di Michele Paris

Come annunciato, il regime del Myanmar ha avviato qualche giorno fa la liberazione di alcuni delle migliaia di prigionieri politici che ospita nelle proprie carceri. L’iniziativa del nuovo governo civile è solo l’ultima di una serie che sta facendo registrare una certa apertura del paese sud-est asiatico e segna un chiaro riallineamento della politica estera della ex Birmania. Per oltre duecento detenuti politici mercoledì scorso si sono aperte le porte delle carceri in Myanmar. Il numero dei rilasciati è per ora di gran lunga inferiore a quello che ci si attendeva, ma la scarcerazione di altri prigionieri dovrebbe avvenire nel prossimo futuro. A chiederlo sono i governi occidentali, le organizzazioni dei dissidenti espatriati e quelle a difesa dei diritti umani, alle quali si è aggiunto venerdì il Segretario Generale dell’ONU, Ban Ki-moon.

La misura presa dal governo era stata annunciata dal presidente Thein Sein, in risposta ad una richiesta della Commissione per i Diritti Umani istituita recentemente dal governo centrale, e rientra nel quadro di una più ampia amnistia che dovrebbe riguardare oltre 6.300 prigionieri condannati per qualsiasi genere di reato.

Secondo le stime di Amnesty International, nel paese ci sarebbe un totale di circa duemila detenuti per crimini di natura politica. Tra quelli rilasciati mercoledì ci sono il popolare comico birmano Zarganar - arrestato nel 2008 e condannato a 35 anni di carcere - e il leader della minoranza etnica Shan, generale Hso Ten, il quale doveva scontare 106 anni per alto tradimento. Tuttora dietro le sbarre rimangono invece molti importanti esponenti dell’opposizione al regime coinvolti nella rivolta studentesca del 1988.

Il provvedimento di grazia risponde anche alle ripetute richieste fatte dagli Stati Uniti e dall’Occidente che chiedevano questa misura per avviare un dialogo e giungere finalmente alla rimozione delle sanzioni applicate al regime del Myanmar. Il presunto nuovo corso del governo di questo paese era iniziato con le elezioni dello scorso novembre che hanno ufficialmente messo fine al governo della giunta militare, al potere dal colpo di stato del 1962.

Pochi giorni dopo lo storico voto -che ha comunque garantito un ruolo privilegiato ai militari - erano stati inoltre revocati gli arresti domiciliari all’icona del movimento democratico, Daw Aung San Suu Kyi, mentre, più recentemente, è stata in parte allentata la censura sui mezzi di informazione e bloccata la costruzione di una mega diga appaltata ai cinesi. La “svolta” del regime era stata in qualche modo suggellata dall’incontro andato inscena lo scorso agosto nella capitale, Naypyidaw, tra la stessa Aung San Suu Kyi e il presidente Thein Sein.

Da molti in Occidente questi segnali sono stati valutati come l’inizio di un serio processo di democratizzazione nella ex Birmania dopo quasi cinque decenni di dittatura militare. Alcuni, al contrario, ritengono si tratti solo di cambiamenti esteriori che non cambiano la sostanza del regime. Per altri, ancora, le misure prese da meno di un anno a questa parte sono i tentativi di una classe dirigente di nuova generazione di liberalizzare il paese, con il rischio però che la vecchia guardia dei militari possa intervenire da un momento all’altro per rimettere indietro le lancette dell’orologio nel paese.

La liberazione dei primi prigionieri politici è stata salutata positivamente da Washington. Proprio lunedì scorso nel corso di una conferenza a Bangkok, l’assistente al Segretario di Stato per l’Asia e il Pacifico, Kurt Campbell, aveva elogiato gli sviluppi della situazione politica in Myanmar, suggerendo la possibilità di alleggerire le sanzioni applicate dagli Stati Uniti.

Questi timidi passi del regime in senso democratico sono d’altra parte dettati precisamente da una strategia tesa ad ottenere una qualche legittimità in seno alla comunità internazionale e, soprattutto, un riavvicinamento agli Stati Uniti e all’Occidente dopo anni di isolamento. L’obiettivo principale del governo post-giunta militare è in sostanza quello di attrarre assistenza economica e investimenti, così da svincolarsi dall’eccessiva dipendenza dalla Cina.

