di Eugenio Roscini Vitali

Sono scomparse due mesi fa le armi dal deposito sotterraneo di Guardia del Moro, la rete di gallerie della Marina militare che si sviluppa all’interno dell’isola di Santo Stefano, arcipelago della Maddalena: si parla di 400 missili, 11.000 razzi anticarro, 5.000 razzi katiuscia Bm21 da 122 mm, 32.000 fucili d’assalto AK47 e 150 mila caricatori con più di 32 milioni di proiettili.

Per ora non si hanno notizie certe, si sa solo che dopo un’inchiesta pubblicata nel giugno scorso dal quotidiano la Nuova Sardegna, il sostituto procurato di Tempio, Riccardo Rossi, aveva avviato un’indagine giudiziaria per stabilire la destinazione e la sorte finale del carico, decisione alla quale il governo ha reagito apponendo sulla vicenda il segreto di Stato, azione di norma intrapresa in casi eccezionali.

E’ comunque certo che il materiale è stato trasportato fino a Civitavecchia su due navi passeggeri della Saremar e della Tirrenia, via Maddalena, Palau, Olbia, e che una volta arrivato nel continente è svanito nel nulla. C’è chi avanza comunque l’ipotesi che le armi, che secondo quanto disposto dal tribunale di Torino dovevano essere distrutte, siano state spedite in Cirenaica per aiutare il Consiglio Nazionale di Transizione libico; un’eventualità confermata dallo scoop di Globalist.ch sulle spedizioni di materiale bellico fatte fin da marzo dal governo italiano ai ribelli di Bengasi.

L’arsenale era stato sequestrato il 13 marzo 1994, quando era stato rinvenuto all’interno della Jadran Express, nave intercettata a largo del Canale d’Otranto da una corvetta italiana assegnate alle operazioni Nato nell’Adriatico. Il cargo, battente bandiera maltese, apparteneva a una compagnia croata di proprietà del milionario russo Alexander Zhukov; secondo i documenti di bordo il carico era ufficialmente composto da 509 container, dei quali 416 vuoti e 96 carichi di cotone e rottami di rame.

In realtà, all’interno della Jadran vennero rinvenute 2 mila tonnellate di armi di provenienza russa, stipate in 133 container per un valore 200 milioni di dollari. La nave era stata localizzata grazie ad un segnalatore satellitare sistemato all’interno di uno di uno dei container caricati ad Odessa: la trappola, di cui era al corrente l’MI6 britannico, era opera del capo del controspionaggio ucraino (Sub), Volodymir Kulish. Fu l’intelligence inglese a passare l’informazione ai servizi italiani e questi alla Nato. Una volta sequestrato, il carico d’armi venne trasferito nelle gallerie di Santo Stefano.

Il nome della Jadran Express tornerà alla luce nel 1998, quando a Parigi verrà arrestato per riciclaggio un uomo d’affari ucraino, un certo Dmitri Streshinskij, amministratore della Sintez ltd e della Global Technologies International, aziende dell’ex Urss in mano al miliardario Alexander Zhukov. Tra il 1992 e il 1994 Streshinskij aveva acquistato tonnellate di armi dalla Progress di Kiev, la società incaricata dal ministero della Difesa ucraino per la vendita del proprio arsenale: missili, razzi, rampe di lancio, fucili mitragliatori, munizioni e tutto ciò che fosse possibile caricare sui cargo e che con false documentazioni avrebbero poi raggiunto i porti della Croazia e insanguinato i Balcani.

Nell’agosto 1999, grazie alle indagini della Dia, si scopre inoltre che a Taranto giace ancora il carico “dimenticato” della Jadran, 2 mila tonnellate d’armi che la procura di Torino mette subito sotto sequestro. Intanto, mentre il ministero della Difesa inizia il trasferimento dell’arsenale all’isola di Santo Stefano, Streshinskij è tornato in libertà;  rintracciato in Germania viene nuovamente arrestato. Patteggiata una pena di quasi due anni, l’ucraino inizia a collaborare e a fare i nomi dei presunti complici, insospettabili finanzieri e potenti imprenditori petroliferi di mezza Europa.

