di Eugenio Roscini Vitali

Ogni anno la Palestina commemora l’anniversario della morte di Yasser Arafat, deceduto alle 3:30 dell’11 novembre 2004 nel reparto di ematologia dell’Hopital d’instruction des armees Percy (HIA Percy),  a Clamart, comune della “petite couronne” parigina. Le condizioni di Abu Ammar – come lo hanno sempre chiamato i palestinesi – si erano bruscamente aggravate il 4 novembre, con un repentino peggioramento del quadro clinico che lo aveva fatto precipitare in uno stato di coma profondo. Sulla scomparsa del simbolo della lotta palestinese si sono fatte mille supposizioni, ipotesi che aldilà delle convenienze politiche hanno suscitato non pochi dubbi: sia sul ruolo svolto dall’allora premier israeliano Ariel Sharon, sia sulle possibili trame interne agli stessi vertici palestinesi. Ma a sette anni di distanza, in un articolo pubblicato dal quotidiano Hareetz, il giornalista investigativo Yossi Melman prova a smontare la teoria del complotto e avvalendosi  della testimonianza dell’allora capo di gabinetto dell’ex premier israeliano rilancia l’ipotesi della morte dovuta ad un male incurabile.

Yasser Arafat fu sepolto a Ramallah il 12 novembre 2004, nel quartier generale dell’Autorità Nazionale Palestinese, il luogo dove aveva vissuto da confinato gli ultimi anni della sua vita. Ad accogliere il feretro, proveniente dal Cairo dove in mattinata aveva avuto luogo la cerimonia  funebre, c’erano decine di migliaia di palestinesi, confluiti nel  piazzale della Muqata’a per rendere l’ultimo omaggio al rais. A causa dell’enorme folla, la sepoltura, frettolosa e in disaccordo con i riti religiosi islamici, fu però ripetuta il giorno seguente, con la salma disseppellita come deciso dalla massima autorità religiosa palestinese, lo sceicco Taissir Tamimi. La prova scientifica che Abu Ammar non sia morto di morte violenta quindi non esiste: l’equipe medica dell’ HIA Percy ammise di non conoscere il reale motivo della decesso e non bastò un dettagliato rapporto di 558 pagine a dipanare i dubbi di chi, sin dal primo minuto, sostenne la tesi dell’omicidio;  nel referto, i medici francesi  descrissero una sopravvenuta complicazione dovuta ad un complesso disturbo del sangue che chiamarono “coagulazione disseminata intravascolare”.

Tra le varie ipotesi si parlò anche di AIDS e di Parkinson, ma il dottor Ashraf Al Kurdi, medico personale del leader palestinese, dichiarò che Arafat non era affetto da alcun mordo e che i diversi test HIV ai quali era stato sottoposto erano sempre risultati negativi. Tuttavia, la cosa che più alimentò il fronte degli scettici fu il fatto che nessuno autorizzò mai l’autopsia: qualche anno dopo Kurdi spiegò che il successore alla presidenza dell’ANP, Mahmoud Abbas, aveva giustificato la decisione con la possibilità che ciò avrebbe potuto incrinare i rapporti con la Francia, in quanto avrebbe costretto Parigi ad agire contro gli interessi di Israele e degli Usa. Questa eventualità però fu fortemente criticata dallo stesso Kurdi che in più occasioni ebbe modo di ricordare come in Giordania le autopsie su dubbi casi di morte violenta  fossero obbligatorie e come gli esami post mortem non sono mai stati contrari alla legge islamica, che al contrario ne permette l’esecuzione a patto che vengano effettuati al più presto e con grande rispetto per il defunto.

Nel 2006 l’ipotesi dell’omicidio è stata anche confermata dallo scrittore israeliano Uri Dan, persona particolarmente vicina all’ex premier ed autore del libro “Ariel Sharon: un ritratto intimo”. Dan afferma con certezza che Arik [Sharon]  ricevette l’approvazione telefonica del presidente americano George W. Bush e che la decisione di liquidare il leader palestinese fu presa per rimuovere “l’ultimo” ostacolo alla politica di colonizzazione israeliana in Cisgiordania. D’altronde, la lunga e scomoda storia israeliana di omicidi mirati era tornata a galla nel settembre 2003, con Ehud Olmert, allora vice primo ministro, che parlando di Arafat aveva dichiarato alla radio israeliana: «La domanda è: come dobbiamo farlo? L'espulsione è certamente una delle opzioni, così come l’omicidio». Parole quantomeno “avventate” che fecero infuriare i palestinesi e scatenarono la reazione delle stesse organizzazioni pacifiste israeliane, da Gush-Shalom al noto attivista Uri Avnery.