Questo equilibrismo tra le due potenze - comune peraltro a molti paesi dell’Asia sud-orientale - è risultato evidente il 30 settembre scorso, quando il governo birmano ha annunciato a sorpresa la sospensione della costruzione della diga Myitsone sul fiume Irrawaddy. Il progetto, stimato in 3,6 miliardi di dollari, era in mano alla compagnia pubblica cinese China Power Investment Corporation, la quale aveva già investito svariate centinaia di milioni di dollari.

L’annuncio è stato un verso e proprio schiaffo alla Cina ed è arrivato significativamente mentre era in corso nella capitale americana una storica visita del ministro degli Esteri del Myanmar, Wunna Maung Lwin, al Dipartimento di Stato. Il governo ha dichiarato di aver interrotto il progetto in seguito all’opposizione incontrata tra la popolazione. Che questo sia stato il vero motivo - e non, invece, una mossa strategica ben studiata per lanciare un messaggio a Pechino e a Washington - appare estremamente improbabile, dal momento che negli ultimi decenni il regime del Myanmar ha represso duramente qualsiasi movimento di protesta senza mostrare particolari scrupoli.

Il cambiamento di rotta della politica estera birmana, tuttavia, difficilmente cambierà la realtà sul campo nel prossimo futuro. La Cina rimane d’altronde il principale partner economico e sponsor di Naypyidaw e, verosimilmente, continuerà per molto tempo a ricoprire un ruolo di grande importanza. Allo stesso modo, il Myanmar rappresenta una pedina strategica fondamentale per Pechino, sia per la stabilità delle regioni di confine attraversate da inquietudini etniche che per la fornitura di risorse naturali e il trasporto di petrolio e gas naturale in transito dall’Oceano Indiano.

Tutto questo non può in ogni caso nascondere la realtà di un processo di distensione in corso tra il Myanmar e gli Stati Uniti. L’iniziativa in questo senso era stata presa a Washington subito dopo l’ingresso alla Casa Bianca di Barack Obama, il quale aveva ordinato una revisione integrale della strategia da perseguire nei confronti di questo isolato paese asiatico, nell’ambito di un più ampio e aggressivo disegno per il contenimento della Cina.

Pur continuando ad esercitare pressioni sul regime del Myanmar, gli USA hanno iniziato a loro volta a mostrare qualche apertura, inviando spesso diplomatici di alto livello a discutere con la controparte birmana. Una netta accelerazione al processo è stata data infine dalle elezioni del novembre 2010 e dal successivo insediamento di un governo nominalmente civile alla fine di marzo. Un’evoluzione che ha posto le basi per la liberazione dei detenuti politici e che preannuncia un ruolo di spicco per gli Stati Uniti in un paese così strategicamente importante per gli equilibri di questo angolo del continente asiatico.

di Mario Braconi

Il governo di Benjamin Netanyahu ha approvato la liberazione di 1.027 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane in cambio del rilascio da parte di Hamas del sergente Gilad Shalit, catturato il 25 giugno 2006 da un commando palestinese, che come obiettivo ufficiale si proponeva “la liberazione di tutte le prigioniere e i minorenni palestinesi incarcerati in Israele”. Un evento importante, dal momento che rimuove uno dei casus belli che contribuiscono ad infiammare i rapporti tra Israele e Palestinesi da molti anni, ma per molti versi preoccupante, tanto sul fronte interno che su quello delle relazioni con Al Fatah.

Israele ha impiegato regolarmente lo scambio di prigionieri palestinesi come metodo per ottenere la libertà di ostaggi israeliani o la restituzione dei loro corpi: secondo Reuters, negli ultimi 30 anni, per riportare a casa 16 connazionali (e le spoglie di altri 10) lo stato di Israele ha liberato circa 7.000 prigionieri palestinesi (in media un israeliano, in vita o meno, contro poco meno di 300 Palestinesi). In questo caso, però, a fare scalpore non è solo il numero insolitamente elevato dei prigionieri, ma anche il fatto che ben trecento di questi ultimi sono stati condannati all’ergastolo da un tribunale israeliano con accuse di omicidio (un dato confermato ufficialmente anche dalla dirigenza di Hamas).