Tra loro ci sono il belga Gedda Mezosy, il greco Kostantinos Dafermos e i russi Leonid Lebedev e Alexander Zhukov, che viene arrestato a Olbia mentre sta cercando di raggiungere la sua lussuosa villa a Romazzino. Al processo, iniziato nell’ottobre 2002, il capitano della Jadran Express farà però cadere tutte le accuse per difetto di giurisdizione, dichiarando che la sua nave avrebbe dovuto raggiungere la Croazia senza fare scalo a Venezia: un traffico estero su estero che permetterà a Zhukov e ai suoi amici di essere assolti.

Come stabilito nel 2006 dall’autorità giudiziaria, gli armamenti sequestrati nel 1994 sulla Jadran Express e trasferiti a Santo Stefano, avrebbero dovuto essere distrutti; da allora a oggi non risulta tuttavia che abbiano mai raggiunto una località idonea a tale scopo. La Nato, come dichiarato dal portavoce Oana Lungescu, non vuole essere coinvolta, ma aldilà delle questioni legate alla sicurezza, l'intera vicenda ripropone comunque non pochi quesiti.

In un interessantissimo articolo diffusa da Globalist.ch, Ennio Remondino ripropone lo scoop sulle armi fornite clandestinamente ai ribelli di Bengasi, pubblicato sul network di informazione indipendente il 4 luglio scorso. Ripercorrendo gli avvenimenti, Remondino rivela il retroscena politico che avrebbe portato l’Italia ad essere la prima nazione a fornire segretamente le armi agli insorti della Cirenaica.

Tutto partirebbe da quando a febbraio il governo Berlusconi si è reso conto che continuare ad appoggiare Gheddafi era diventata una posizione insostenibile: ad organizzare un’operazione congiunta con l’ambasciatore libico a Roma, il potentissimo Abdulhafed Gaddur, garante di un accordo con il Consiglio Nazionale di Transizione, ci  avrebbero pensato il ministro Frattini e il sottosegretario Gianni Letta.

Fu insomma un cambio di campo pagato con una sostanziosa fornitura di armi e un pacchetto di garanzie personali in favore di alcuni personaggi della resistenza libica. Il primo di una serie di carichi di armi, su uno dei quali è stata aperta un’inchiesta della magistratura, risalirebbe a inizio marzo, arrivato a Bengasi con la nave Libra della Marina Militare.

“Aiuti” che tra l’altro potrebbero essere partiti proprio dall’isola di Santo Stefano, che avrebbero incluso parte del vecchio arsenale ex Gladio e che sarebbero arrivati in Libia grazie a un’eccezione alle norme di legge, fatta nell’interesse dello Stato e tutelata dal “Segreto di Stato”.

 

di Michele Paris

In questi ultimi giorni, il dibattito in corso tra Democratici e Repubblicani intorno alla questione dell’innalzamento del tetto del debito pubblico degli Stati Uniti ha fatto segnare qualche debole progresso. Pur rimanendo alcune divergenze, l’occasione di ridurre drasticamente la spesa federale farà in modo che i due schieramenti finiranno per accordarsi su un qualche provvedimento che eviterà un clamoroso default da parte del Tesoro americano.

Con l’approssimarsi della scadenza del 2 agosto per aumentare il livello di indebitamento USA - attualmente fissato a circa 14 mila e 300 miliardi di dollari - le trattative a Washington sono diventate a dir poco frenetiche. In mancanza di un punto d’incontro definitivo su un accordo di ampio respiro che ristrutturi interamente il sistema di spesa del governo federale, la data limite del 22 luglio fissata dal presidente Obama per approvare una misura definitiva risulta ormai superata.

A far aumentare le probabilità di un’intesa in extremis è stata martedì la presentazione di un nuovo piano di bilancio, frutto del lavoro della cosiddetta “Gang of Six”, la commissione bipartisan formata da tre senatori democratici ed altrettanti repubblicani che da tempo lavora all’individuazione di nuovi possibili tagli alla spesa pubblica. La commissione è composta dai senatori democratici Richard Durbin dell’Illinois (numero due al Senato), Kent Conrad del Nord Dakota (presidente della Commissione Bilancio) e Mark Warner della Virginia; e dai repubblicani Tom Coburn dell’Oklahoma, Mike Crapo dell’Idaho e Saxby Chambliss della Georgia.