Ora, a qualche anno di distanza, a dare la sua versione dei fatti è Dov Weissglas, ex capo di gabinetto dell’allora primo ministro Ariel Sharon, che in un articolo di Yossi Melman parla di vera e propria speculazione costruita intorno alla morte del leader dell’OLP. In una delle rare dichiarazioni concesse alla stampa, Weissglas dissipa le voci di corridoio e rivela che l’intenzione dell’ex premier israeliano non era quella di ucciderlo, ma di isolarlo politicamente. Per l’avvocato israeliano, nei mesi successivi alla morte di Arafat i media palestinesi invocarono fatti circostanziali che non giustificarono in alcun modo la teoria del complotto: primo fra tutti il commento sussurrato nell’aprile 2002 dal ministro della Difesa israeliana al premier Sharon. Durante una conferenza stampa tenuta dopo la cattura della nave Karin A, in rotta dall’Iran per Gaza con 50 tonnellate di armi a bordo, Shaul Mofaz si lasciò sfuggire, a microfoni aperti, la frase «dobbiamo sbarazzarci di lui». Un episodio che avrebbe giustamente dato adito alle più sfrenate speculazioni.

La  teoria dell’omicidio guadagnò poi credibilità a causa delle rivelazioni del giornalista Uri Dan e per il fatto che già in passato l’intelligence israeliana aveva fatto largo uso di veleno. Basti ricordare come nel 1978 il Mossad eliminò Wadia Hadad inviandogli un pacchetto di cioccolatini avvelenati; il leader della fazione palestinese responsabile del dirottamento del volo Air France 139 su Entebbe, morì alcuni mesi dopo in un ospedale di Berlino Est dopo aver sviluppato una malattia del sangue molto simile alla leucemia. Stessa sorte sarebbe dovuta capitare a Khaled Meshaal, leader di Hamas ad Amman, quando il 25 settembre 1997 due agenti israeliani con passaporto canadese cercarono di ucciderlo mentre si recava in ufficio spruzzatogli sul lobo dell’orecchio uno spray tossico; ricoverato in ospedale, Meshaal fu salvato solo grazie all’intervento di re Hussein di Giordania e del presidente americano Bill Clinton che fecero pressioni su Benjamin Netanyahu affinché inviasse nella capitale giordana un antidoto capace di salvare la vita del leder palestinese.

Pur ammettendo quanto  Sharon disprezzasse Arafat,  Weissglas è certo che il premier israeliano non abbia mai pensato ad una soluzione cruenta: «Lo considerava il più grande nemico di Israele e un ostacolo a qualsiasi accordo di pace. Ecco perché ha ostinatamente rifiutato un incontro. Ma nonostante tutto, non ha mai pensato alla possibilità di causargli danni fisici». La scomparsa politica di Arafat  era già iniziata nel gennaio 2002, con il coinvolgimento diretto dell’Autorità Nazionale Palestinese nel traffico di armi con l’Iran, e quattro mesi dopo «il Segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, ci informò che il presidente stava per pronunciare un discorso che avrebbe definito la politica americana in Medio Oriente». Di li a poco Israele e Stati Uniti avrebbero spiegato al mondo il ruolo negativo di Arafat nel processo di pace israelo-palestinese e il suo coinvolgimento nelle decisioni riguardanti il finanziamento al terrorismo; una posizione che il presidente americano George W. Bush avrebbe ufficializzato il 24 giugno 2002 durante la presentazione della Road Map, il piano di pace promosso da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite.

Per due anni lo Stato ebraico e gli Usa continuarono a boicottare Arafat, ad assediare il quartier generale di Ramallah e ad isolare il leader dell’OLP; alla fine di ottobre Javier Solana chiese ad Israele di autorizzare Arafat a lasciare il compaund per una visita medica. Le condizioni fisiche del leader palestinese era peggiorate notevolmente e fu Weissglas a contattare Sharon  per l’autorizzazione: «il giorno dopo Solana mi chiamò per dirmi che, anche se non era chiaro quale malattia avesse, i test avevano rivelato che le condizione di Arafat erano serie». Solana riferì inoltre che il leader palestinese aveva chiesto che il permesso di poter ottenere un trattamento migliore in un ospedale europeo. La richiesta fu subito discussa in un meeting al quale parteciparono il premier, rappresentanti del governo e ufficiali dell’intelligence e delle Forze di Sicurezza Israeliane.

