

Comprensibilmente, molte delle famiglie di vittime di attentati di cui lo stato di Israele ha riconosciuto colpevoli gli uomini e le donne che domani verranno rimessi in libertà hanno fatto opposizione; secondo Reuters sono quattro le petizioni presentate alla Suprema Corte dalle varie associazioni di vittime, anche se quasi sicuramente non se ne farà nulla. Quello dello scambio dei mille e più palestinesi contro Gilad é un passaggio politico ed è inevitabile che finisca per gettare del sale su ferite ancora aperte: la pubblicazione ai fini di opposizione è un rituale vuoto quanto ipocrita.

C’è perfino da domandarsi se la procedura che prevede la pubblicazione di questi nominativi, pur ineccepibile dal punto di vista delle regole di una democrazia, sia auspicabile da un punto di vista politico. E’ evidente, infatti, che in casi come questo alcune regole dello stato di diritto vengono sospese come premessa ad un dividendo politico ritenuto di maggiore importanza: nemmeno il più ingenuo degli osservatori arriverebbe a dire che l’obiettivo qui sia la ripresa di colloqui di pace, perché all’ordine del giorno è piuttosto il tentativo di Israele di spezzare l’isolamento in cui è stato trascinato dai suoi politici, nonché, internamente, ribadire la sacralità della vita del soldato israeliano, pietra angolare della sua retorica propagandistica. Hamas tenta invece di guadagnare credibilità con gli altri player arabi della zona, come interlocutore in grado di alzare la posta in modo impensabile.

Proprio perché è in gioco un obiettivo più alto, ha un senso decidere di “dimenticare” il caso della ragazza ventiquattrenne che nel 2001, a suon di promesse di sesso su una chat room, ha attirato un ragazzino di 16 anni nel luogo dove è stato assassinato a causa della sua ingenuità e della sua appartenenza ad un popolo “nemico”. O di restituire la libertà a un uomo che nel 2000, oltre ad aver preso parte al linciaggio di due soldati “nemici” (con quale ruolo non è chiaro), ha voluto esser simbolicamente legato a quell’osceno episodio: una foto infatti lo ritrae mentre si affaccia ad una finestra mostrando agli astanti le mani rosse del sangue delle vittime.

Mentre cresce la rabbia delle famiglie degli membri di Al Fatah non poi così casualmente dimenticati da Hamas al momento di stilare la sua lista dei desiderata ad Israele, sui quotidiani israeliani i parenti di questa o quella vittima danno sfogo alla loro comprensibile frustrazione. Su Haaretz Avika Eldar scrive di un progetto di legge cui stanno lavorando i politici israeliani per dimostrare alla parte più anti-palestinese della popolazione che i loro timori e la loro delusione vengono tenuti nella dovuta considerazione. Si tratta di un progetto di legge che dovrebbe regolamentare rigidamente i casi di scambio di prigionieri con i palestinesi.

Secondo quanto riferisce Eldar, il riferimento dei politici israeliani sono le conclusioni del cosiddetto Comitato Shamgar del 2008, finora mai pubblicate: anche se, secondo le fonti non ufficiali del giornalista israeliano, una delle raccomandazioni del comitato prevedrebbe un “tasso di scambio” di uno ad uno (un israeliano contro un palestinese), secondo la bozza esso dovrebbe essere funzione “delle circostanze dell’incidente”. Cosa significhi questo non è chiaro. Come la mettiamo, scrive sarcasticamente Eldar, se un nostro elicottero in avaria finisce per atterrare al centro di Gaza? “Diamo [ai Palestinesi] due “con le mani sporche di sangue” spiegando che comunque il governo non ci permette di dar via più di 50 mezze tacche di Hamas?” E a proposito, siamo sicuri che mani di quel pilota che bombarda una zona abitata dove può far fuori decine di bambini, siano poi così pulite?

Se non esiste la possibilità di soccorrere gli israeliani in sicurezza, la nouvelle vague prossima ventura vorrebbe che le negoziazioni venissero congelate per un paio di mesi: peccato che, come ricorda Eldar, l’esitazione del governo in questi casi non conduca a “sconti”. Anzi, corrode la fiducia dell’opinione pubblica nel tanto sbandierato amore del governo per i suoi soldati; quando poi alla fine si arriva ad un accordo, è quasi inevitabile che esso finisca per apparire quello che è, ovvero una “capitolazione all’opinione pubblica più che una scelta razionale”.

Il caso Shalit non è servito dunque proprio a niente? Sembra proprio che i politici israeliani facciano di tutto per eludere l’elefante nella stanza, che è l’occupazione: il vero nodo che continuerà a mietere vittime, mentre si continuerà a rapire soldati da una parte e ad assassinare (in modo “mirato”?) i sospetti criminali dall’altra.

di Michele Paris

Con il ballottaggio delle primarie di domenica, il Partito Socialista francese ha scelto il proprio candidato per le elezioni presidenziali che il prossimo anno dovrà sfidare Nicolas Sarkozy. A conquistare la maggioranza dei consensi espressi dai 2,7 milioni di francesi che hanno partecipato al voto è stato l’ex segretario del partito, François Hollande, impostosi sull’attuale leader dei socialisti, Martine Aubry. Il 57enne Hollande ha raccolto circa il 56 per cento dei suffragi contro il 44 per cento della rivale. Nel primo turno delle primarie lo scorso 9 ottobre, il primo aveva ottenuto il 39,2 per cento contro il 30,4 per cento della Aubry.