In un documento di appena quattro pagine, la “Gang of Six” ha proposto tagli per 3 mila 700 miliardi di dollari nel prossimo decennio, di cui 500 miliardi da conseguire con effetto immediato. Ad addolcire la pillola ci sono alcune modeste misure che renderebbero più difficile l’evasione legalizzata delle tasse per le grandi aziende. Per evitare le proteste degli americani in difficoltà, questa proposta risulta piuttosto generica e non elenca nel dettaglio i programmi sociali che dovrebbero essere soppressi, lasciando alle commissioni del Congresso competenti sui vari dipartimenti il compito di individuare i destinatari dei tagli.

Nonostante il piano appena descritto preveda anche un abbassamento delle aliquote fiscali per le corporation nel lungo periodo, l’appoggio da parte di una parte dei parlamentari repubblicani è stata tiepida. I meno convinti sono i membri della Camera dei Rappresentanti sostenuti dai Tea Party - in particolari gli 87 deputati repubblicani entrati al Congresso dopo le elezioni del novembre 2010 - i quali, da un lato, non vogliono in nessun modo sentir parlare di aumenti per le tasse dei redditi più alti e, dall’altro, chiedono tagli ancora più profondi ai programmi Medicare e Medicaid e al sistema pensionistico.

Dopo le interruzioni dei colloqui, arenati sul persistente rifiuto repubblicano di comprendere in un eventuale accordo con i democratici limitati aumenti delle tasse per i ricchi, Obama e i leader di entrambi i partiti al Congresso sono tornati a confrontarsi separatamente mercoledì alla Casa Bianca. In seguito all’incontro è emerso il principale passo avanti nella trattativa. Come ha spiegato il portavoce del presidente, Jay Carney, durante la sua conferenza stampa giornaliera, Obama sembra ora disposto ad accettare un aumento del tetto del debito anche senza un accordo più ampio sul deficit, mentre in precedenza aveva minacciato di porre il veto su qualsiasi misura provvisoria.

L’innalzamento del tetto dovrebbe essere tuttavia di breve durata (“qualche giorno”), giusto il tempo insomma per permettere alle due parti di raggiungere comunque un accordo che, visti i tempi ormai molto stretti, potrebbe essere siglato solo dopo il 2 agosto.

Le ipotesi che rimangono sul tavolo per un provvedimento che riduca in maniera consistente la spesa federale nei prossimi anni sono in definitiva due: oltre al già citato piano partorito dalla “Gang of Six”, rimane ancora aperta la proposta della Casa Bianca per 4 mila miliardi di dollari di tagli in dieci anni. Questa ipotesi incontra però l’opposizione ancora più ferma da parte dei repubblicani, poiché comprende contenuti aumenti del carico fiscale per le fasce di reddito più alte.

L’ostacolo maggiore nelle discussioni è rappresentato proprio da quella frangia più a destra tra i repubblicani alla Camera dei Rappresentanti, i quali difficilmente potranno essere convinti ad appoggiare una misura di questo genere dalla loro stessa leadership, nonostante i tagli devastanti alla spesa che saranno inclusi in qualsiasi bozza di accordo. In questo scenario diventeranno perciò fondamentali i voti dei deputati democratici per giungere ad un’approvazione definitiva.

Superati a destra dallo stesso Barack Obama nelle discussioni sul tetto del debito, intanto, i repubblicani alla Camera hanno licenziato martedì un provvedimento tra i più estremi mai usciti dal Congresso americano. La misura appena approvata prevede tagli non meglio specificati per 5 mila e 800 miliardi di dollari nel prossimo decennio e, soprattutto, una modifica alla Costituzione che avrebbe effetti devastanti sulla spesa sociale, cioè l’obbligatorietà di raggiungere il pareggio di bilancio quando si rende necessario innalzare il tetto del debito.