Furono proprio i servizi segreti e l’esercito ad avanzare non poche perplessità, ma nonostante l’opposizione dei militari Sharon diede l’autorizzazione al trasporto: «vista la richiesta di Solana e dei palestinesi, Arik decise di consentire un ponte aereo immediato con Francia per il trasporto di Arafat»; era preoccupato per il fatto che la morte del leader palestinese all’interno della Muqata’a potesse danneggiare seriamente  l’immagine stessa di Israele, soprattutto se non gli fosse stato permesso di ricevere i trattamenti medici necessari.

di Michele Paris

Al termine di un estenuante dibattito politico durato settimane, il Congresso degli Stati Uniti martedì ha alla fine approvato definitivamente il provvedimento che permetterà al Tesoro americano di aumentare il tetto del debito pubblico. L’accordo tra democratici e repubblicani era giunto al limite della data ultima fissata per evitare un clamoroso default e stabilisce tagli alla spesa pubblica senza precedenti, senza chiedere un solo dollaro in nuove tasse alle classi privilegiate.

Nella tarda serata di domenica, il presidente Obama e il leader dei due partiti al Congresso avevano annunciato il raggiungimento di un’intesa sulla questione dell’indebitamento americano. Con i tempi tecnici estremamente ristretti per ottenere il voto favorevole di Camera e Senato, i vertici democratici e repubblicani hanno dovuto muoversi in fretta per far digerire il compromesso ai parlamentari più recalcitranti – quelli di estrema destra tra i repubblicani, non soddisfatti dai tagli previsti, e quelli dell’ala liberal del Partito Democratico, che avevano richiesto un qualche aumento del carico fiscale per i redditi più alti.

Nonostante i timori per una possibile incertezza nell’esito del voto, la Camera dei Rappresentanti lunedì ha invece licenziato il provvedimento senza troppe difficoltà (269 voti a favore e 161 contrari). L’accordo bipartisan ha comunque creato profonde divisioni all’interno dei due partiti, con 66 repubblicani e 95 democratici che hanno espresso voto contrario. Martedì, anche il Senato ha dato il via libera all’aumento del tetto del debito, con74 sì e 26 no (19 repubblicani e 7 democratici). Obama ha infine apposto la propria firma sulla nuova legge solo a poche ore dal probabile default.

I contenuti dell’intesa renderanno possibile un immediato innalzamento dell’indebitamento americano di 400 miliardi di dollari. Un ulteriore aumento di 500 miliardi arriverà dietro richiesta della Casa Bianca. Questa seconda tranche potrebbe venire teoricamente bocciata da un voto del Congresso, a cui verrebbe opporrebbe tuttavia il veto di Obama.

Infine, altri 1.200 / 1.500 miliardi di dollari verranno autorizzati in seguito all’eventuale approvazione del Congresso entro la fine dell’anno delle raccomandazioni su nuovi tagli alla spesa di una speciale commissione parlamentare ancora da istituire. In questo modo, non dovrebbe essere necessario ricorrere ad altri aumenti del tetto del debito prima del 2013, evitando un nuovo round di scontri alla vigilia delle elezioni del 2012.

L’autorizzazione ad innalzare il livello del debito federale giunge con la promessa di tagliare la spesa pubblica per un totale di 2.100 miliardi di dollari entro il prossimo decennio. Quasi mille miliardi di tagli verranno da uscite cosiddette “discretionary”, cioè destinate a programmi non definiti per legge come quelli relativi alle spese militari (350 miliardi), ma anche alla protezione ambientale, al sistema scolastico, all’edilizia pubblica e ai trasporti (650 miliardi). A decidere i contenuti dei tagli saranno in ogni caso le varie commissioni parlamentari competenti, chiamate a decidere entro l’inizio del nuovo anno fiscale (1° ottobre 2011).

Il resto dei tagli dovrebbe uscire dalle proposte della già citata commissione bipartisan, formata da 12 membri del Congresso ugualmente ripartiti tra i due schieramenti. Questa commissione dovrà individuare provvedimenti per ridurre il deficit di 1.200 / 1.500 miliardi di dollari, tagliando la spesa pubblica e, teoricamente, aumentando le tasse.