Molte perplessità desta anche il modo in cui Hamas ha stilato la lista dei candidati al ritorno nella Striscia di Gaza: secondo Amos Harel e Avi Issacharoff di Haaretz, approvando questa lista Israele ha “attraversato più di una linea rossa”. Tra le persone che dovrebbero essere liberate sembra vi sia Abd Al-Hadi Ghanayem, che, il 6 luglio del 1989 prese il controllo di un autobus israeliano (il 405), facendolo precipitare in una scarpata dove prese fuoco (16 morti e 27 feriti); secondo i due giornalisti, tra i liberati vi sarebbero anche i responsabili del rapimento del soldato israeliano Nachshon Wachsman.

Il 9 ottobre del 1994 Wachsman, che stava facendo l’autostop, salì su un’automobile guidata da un palestinese vestito da ebreo chassidico con tanto di kippa, libro di preghiere mentre dall’autoradio si diffondeva musica tradizionale ebraica. Si trattava di un rapimento, terminato con la morte dell’ostaggio, ufficialmente ucciso dai suoi rapitori prima che i membri del commando che tentò di liberarlo qualche giorno dopo potessero salvarlo.

E’ un fatto che tra i nomi dei papabili vi siano quasi esclusivamente quelli di operativi di Hamas, tra cui Yihya Sanawar, il cui fratello è uno dei leader militari di Hamas e presumibilmente… uno dei rapitori di Shalit. Sembra che i dirigenti di Hamas abbiano fatto qualche vistosa “dimenticanza” nella compilazione della fatidica lista, come quella relativa a Marwan Barghouti, uno dei leader di Fatah. E pensare che, a quanto riferisce Haaretz, Khaled Meshal ha a suo tempo promesso alla sua famiglia di Barghouti che senza la sua liberazione non sarebbe stato possibile nessun accordo sullo scambio di prigionieri.

Comprensibile la rabbia della moglie di Barghouti: “Hamas ha prorogato l’accordo per due anni a causa delle resistenze [israeliane] sulla liberazione di cinque persone specifiche, tra cui Marwan; non capisco perché abbiano mollato proprio ora”. E’ evidente che Hamas ha bisogno di mostrare ai Paesi vicini quanto sia forte e rilevante; e che d’altra parte non ha particolare interesse a lasciare liberi “pezzi da novanta” di West Bank.

La gravità della situazione è simboleggiata dal caso dei cugini Fakhri and Nael Barghouti: i due sono in carcere da trentaquattro anni: ad ogni possibile occasione, nonostante il tema della loro liberazione fosse ricorrente, Israele ha sempre rifiutato di liberarli, per una questione di principio: ora, il fatto che si sia deciso a farlo su richiesta di un’organizzazione come Hamas, non è un bel segnale.

E’ difficile non condividere l’opinione di Harel e Issacharoff, che la esprimono in modo brutale: questo non è uno sputo in faccia all’Autorità Palestinese, è qualcosa di ben peggiore. Sembra dunque che la mossa cui si è deciso Nethanyau, per alleggerire la pressione interna (sembra che oltre il 60% degli israeliani sia d’accordo con lo scambio, a parte, comprensibilmente, i parenti delle vittime degli attentati di cui si sono resi responsabili alcuni dei palestinesi liberati) e quella internazionale finirà per essere un boomerang.

 

 

di Michele Paris

Con un’ampia maggioranza, il Congresso americano mercoledì ha finalmente dato il via libera definitivo a tre trattati di libero scambio le cui sorti erano in stallo da anni dopo essere stati negoziati da George W. Bush. I nuovi accordi siglati con Colombia, Corea del Sud e Panama rappresentano una limitata vittoria per il presidente Obama, anche se i propagandati effetti benefici sull’economia americana saranno tutti da verificare.