Come se non bastasse, la legge definita “Cut, Cap and Balance” porterebbe ad una liquidazione di fatto del programma di assistenza pubblico per gli anziani Medicare, rimpiazzato da polizze assicurative private e sovvenzioni governative che non sarebbero comunque in grado di tenere il passo all’incremento dei costi previsti per le spese sanitarie nei prossimi anni. Nello stesso emendamento costituzionale è prevista infine la necessità di approvare qualsiasi aumento delle tasse con i due terzi dei voti del Congresso, mentre basterebbe la maggioranza semplice per tagliare programmi sociali di cui beneficiano decine di milioni di americani.

Questo provvedimento ha in ogni caso un valore puramente simbolico, dal momento che non ha alcuna possibilità di essere approvato dal Senato, dove i democratici conservano la maggioranza. Il presidente Obama ha poi già annunciato di esercitare il proprio potere di veto nel caso dovesse raggiungere la sua scrivania.

La mossa dei repubblicani ha dunque il solo scopo di ristabilire le gerarchie nella corsa alla distruzione dei programmi sociali finanziati dalla spesa federale negli USA. Essa, tuttavia, testimonia a sufficienza della distorsione del dibattito in corso sul tetto del debito in un paese dove milioni di persone continuano a rimanere senza lavoro e a scivolare al di sotto della soglia di povertà.

Per questi ultimi l’unica risposta che arriva da Washington è un ulteriore assottigliamento della già esile rete di assistenza pubblica, mentre rimangono rigorosamente fuori da ogni discussione le voci che hanno contribuito maggiormente a produrre il gigantesco buco di bilancio delle casse federali americane, e cioè le guerre in Iraq e Afghanistan, l’enorme trasferimento di denaro pubblico alle banche con il salvataggio di Wall Street del 2008 e i colossali tagli fiscali di cui le classi privilegiate continuano a godere.

di mazzetta

Millesettecento detenuti americani in isolamento sono scesi in sciopero della fame, per protestare contro l'applicazione di una pena accessoria non prevista dai codici, ma somministrata con generosità dalle amministrazioni carcerarie, spesso private. Isolamento non vuol solo dire essere separati dagli altri detenuti e privati del contatto umano come delle comunicazioni con l'esterno, ma anche essere privati delle letture, delle foto dei propri cari e di qualunque cosa ecceda l'abbigliamento regolamentare e la dotazione delle celle.

Grazie alla natura amministrativa del provvedimento non sono ammessi ricorsi e così, quella che in teoria dovrebbe essere una procedura adottabile nel caso estremo di detenuti ingovernabili, diviene una pratica come un'altra; a volte usata per evitare problemi a prescindere nel caso di detenuti che non danno garanzia di tranquillità, altre volte usata come vera e propria forma di tortura per ottenere informazioni su complici o delitti. Niente di tutto ciò è legale, contravvenendo la convenzione sui diritti umani che pure gli Stati Uniti hanno firmato, ma questo è da tempo il livello della giustizia americana, ormai inquinata dall'ombra di Guantanamo e dall'abuso di trattamenti che vanno oltre la semplice detenzione.

L'esempio di Bradley Manning è l'icona del sistema giudiziario americano. Pur accusato di reati gravissimi contro lo Stato, non potrebbe essere sottoposto ad altro trattamento che la detenzione. Subisce invece da mesi l'isolamento più completo ed è anche stato costretto a rimanere a lungo nudo in cella.

Una pratica che non risponde a nessuna esigenza legittima, se non a quella di torturare il prigioniero perché abbandoni ogni resistenza e confessi o ammetta responsabilità che gli stessi inquirenti non sono stati in grado di provare e che quindi si fonda solo sulle convinzioni degli investigatori-aguzzini, che altrimenti non avrebbero bisogno di torturare i prigionieri. Un bel ritorno a Torquemada, tanto più che è scientificamente dimostrato che le torture non aiutano le confessioni, e che una dichiarazione rilasciata sotto tortura è sempre molto meno attendibile di una ottenuta con le procedure in vigore nei paesi civili.