Alla luce dei rapporti di forza tra i due partiti e dell’esito della trattativa sul tetto del debito – che ha premiato pressoché interamente i repubblicani – è tuttavia improbabile che verranno adottate anche modeste iniziative destinate a scalfire i redditi più elevati. Le raccomandazioni della commissione dovranno essere presentate entro il 23 novembre prossimo e successivamente sottoposte al voto del Congresso entro il 23 dicembre, senza possibilità di presentare emendamenti

Nel caso la commissione non fosse in grado di giungere ad una proposta unitaria, o se le proprie deliberazioni dovessero essere bocciate dall’aula, scatterà allora una riduzione obbligatoria del deficit, da implementare a partire dal 2013, con la metà dei risparmi provenienti dalle spese militari e metà da tagli ai programmi domestici, ad eccezione di Medicaid, del sistema pensionistico e di qualche altro programma sociale. La prospettiva di così ingenti tagli al settore militare, avversati dalla maggior parte del Partito Repubblicano, farà in ogni caso in modo che le decisioni della commissione del Congresso verranno approvate senza eccessivi impedimenti.

Quasi tutti i media americani hanno dipinto l’accordo come una sconfitta per il presidente e i democratici, i quali avrebbero ancora una volta ceduto ai repubblicani. Lo stesso leader di maggioranza al Senato, il democratico Harry Reid, ha ammesso dopo le trattative che l’accordo “dà ai repubblicani tutto quello che avevano chiesto”. In realtà, il risultato delle estenuanti negoziazioni rispecchia perfettamente le stesse intenzioni dei democratici, concordi fin dall’inizio nell’impostare un dialogo interamente ruotante attorno alla riduzione della spesa pubblica.

La cosiddetta difesa dei programmi sociali più popolari e la fermezza – sparita all’avvicinarsi della scadenza del 2 agosto – nel chiedere modesti aumenti delle tasse per i più ricchi, per i democratici e per Obama non era altro che un modo per continuare ad apparire come i difensori della middle-class e dei lavoratori americani in vista dell’appuntamento elettorale del 2012.

Le pretese democratiche si sono rivelate pure manovre tattiche all’interno della discussione del debito, come conferma la posizione sostenuta dal presidente fin dall’inizio. Obama si era infatti attestato su posizioni decisamente più a destra di quelle dei repubblicani al Congresso, dapprima accettando per la prima volta nella storia americana di includere nel dibattito sull’innalzamento del livello di indebitamento – iniziativa approvata decine di volte in passato senza scontri politici – la questione della riforma della spesa pubblica e, successivamente, proponendo il ridimensionamento di programmi sociali di cui beneficiano decine di milioni di americani e che erano sempre stati considerati intoccabili.

L’ipocrisia di Obama è apparsa in tutta la sua chiarezza nel discorso seguito all’annuncio dell’accordo domenica scorsa. Nella sua uscita pubblica, il presidente ha ringraziato gli americani, poiché con le loro “voci, lettere, e-mail e tweet hanno obbligato Washington ad agire”. Nella realtà, al contrario, la maggioranza della popolazione americana, come hanno dimostrato tutti i sondaggi, era nettamente contraria ad un accordo sul tetto del deficit basato esclusivamente su tagli alla spesa, mentre appoggiava nuove tasse per grandi aziende e redditi più alti.

I repubblicani e i democratici hanno d’altra parte risposto unicamente a quelle sezioni della società americana di cui sono espressione, vale a dire Wall Street e l’intera élite economica e finanziaria del paese, la quale ha dettato letteralmente il dibattito e l’accordo sul debito. Tramite le agenzie di rating, i poteri forti d’oltreoceano avevano minacciato ed esercitato pressioni sempre più forti sulla classe politica per ridurre un deficit gigantesco e causato principalmente dal salvataggio delle banche dopo la crisi del 2008.

L’assalto alla spesa pubblica a cui si è assistito in queste settimana non è che l’inizio di un piano condiviso da entrambi i partiti per smantellare la struttura sociale costruita con le leggi degli anni Trenta e Sessanta e che aveva permesso la crescita di una robusta classe media negli Stati Uniti.