La Camera dei Rappresentanti e il Senato sono tornati a licenziare una legislazione riguardante l’abbattimento o la drastica riduzione di tariffe doganali per la prima volta dopo quattro anni, da quando cioè, nel 2007, venne ratificato un trattato bilaterale con il Perù. Nelle rispettive votazioni al Congresso i tre trattati hanno raccolto l’approvazione di gran parte dei parlamentari repubblicani, mentre non pochi democratici hanno espresso parere negativo, tra cui il leader di maggioranza al Senato, Harry Reid.

Il trattato di libero scambio più controverso era quello con la Colombia, osteggiato da molti - soprattutto nel Partito Democratico e tra le organizzazioni sindacali - per il trattamento riservato ai sindacati nel paese sudamericano. La Colombia ha infatti il più elevato tasso di assassini di sindacalisti del pianeta. Questo trattato è stato così quello che ha trovato la maggiore opposizione in entrambe le camere. Quelli approvati con la maggioranza più ampia sono stati invece Panama alla Camera e Corea del Sud al Senato.

Contestualmente, la Camera ha anche acconsentito al passaggio di una serie di benefit per quei lavoratori americani che perderanno il loro impiego a causa dell’aumentata competizione risultante dai trattati. Questa iniziativa era stata richiesta espressamente dai sindacati USA e da molti democratici ed aveva già in precedenza ottenuto il consenso del Senato.

L’approvazione dei tre trattati di libero scambio era sollecitata da tempo da gran parte delle corporation statunitensi e, significativamente, il voto decisivo è giunto solo pochi giorni dopo la bocciatura da parte del Senato del modesto pacchetto di misure proposte da Obama per combattere la disoccupazione negli Stati Uniti.

Per la Casa Bianca, i nuovi trattati di libero scambio avranno conseguenze positive sull’economia, a cominciare da una riduzione dei prezzi dei beni di consumo per gli americani - in seguito all’arrivo sul mercato USA di prodotti più economici provenienti da Colombia, Corea del Sud e Panama - e da un incremento delle esportazioni verso questi stessi paesi, i quali ridurranno o cancelleranno del tutto i dazi attualmente applicati alle merci statunitensi.

A ben vedere, tuttavia, il primo presunto beneficio potrebbe causare la perdita di numerosi posti di lavoro negli Stati Uniti a causa della concorrenza delle aziende di questi tre paesi, mentre nel secondo caso l’accesso ai mercati colombiano, sudcoreano o panamense per le merci americane comporterà verosimilmente una compressione dei salari, dal momento che le compagnie esportatrici dovranno comunque ridurre i loro costi operativi per essere competitive.

Secondo alcuni esperti, a trarre maggiore profitto dal flusso commerciale liberalizzato sarà il settore agricolo americano - più competitivo perché fortemente sovvenzionato dal governo - mentre cattive notizie si annunciano nuovamente per quello manifatturiero, che sarà costretto ancora una volta a fare i conti con licenziamenti e riduzioni degli stipendi.

Anche senza considerare le ripercussioni sui lavoratori americani, le pretese di Obama appaiono quanto meno dubbie. A pensarlo è anche un’agenzia federale che già nel 2007 aveva studiato gli effetti dei tre trattati, stimandoli di minimo impatto sull’economia e sui livelli di disoccupazione, poiché Colombia, Corea del Sud e Panama rappresentano una quota di mercato trascurabile per le merci e i servizi statunitensi.

Per questo motivo, al di là della retorica, i trattati di libero scambio sembrano avere un significato soprattutto strategico, in particolare quello stipulato con la Corea del Sud, fondamentale alleato di Washington in Estremo Oriente in funzione anti-cinese. L’accordo commerciale con Seoul avrà con ogni probabilità il maggiore impatto, visto che l’economia della Corea del Sud è di gran lunga la più grande dei tre paesi e la 14esima del pianeta.