La vera sorpresa del primo turno era stato il candidato dell’ala sinistra del partito, Arnaud Montebourg, con il 17,2 per cento. L’exploit di quest’ultimo aveva spinto al quarto posto l’ex candidata alle presidenziali del 2007, Ségolène Royal (7%), e ancora più giù l’esponente della corrente più liberista del partito, Manuel Valls (5,6%). L’appoggio di questi ultimi due dopo il primo turno ha comunque contribuito al successo di Hollande nel ballottaggio.

Secondo i più recenti sondaggi, François Hollande appare in vantaggio nei confronti di Sarkozy, anche se la campagna elettorale vera e propria non é ancora iniziata e l’impopolare presidente non ha ancora annunciato ufficialmente la sua intenzione di correre per la rielezione. Il primo turno delle presidenziali è previsto per il 22 aprile e l’eventuale ballottaggio andrà in scena il 6 maggio.

Nonostante il basso profilo del candidato Hollande, i socialisti sembrano in ogni caso avere buone chance di conquistare la presidenza nel 2012, alla quale dal 1958 hanno portato un solo uomo, François Mitterand, uscito dall’Eliseo ormai più di sedici anni fa. A determinare gli equilibri del confronto di aprile sarà anche il livello di gradimento che sarà in grado di raccogliere la candidata del Fronte Nazionale, Marine Le Pen, in un momento in cui in tutta Europa la critica al sistema neoliberista sembra essere affidata pressoché unicamente all’estrema destra.

A penalizzare Hollande - esponente dell’ala moderata del PS - è anche la sua mancanza di esperienza di governo a livello nazionale. Pur vantando un curriculum accademico di primissimo livello (HEC, ENA), il candidato socialista non ha mai ricoperto incarichi ministeriali. Attualmente occupa un seggio al Parlamento di Parigi ed è il presidente del dipartimento della Corrèze, uno dei più piccoli dell’intera Francia. Hollande è stato inoltre segretario del Partito Socialista tra il 1997 e il 2008 in un periodo di grandi difficoltà e divisioni, prima di cedere il testimone a Martine Aubry.

Protetto dell’ex presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, Hollande era ad esempio alla guida del partito nel 2002 quando Lionel Jospin non riuscì nemmeno a conquistare il secondo turno nelle elezioni presidenziali, venendo battuto da Chirac e Le Pen, e nel 2005, quando i socialisti si divisero sulla nuova costituzione UE, bocciata dai francesi in un referendum popolare. Hollande è stato il partner di Ségoléne Royal, dalla quale ha avuto quattro figli e si è diviso nel 2007 poco dopo la sconfitta di quest’ultima nella corsa all’Eliseo.

Le primarie socialiste in Francia erano state segnate dallo scandalo Strauss-Kahn, accusato di stupro ai danni di una cameriera in una suite di un hotel newyorchese. Hollande ha indubbiamente beneficiato del voto degli elettori più moderati su cui contava l’ex direttore del FMI. Allo stesso modo, la candidatura di Martine Aubry è stata poco più che improvvisata, dal momento che la segretaria del partito aveva deciso in precedenza di correre nelle primarie solo in caso di rinuncia da parte di Strauss-Kahn.

Il voto per la scelta del candidato presidente per il Partito Socialista era stato preceduto da alcuni dibattiti trasmessi in diretta TV che hanno fatto registrare indici d’ascolto elevati. Mentre Hollande si era presentato come candidato centrista, Martine Aubry aveva cercato di posizionarsi relativamente più a sinistra.

In realtà, a ben vedere, non sono emerse differenze sostanziali tra i due candidati promossi al ballottaggio. Nessuno dei due, inoltre, ha preso le distanze in maniera netta da alcune delle politiche di Sarkozy. Entrambi, ad esempio, appoggiano l’intervento in Libia e hanno promesso di voler proseguire la politica economica di rigore adottata dall’attuale governo nel corso della crisi finanziario in atto.


Altrenotizie.org - testata giornalistica registrata presso il Tribunale civile di Roma. Autorizzazione n.476 del 13/12/2006.
Direttore responsabile: Fabrizio Casari - f.casari@altrenotizie.org
Web Master Alessandro Iacuelli
Progetto e realizzazione testata Sergio Carravetta - chef@lagrille.net
Tutti gli articoli sono sotto licenza Creative Commons, pertanto posso essere riportati a condizione di citare l'autore e la fonte.
Privacy Policy | Cookie Policy