Questa trasformazione, conseguenza del crollo finanziario del 2008, si inserisce negli USA come altrove su un’economia ancora in affanno e una disoccupazione alle stelle. Le misure di austerity così implementate causeranno perciò un ulteriore aumento dei livelli di povertà, con il drammatico venir meno di già esili programmi pubblici di assistenza che avevano finora alleviato almeno in parte le sofferenze di milioni di persone costrette a pagare il conto di una crisi che non hanno contribuito in nessun modo a provocare.

di Michele Paris

Nelle ultime settimane, un diverso atteggiamento sembra caratterizzare i governi che partecipano all’aggressione militare contro la Libia. Alla luce dell’impossibilità di rovesciare il regime di Tripoli tramite bombardamenti e aiuti di dubbia legalità agli insorti di Bengasi, le maggiori potenze della NATO sono cioè alla ricerca di una nuova exit strategy che pare non prevedere più necessariamente l’allontanamento dal paese di Gheddafi.

Le prime indicazioni di una possibile trattativa in corso per una soluzione diplomatica erano giunte lo scorso 11 luglio quando, in un’intervista rilasciata al quotidiano algerino El Khabar, Seif al-Islam Gheddafi, aveva rivelato che il suo governo stava negoziando con la Francia e non con i ribelli. Il figlio del rais aveva aggiunto che il presidente Sarkozy era stato molto chiaro circa le capacità di Parigi di imporre il proprio volere agli insorti. L’inquilino dell’Eliseo aveva infatti riferito all’inviato di Tripoli che erano stati i francesi a creare il Consiglio dei ribelli, il quale “senza il nostro appoggio, il nostro denaro e le nostre armi, non sarebbe mai esistito”.

Nonostante il governo francese si fosse affrettato a sostenere che con Tripoli vi erano solo contatti e non vere e proprie discussioni, il Ministero della Difesa di Parigi aveva esortato pubblicamente il Consiglio dei ribelli a trattare con Gheddafi. A conferma che una qualche trattativa era in corso da tempo, il 12 luglio Le Monde aveva rivelato che, circa un mese prima, Sarkozy aveva incontrato il capo di gabinetto di Gheddafi, Bachir Saleh.

Sul ruolo di Gheddafi in un’eventuale trattativa, il Ministro della Difesa francese, Gerard Longuet, aveva poi affermato che i colloqui potevano avvenire a patto che “[Gheddafi] fosse in una diversa stanza del suo palazzo con una diversa carica”. In quell’occasione era giunto un immediato messaggio di disappunto da parte del Dipartimento di Stato americano, chiaramente poco disposto ad un simile compromesso.

Anche da parte del governo di Tripoli erano state mostrate simili aperture. Il primo ministro Baghdadi al-Mahmudi aveva infatti confermato a Le Figaro che “la Guida [Gheddafi] non avrebbe preso parte ai colloqui” con i ribelli. Ancora più chiaramente, il 20 luglio il Ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, nel corso di un’intervista ad un canale televisivo aveva ribadito che le potenze occidentali erano pronte ad acconsentire alla permanenza in Libia di Gheddafi, a condizione del suo ritiro dalla guida del governo.

Sulla posizione francese sembrano essere ora confluiti finalmente anche Gran Bretagna e Stati Uniti, i cui governi hanno evidentemente preso atto dell’impossibilità di raggiungere i propri obiettivi in Libia con i soli bombardamenti. Lunedì scorso, così, il Ministro degli Esteri britannico, William Hague, proprio nel corso di un meeting a Londra con il suo omologo transalpino, ha spiegato che il destino di Gheddafi dipenderà dalla volontà del popolo libico. Solo poche ore più tardi gli ha fatto eco da Washington il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, secondo il quale la permanenza in Libia di Gheddafi deve essere decisa dai libici.

L’inversione di rotta appare notevole, alla luce delle critiche inizialmente rivolte da entrambi i paesi alla Francia per aver mostrato eccessiva flessibilità nei confronti di Tripoli. Sia per la Gran Bretagna che per gli USA, la rinuncia al potere di Gheddafi e il suo allontanamento dalla Libia fino a poche settimane fa apparivano infatti come condizioni necessarie per la fine delle operazioni militari e l’avvio di negoziati di pace.

Ad influire sul cambiato atteggiamento di Washington e Londra - e, ancor prima, di Parigi - è dunque la realtà sul campo. Dopo aver tentato di assassinare Gheddafi in più occasioni, incoraggiato defezioni da parte di esponenti di spicco del suo governo e fomentato senza successo un colpo di stato interno al regime, le potenze NATO sembrano aver deciso di percorrere la via diplomatica.