I negoziati tra il presidente Obama e quello sudcoreano, Lee Myung-bak, giunto proprio mercoledì a Washington per una visita ufficiale, erano ripresi nel dicembre dello scorso anno, in seguito ai quali era stata concordata la versione definitiva del trattato di libero scambio. Le trattative erano andate in scena in un clima di forti tensioni con la Corea del Nord e gli Stati Uniti avevano esercitato enormi pressioni per ottenere condizioni più favorevoli sul fronte dell’apertura del mercato coreano, in particolare nei settori agricolo e automobilistico.

Se gli USA vantano una partnership strategica molto stretta con Seoul, lo stesso non si può dire per quanto riguarda i rapporti commerciale, almeno rispetto agli altri concorrenti su scala planetaria. Washington negli ultimi anni ha infatti ceduto terreno sia all’Unione Europea - che ha siglato da tempo un trattato di libero scambio con Seoul, entrato in vigore quest’anno - sia alla Cina, il cui volume d’affari con la Corea del Sud nel 2009 ha toccato i 156 miliardi di dollari contro i 68 degli Stati Uniti.

I trattati con Colombia, Corea del Sud e Panama, infine, erano stati fatti propri da Barack Obama solo dopo l’elezione alla Casa Bianca, mentre durante la campagna elettorale del 2008 si era mostrato contrario alla loro approvazione. Da allora, i tre accordi di libero scambio sono entrati a far parte del piano del presidente democratico per raddoppiare le esportazioni americane in cinque anni. Una strategia fondata principalmente sulla creazione di una manodopera interna a basso costo, fondamentale per garantire la competitività e i profitti delle aziende d’oltreoceano.

di Eugenio Roscini Vitali 

Ci sono le forze speciali di polizia messe in campo dalle autorità kosovare e i recenti scontri fra i manifestanti serbi e militari della NATO; le barricate e la presenza dei serbo-bosniaci di Banja Luka nel Kosovo settentrionale; le bombe esplose nel settore nord di Mitrovica e il ruolo della missione Eulex. Questa la situazione a nord del fiume Ibar, mentre il mediatore europeo Robert Cooper prova a sondare le prospettive di ripresa di dialogo tra Belgrado e Pristina e dopo aver parlato con i rappresentati serbi incontra il premier Hashim Thaci e il capo negoziatore kosovaro Edita Tahiri.

La posizione di Belgrado e di Pristina è chiara. Nei giorni scorsi la signora Tahiri aveva dichiarato che allo stato per il Kosovo settentrionale non si può parlare di questione politica e che non si può pensare a un'amministrazione temporanea internazionale della regione, ipotesi avanzata la settimana scorsa dal vice leader dell'AAK, Blerim Shala, e bocciata dalla stesa Tahiri.

L'intenzione è di riaprire le trattative con Belgrado limitatamente ai soli problemi di natura tecnica inerenti la vita quotidiana della popolazione, ma per il capo negoziatore serbo, Borislav Stefanovic, il dialogo con Pristina può invece riprendere solo a patto che si trovi una la soluzione alla questione legata ai due posti di frontiera di Jarinje e Brnjak, valichi di transito delle merci con la Serbia che la polizia e i doganieri kosovari controllano con l'appoggio di Eulex e degli uomini della KFOR.

A nord del fiume Ibar i segni della crisi sono ormai evidenti e gli incidenti di frontiera del 25 e 26 luglio che hanno interessato gli ingressi 1 e 31, nei quali ha perso la vita un poliziotto albanese, non sono stati altro che l'inizio di braccio di ferro che dura ormai da più di quattro mesi. In quell’occasione, per riprendere il controllo delle dogane, fino a quel momento presidiate dai poliziotti di etnia serba accusati di chiudere un occhio con le merci provenienti da Belgrado, il governo kosovaro aveva spedito al confine le unità speciali della polizia. La speranza era di risolvere la situazione utilizzando il fattore sorpresa, ma alla fine l'azione si era conclusa nel peggiore dei modi; la popolazione aveva  reagito innalzando le prime barricate e i primi posti di blocco e Pristina era stata costretta a chiedere l'intervento della KFOR.

Lo stallo è proseguito fino alla tarda serata di lunedì 26 settembre, quando i militari tedeschi della NATO sono entrati in azione per smantellare una barricata che però è stata subito ricostruita. Per liberare i blocchi stradali che impedivano il movimento dei mezzi militari, la KFOR è entrata di nuovo in azione nelle prime ore del giorno successivo: in corrispondenza del posto di frontiera di Jarinje sono stati usati proiettili di gomma, gas lacrimogeni e bombe accecanti e negli scontri sono rimaste ferite 11 persone, 7 serbi e 4 militari.

A Bruxelles il Segretario Generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha affermato che occorre effettuare delle inchieste speciali sull'azione dei membri della KFOR e Belgrado a chiesto la neutralità che Eulex e KFOR agiscano secondo quanto previsto dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, ma per il responsabile dell'ospedale del quartiere serbo di Mitrovica, Milan Jakovljevic, i sei uomini ricoverati dopo gli scontri presentavano ferite da arma da fuoco e non di pallottole di gomma.

La scintilla che ha dato il via alla protesta serba va ricercata nel tentativo di Pristina di affermare la propria sovranità su tutto il territorio nazionale e la questione del mancato rispetto dell'embargo sui prodotti serbi va solo vista come un pretesto per intervenire. Belgrado, d'altro canto, non ha alcuna intenzione di mollare la presa e per sostenere la popolazione di etnia serba ha creato nel Kosovo settentrionale una vera e propria rete di strutture parallele: l'amministrazione pubblica, la polizia locale, le scuole e le banche sono inserite all'interno di un contesto sociale che non ha alcun rapporto con il resto del Kosovo. Ad appoggiare la protesta serba è intervenuto anche il Comitato per l'aiuto ai serbi di Kosovo e Metohija, una ventina di persone arrivate da Banja Luka, Republika Srpska, che lo scorso 9 ottobre hanno trascorso un giorno sulle barricate poste sul ponte che attraversa il  fiume Ibar e unisce il settore nord e sud della città di Kosovska Mitrovica.

Ma i fattori d’instabilità sono legati anche agli atti di violenza che ogni giorno insanguinano le strade di tutto il Kosovo e che prendono spesso di mira la popolazione di etnia serba. L'ultimo caso riguarda un uomo ucciso a colpi d'arma da fuoco in un agguato tesogli all'uscita da un ristorante nella località di Zrze, presso Orahovac, nel Kosovo sud occidentale. Belgrado accusa Eulex e KFOR di non fare abbastanza per proteggere la comunità serba che vive negli enclave, di  presidiare massicciamente la sole regione a nord del fiume Ibar e di non aver mai fatto luce sui fatti criminosi che hanno colpito i serbo-kosovari.

Ci sono poi gli attentati e la corruzione, elementi che non aiutano certo la Paese a trovare la strada della pacificazione. L'ultimo atto terroristico risale al 5 ottobre scorso, quando a Mitrovica nord un ordigno è esploso in un parcheggio; l'esplosione non ha provocato morti e feriti, ma ha distrutto un’automobile di proprietà di un serbo che lavora come interprete per l'Eulex, un episodio che il capo della missione dell'Unione Europea, Xavier de Marnhac, ha definito "un evidente tentativo d’intimidazione".

In realtà l'azione potrebbe essere l'ennesima riprova della difficile situazione che la popolazione serba vive ogni giorno a causa dell’occupazione albanese e del sostegno concesso dalle truppe NATO ed Eulex alle autorità di Pristina, politici e forze di polizia che si accingono ad affrontare uno scandalo che potrebbe portare sul banco degli imputati gran parte dei vertici del ministero degli interni e del governo stesso.

L'inchiesta aperta dalla missione europea parla di casi di corruzione e d’irregolarità nelle aste per la vendita delle armi e delle munizioni; indagini che coinvolgono la polizia kosovara ed alcune aziende del settore che in ambio di tangenti avrebbero venduto le armi a prezzi raddoppiati.