Sulla decisione pesa anche l’impopolarità in Occidente della guerra contro la Libia, alimentata dal continuo stallo delle operazioni. Secondo un resoconto pubblicato mercoledì dal quotidiano inglese The Independent, infatti, il regime di Tripoli controlla oggi il 20 per cento in più di territorio libico rispetto ai giorni immediatamente successivi all’esplosione della rivolte a metà febbraio.

L’ammorbidimento della posizione di Hague, inoltre, riflette forse anche i malumori dello stato maggiore britannico per un conflitto che viene visto come una distrazione dal fronte afgano e uno spreco di risorse proprio mentre il governo sta adottando misure di austerity senza precedenti sul fronte domestico.

Da Tripoli, intanto, arrivano invece segnali di un qualche irrigidimento, conseguenza probabilmente di una maggiore confidenza da parte del regime di poter sopravvivere all’offensiva NATO. Mentre un mese fa il governo libico aveva offerto un cessate il fuoco senza condizioni, facendo intendere che Gheddafi era pronto a lasciare, oggi viene richiesta la fine dei bombardamenti come condizione preliminare per iniziare un qualsiasi dialogo.

L’offerta a Gheddafi di abbandonare il ruolo di guida del paese sembra essere stata fatta dai diplomatici americani agli emissari del governo libico nel corso di un incontro avvenuto a Tunisi il 16 luglio scorso. La proposta è vincolata all’accettazione di essa da parte dei ribelli di Bengasi, dai quali giungono però segnali contraddittori. Mercoledì, ad esempio, la Reuters ha citato una dichiarazione del leader del Consiglio Nazionale di Transizione, Mustafa Abdel-Jalil, nella quale si afferma che l’offerta americana è ormai da ritenersi superata.

I nuovi sviluppi della crisi in Libia sono giunti in concomitanza con la visita a Tripoli dell’inviato ONU, Abdul Elah al-Khatib, che ha incontrato i rappresentati di Gheddafi per trovare una soluzione pacifica. In precedenza, gli USA - seguiti dalla Gran Bretagna e da numerosi altri paesi - avevano proceduto a riconoscere ufficialmente il consiglio dei ribelli come rappresentanti legittimi della Libia, gettando le basi per lo sblocco di decine di miliardi di dollari appartenenti al regime e attualmente congelati su svariati conti bancari in America.

La ricerca di una via d’uscita diplomatica da parte dei governi che hanno orchestrato l’aggressione alla Libia e l’ipotesi di un compromesso con il regime di Tripoli testimoniano la falsità della pretesa di condurre una guerra in nome dei diritti democratici del popolo libico.

Un accordo con Gheddafi - anche nel caso dovesse includere la rinuncia di quest’ultimo ad un ruolo ufficiale, che peraltro ha già formalmente abbandonato già nel 1972 - manterrebbe uomini della sua cerchia in posizioni di potere, così come resterebbe intatta la struttura repressiva dello stato e dell’apparato di sicurezza.

Dopo cinque mesi, la NATO ha in definitiva dovuto fare i conti con l’incapacità degli insorti di conquistare terreno in maniera significativa e di provocare la caduta del regime, nonostante il massiccio appoggio militare occidentale. Sintomo questo della mancanza di un ampio seguito nel paese per il governo provvisorio di stanza a Bengasi.

Dove non sono riuscite le bombe, allora, potrebbe riuscire ora la diplomazia, purché si raggiunga sempre l’obiettivo di rimpiazzare un regime che si stava facendo troppo ostile verso gli interessi occidentali. Che la soluzione includa un Gheddafi ancora in Libia e il mantenimento di un ruolo di primo piano per una parte del suo entourage non sembra ora preoccupare più di tanto Parigi, Washington e Londra, con buona pace delle aspirazioni cirenaiche.

di Emanuela Pessina

BERLINO. Tutto il mondo è paese e la xenofobia non sembra essere destinata a ottenere cittadinanza onoraria in alcun luogo. Secondo quanto scrive il quotidiano online che fa capo a Der Spiegel, una compagnia assicurativa tedesca del gruppo Ergo ha discriminato per anni i propri clienti in base alla nazionalità di appartenenza: a vedersi rifiutare le polizze auto erano i cittadini di quei Paesi considerati “a rischio”, tra cui Turchia, Polonia, Russia e - udite udite - Italia.

Un’interessante prospettiva di matrice razzista, quella di Ergo, ma soprattutto un ironico schiaffo a un’Italia che, ormai dimentica del proprio passato e della propria (seppur discutibile) reputazione, troppo spesso si permette il lusso della xenofobia gratuita verso i nuovi immigrati.

La compagnia assicurativa in questione è la D.A.S. di Duesseldorf (Germania nord-orientale), consociata del gruppo tedesco Ergo Versicherungsgruppe, uno dei maggiori riassicuratori a livello internazionale. A sollevare i sospetti nei suoi confronti è la redazione di Spiegelonline, che cita a questo proposito le dichiarazioni giurate di alcuni ex- agenti della D.A.S. stessa. Fino all’inizio del 2010, i potenziali clienti di origine italiana, polacca o russa venivano considerati all’interno dell’azienda come un “rischio indesiderato”, cita Spiegelonline, mentre “i turchi rappresentavano una clientela assolutamente non gradita”.

A destare le preoccupazioni di D.A.S. era soprattutto la presenza di “nomi inusuali” sui contratti di assicurazione stipulati, continua Der Spiegel, quei nominativi quindi dal suono esotico: in questi casi la direzione di D.A.S. esigeva dai propri agenti una spiegazione scritta. Neppure la cittadinanza tedesca aiutava granché gli stranieri: secondo la confessione degli ex- agenti, anche in questi casi la polizza veniva concessa solo eccezionalmente.

I capi di D.A.S., da parte loro, hanno già provveduto a ribadire l’inconsistenza delle accuse, spiegando che la valutazione dei rischi per le polizze avveniva, così come avviene tuttora, su base “personale” e non di appartenenza nazionale. Il sospetto tuttavia rimane, ed è quello di una discriminazione sistematica di D.A.S. nei confronti degli stranieri: sarà sicuramente difficile dimostrarne l’attendibilità, anche perché, a detta degli ex-agenti stessi citati da Der Spiegel, il “criterio selettivo” veniva tramandato esclusivamente a voce.

Anche se, in realtà, un riferimento scritto c’è, ed è un particolare degno dei migliori episodi fantozziani. In un piano d’ispezione del 2006, D.A.S. parla di una polizza “casco per italiani”: si tratta di condizioni particolari di assicurazione, quindi, per un determinata tipologia di individui dalle esigenze particolari, e cioè gli italiani. La direzione di D.A.S. si è affrettata a spiegare che si tratta di una semplice bozza mai entrata in vigore, ma già l’intenzione di per sé fa sorridere beffardamente.

Perché gli italiani di oggi si sono dimenticati del proprio passato, di quando emigravano per fare quei lavori che nessuno voleva, e della propria reputazione, costruita attorno alla rinomata capacità tutta italiana di “arrangiarsi” con qualunque mezzo. Ad avere la memoria più corta di tutti sono i politici: l’arroganza con cui accolgono i nuovi immigrati in Italia lascia poco spazio per dubitarne.

E ora il processo si ripete parallelo, solo a ruoli invertiti: oggi è l’Italia che discrimina, che si chiude a riccio nel timore di una presunta immigrazione “criminale”, mentre la politica s’impegna a trovare le differenze tra italiano e immigrato. E ogni tanto, sarcasticamente, è come se il passato tornasse, e l’italiano si ritrovasse a essere discriminato sulla base di nulla, come nel presunto caso Ergo. E allora non può che scapparci da ridere.

 

 

di Mario Braconi 

Con i suoi quasi cento innocenti uccisi, venerdì 22 luglio 2011 è stata la giornata più luttuosa per la Norvegia dalla fine della seconda guerra mondiale. Una delle nazioni più pacifiche e democratiche del mondo è in ginocchio, violata da un uragano di violenza insensata. A strappare la vita a tanti suoi figli è stata, sembra, solamente la mano di un norvegese di 32 anni Anders Behring Breivik, cristiano fondamentalista, arresosi alla polizia dopo una caccia di un’ora. Secondo la redazione europea della MSMBC, l’uomo ha confessato di essere l’autore dell’orrenda strage.

Dai suoi account sui social network ed in generale dalle tracce digitali lasciate dall’assassino sulla Rete è possibile ricostruirne almeno in modo grossolano la personalità. Il profilo Twitter contiene un solo tweet, una variazione su tema da John Stuart Mill che, alla luce del dramma, fa rabbrividire: “La fede di un solo uomo vale quanto l’interesse di centomila” (l’originale suonava più o meno: “una persona con una fede è una forza sociale equivalente a novantanove altre persone che hanno solo interessi”). L’account Facebook è più interessante: Breivik vi si definisce di religione cristiana, collegato in qualche modo ad un’azienda di fertilizzanti chimici (la GeoFarm), appassionato di body building e di massoneria.