Secondo il giornale Koha Ditore tra gli indagati compare anche il nome del premier Hashim Thaci e sembra che tra i venditori sia riuscito ad infiltrarsi anche un gruppo criminale. Secondo gli inquirenti il traffico sarebbe iniziato subito dopo la proclamazione unilaterale dell’indipendenza e sarebbe stato proprio il premier ad autorizzare questi affari all'insaputa della missione delle Nazioni Unite.

 

di Michele Paris

Il ministro della Giustizia americano, Eric H. Holder, ha annunciato martedì in una conferenza stampa la scoperta di un complotto iraniano per assassinare l’ambasciatore saudita a Washington. Le autorità statunitensi puntano il dito direttamente contro il governo di Teheran, anche se le accuse non sembrano per ora provare alcun serio coinvolgimento dei vertici della Repubblica Islamica. Con la campagna mediatica avviata subito dopo le rivelazioni, tuttavia, l’amministrazione Obama sembra aver già colto l’occasione per aumentare ulteriormente le pressioni sull’Iran.

La trama che le autorità americane sostengono di aver smascherato ruotava attorno ad un cittadino americano di origine iraniana, il quale, in contatto con un presunto membro del Corpo delle Guardie della Rivoluzione islamica, intendeva assoldare sicari affiliati a un cartello messicano del narco-traffico per attentare alla vita dell’ambasciatore saudita, Adel al-Jubeir, e per piazzare dell’esplosivo nelle sedi delle rappresentanze diplomatiche israeliane a Washington e a Buenos Aires.

L’iraniano-americano è stato identificato nel 56enne Mansour Arbabsiar, venditore di auto di seconda mano a Corpus Christi, nel Texas. Il suo nome appare nelle carte dell’FBI assieme a quello dell’iraniano Gholam Shakuri, definito come un membro di al-Quds, una sezione speciale dei Guardiani della Rivoluzione.

Il caso sarebbe iniziato lo scorso mese di maggio, quando un agente della DEA (Drug Enforcement Administration), infiltrato sotto copertura nel cartello messicano Los Zetas, riferì ai suoi superiori di essere stato avvicinato da un iraniano amico di famiglia a Corpus Christi - lo steso Arbabsiar - con una singolare proposta. Quest’ultimo, ritenendo l’agente della DEA un membro dei "Los Zetas", gli chiese di ingaggiare dei killer per portare a termine attacchi terroristici sul territorio americano. Nelle settimane successive sarebbe stato trovato un accordo per colpire l’ambasciatore saudita in un ristorante di Washington, dietro compenso di 1,5 milioni di dollari.

All’inizio di agosto, poi, Arbabsiar avrebbe trasferito dall’Iran cento mila dollari sul conto dell’agente DEA come anticipo di pagamento per il servizio richiesto. Un paio di settimane fa, infine, Arbabsiar ha preso un aereo dall’Iran diretto a Città del Messico per offrirsi personalmente come garanzia del versamento del saldo una volta ultimata l’operazione negli USA. Il governo messicano, su richiesta americana, gli ha però negato l’ingresso nel paese, mettendolo invece su un volo con scalo all’aeroporto Kennedy di New York, dove è stato arrestato il 29 settembre scorso.

Il complotto così grossolanamente organizzato non aveva alcuna possibilità di essere condotto a buon fine, dal momento che Arbabsiar era inconsapevolmente in contatto con un informatore della DEA e le sue conversazioni telefoniche erano costantemente monitorate. Mentre il cittadino iraniano-americano si trova tuttora in carcere, il presunto membro dei Pasdaran è con ogni probabilità a piede libero in Iran.

Le dichiarazioni del numero uno del Dipartimento di Giustizia che implicano il governo di Teheran nel fallito attentato sono di estrema gravità. Holder ha infatti chiamato in causa proprio l’élite dei Guardiani della Rivoluzione (al-Quds), il cui comandante risponde direttamente all’autorità suprema della Repubblica Islamica, l’ayatollah Ali Khamenei.

Al-Quds, che corrisponde al nome arabo di Gerusalemme, è la più indipendente delle cinque sezioni in cui è suddiviso il Corpo delle Guardie della Rivoluzione ed è impiegata in operazioni segrete all’estero, in particolare in Medio Oriente. I suoi membri sono altamente addestrati, perciò appare improbabile un coinvolgimento dei suoi vertici in una macchinazione a dir poco maldestra.

Le reazioni iraniane alla notizia diffusa da Washington sono state comprensibilmente molto dure. L’ambasciatore di Teheran all’ONU, Mohammad Khazaee, ha respinto “categoricamente queste accuse senza fondamento, basate sulle dichiarazioni sospette di un singolo individuo”. Dalla capitale iraniana, un portavoce del presidente Ahmadinejad ha affermato che “il governo americano e la CIA hanno parecchia esperienza nella produzione di sceneggiature cinematografiche”, aggiungendo, in riferimento alla crisi economica e al movimento di protesta contro Wall-Street, che “questo scenario serve a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica statunitense dalla crisi interna”.

Perplessità circa la tesi sostenuta dall’amministrazione Obama del coinvolgimento di Teheran nella vicenda sono state sollevate anche da analisti e commentatori. In un’intervista al New York Times, il ricercatore iraniano-americano Rasool Nafisi ha definito improbabile una responsabilità diretta dei Guardiani della Rivoluzione, per i quali è altamente insolito “operare negli USA per timore di ritorsioni”. L’ultimo attentato condotto dai Pasdaran in America, secondo Nafisi, fu l’assassinio di un dissidente iraniano nel 1980 nella sua abitazione di Bethesda, nel Maryland.

Anche un think thank come Stratfor, che vanta legami nell’intelligence americana e negli ambienti militari, sembra scartare l’ipotesi che dietro al tentato assassinio del diplomatico saudita ci sia il governo iraniano. “Questo complotto non appare credibile alla luce dei consueti metodi operativi dei servizi segreti iraniani e per il fatto che avrebbe comportato sostanziali rischi di natura politica”, hanno scritto gli analisti della compagnia texana. “Non è chiaro inoltre cosa avevano da guadagnare gli iraniani uccidendo l’ambasciatore saudita”, tanto più che le probabilità di collegare l’attentato all’Iran erano molto elevate.

Nonostante la sicurezza mostrata dalle autorità statunitensi, alla luce dei fatti resi noti finora, rimangono profondi dubbi sia sul coinvolgimento di Teheran che sulla consistenza del complotto stesso. Tanto per cominciare, il caso si basa esclusivamente su una persona, l’iraniano-americano Mansour Arbabsiar, sui contatti che ha intrattenuto con un agente della DEA, sulle sue telefonate intercettate e sulla confessione rilasciata dopo l’arresto. Inoltre, secondo quanto scritto nel rapporto dell’FBI, l’idea di assassinare l’ambasciatore dell’Arabia Saudita in un ristorante di Washington sarebbe stata avanzata inizialmente dallo stesso agente americano sotto copertura.

Resta poi da spiegare come l’Iran, già alle prese con gli effetti della crisi siriana, le pressioni della comunità internazionale per il suo programma nucleare e le divisioni interne tra le varie fazioni politiche, abbia deciso di intraprendere una simile iniziativa che, era facile prevedere, avrebbe dato modo agli USA e all’Occidente di aumentare le pressioni nei suoi confronti.

La sola denuncia del tentato attacco terroristico ha in ogni caso spinto Washington a intensificare la retorica verso Teheran. Mentre Hillary Clinton minacciava misure punitive contro l’Iran in una lunga intervista alla Associated Press, il suo Dipartimento di Stato emetteva un’allerta per i viaggiatori americani all’estero, mettendoli in guardia da possibili azioni orchestrate dal governo della Repubblica Islamica. Poco più tardi, il Dipartimento del Tesoro ha invece annunciato nuove sanzioni dirette contro cinque cittadini iraniani, tra cui quattro membri di al-Quds, organizzazione bollata come terroristica dagli USA nel 2007. Una serie di misure, queste ultime, adottate tempestivamente e senza presentare prove concrete delle responsabilità iraniane, che minacciano un nuovo peggioramento nei rapporti già abbastanza tesi tra Washington e Teheran.


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