I suoi interessi agronomici hanno costituito certamente un’ottima copertura: secondo quanto riportato dalla televisione di stato NKR e dal quotidiano britannico Guardian, a maggio Breivik avrebbe acquistato ben sei tonnellate di fertilizzante. Come noto, alcuni tipi di fertilizzante chimico costituiscono l’“ingrediente” tipico del degli assassini di massa della domenica: come fu Timothy James McVeigh, il quale di servì di fertilizzante per confezionare l’ordigno che il 19 aprile 1995 a Oklahoma City distrusse un edificio federale, uccidendo 168 persone e ferendone 800.

Anche se la polizia l’ha definito un fondamentalista cristiano, Breivik era arrivato a provare disgusto per i rappresentanti della chiesa cui aveva aderito di sua spontanea volontà a quindici anni: “La Chiesa protestante di oggi fa ridere. Preti in jeans che fanno le marce per la Palestina e chiese che sembrano centri commerciali minimalisti”.

Breivik era stato anche membro della sezione giovanile del Partito del Progresso, formazione liberal-conservatrice che spesso ha assunto posizioni populiste ed anti-immigrazione: ma anche la sua affiliazione al partito era stata messa in crisi dalla posizione troppo morbida contro il vituperato multiculturalismo e piuttosto tendente alla correttezza politica.

Breivik, pur avendo dimestichezza con la filosofia politica, considera l’Islam come un’ideologia paragonabile al fascismo e al comunismo. Secondo lui, avrebbe causato 300 milioni di morti, contro i “soli” 6-20 milioni accreditati ai nazisti. Come tale, da esecrare indipendentemente dal livello di profondità della sua pratica. In un post esprime il seguente pensiero: “Dovremmo tollerare quei nazisti che esecrano le camere a gas?”, cui segue implicitamente “dovremmo tollerare i musulmani moderati”? E ancora: “Tutte le ideologie che conducono all’odio vanno trattate nello stesso modo”. Se non si trattasse di una terribile tragedia, verrebbe da sorridere davanti a tanta ipocrisia.

Tra gli amici virtuali di Breivik, si annoverano membri dell’organizzazione neofascista britannica EDL, cui dispensava consigli sulle bacheche virtuali: non è chiaro in effetti se criticasse o apprezzasse quella che riconosceva come la tattica della EDL in Gran Bretagna, ovvero quella di mettere in atto provocazioni in grado di causare eccessi di reazione nei giovani musulmani estremisti e nei gruppi di estrema sinistra. E’ comunque sicuro che vagheggiasse la nascita di una costola della EDL anche in Norvegia.

Anche uno degli ultimi paradisi della nostra Europa, segnata da una grave crisi politico-economica e morale, è stato dunque violato. Come anche il solo elemento del fertilizzante avrebbe dovuto indurre a pensare, erano in errore tutti i giornalisti e commentatori che si sono affrettati a dar la caccia a qualche islamico. Invano è stato ripescato un comunicato di Wikileaks nel quale gli americani segnalano il rischio di attentati da parte di estremisti islamici in Norvegia, un paese considerato un obiettivo semplice anche a causa della sua riferita mancanza di preparazione e del suo presunto lassismo (o eccesso di tolleranza?).

Inutilmente si sono rispolverati vecchi dossier in cui si scopre che la Norvegia, con i suoi 408 soldati presenti in Afghanistan, è il 17esimo paese contribuente allo sforzo bellico della coalizione degli occidentale in quel Paese; non serviva neanche ricordare che la Norvegia è tra i paesi che hanno fornito mezzi e supporto nella “missione Libia” né che i periodici norvegesi hanno ripubblicato gli ormai celeberrimi fumetti anti-islamici danesi.

Il male questa volta è un altro: viene da lontano e purtroppo non è stato debellato, a dispetto di milioni di vittime. Ed in tempi in cui in Italia affiora ancora una volta l’abominio delle liste di proscrizione dei professori ebrei, forse è il caso che l’Europa interrompa il suo sonno della ragione. Il male sta bussando di nuovo alla nostra porta: è vicino, presente, sentiamo il suo alito fetido e gelido a pochi centimetri. E forse merita più attenzione di uno spread sui titoli di Stato o del rispetto di un parametro di bilancio.


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