Non è un paradosso che nel sostenere l'efficacia di una tortura come il waterboarding, i servizi americani abbiano citato il caso del pericoloso terrorista sottoposto a centottanta sedute di questa tortura. Centottanta volte gli hanno fatto provare la sensazione dell'annegamento, centottanta volte lo hanno fatto tossire, annaspare e ansimare prima di decidere che le sue dichiarazioni erano quelle che si attendeva chi conduceva l'interrogatorio.

Dall'uso in casi eccezionali, già mal tollerato dal diritto, si è ormai trasceso all'uso sistematico, con gravi danni alla salute dei detenuti, che è bene ricordare sono stati condannati solo alla privazione della libertà, non a essere sepolti fino a che non parlano o per comodità di chi gestisce il carcere.

Carceri che negli Stati Uniti sono spesso il regno incontrastato di chi ne ha la gestione, anche privati che alimentano una vera e propria macchina organizzata industrialmente per contenere la più grande popolazione carceraria del mondo occidentale.

Due milioni di americani sono dietro le sbarre, per fare un paragone con l'Italia sarebbe come se da noi fossero quattrocentomila e invece sono sessantamila per una capienza delle carceri di poco più della metà.

Inutile dire che a tale severità non corrisponde una riduzione della criminalità, molto più elevata che in paesi con una popolazione carceraria molto più piccola e trattata secondo standard più civili.

Ma per motivi simili anche le carceri italiane sono fuorilegge, contravvengono sia alla convenzione sui diritti dell'uomo mantenendo i detenuti in condizioni poco dignitose e pericolose per la salute, che alla legge dello Stato che fissa i criteri per l'abitabilità delle strutture carcerarie.

In primis il limite delle persone che possono contenere, che vale e viene fatto rispettare ad alberghi, cinema, centri commerciali e anche alle abitazioni private, ma che non sembra valere non per le carceri, dove di questa condizione non soffrono solo i “criminali”, ma anche gli addetti alla loro custodia, che sono a tutti gli effetti lavoratori che operano in condizione d'illegalità, a cominciare dalle leggi sulla sicurezza.

Dice il New Yor Times che “la povertà della nostra scienza criminologica” è testimoniata da come le amministrazioni hanno accolto lo sciopero della fame dei detenuti, catalogandolo come una minaccia e che, probabilmente, elimineranno la minaccia con la loro alimentazione forzata come a Guantanamo, in “una malvagia caricatura d'assistenza sanitaria”: un'altra violazione delle leggi internazionali che passa in cavalleria. Chiede l'editoriale di oggi del New Yor Times di osare quello che oggi è “l'impensabile” per l'America: trattare i detenuti come esseri umani.

 

di Michele Paris

“Il giorno più umiliante della sua vita”. Così il magnate dei media, Rupert Murdoch, ha definito la sua audizione alla Commissione cultura della Camera dei Comuni. Murdoch ha difeso la reputazione di "News Corp" sullo scandalo che ha coinvolto il suo tabloid e lo ha portato alla chiusura. Rupert Murdoch ha detto di non sentirsi responsabile per quello che è accaduto al News of the World.

Il News of the World è meno dell’1 per cento della loro azienda, ha detto il magnate australiano, affiancato dal figlio James. In due settimane, l’azienda ha chiuso un giornale proficuo, è uscita da un tentativo di comprare il resto della British Sky Broadcasting Group Plc e ha  perso due dirigenti. Nessun accenno significativo invece a Sean Hoare, l'ex giornalista del News of The World che l’altro ieri era stato trovato morto nella sua abitazione di Watford.

Ma lo scandalo si è diffuso aldilà di News Corp, costringendo alle dimissioni due dei poliziotti più anziani del paese inglese e il leader del primo ministro David Cameron. Il quale, dal canto suo, divide le colpe dell’accaduto tra i media, che hanno commesso dei crimini terribili, e la polizia, che deve rispondere a domande grandi ed imperative sulla corruzione all’interno del suo staff.

Ma proprio la posizione del primo ministro David Cameron, con l’allargamento dello scandalo delle intercettazioni telefoniche in Gran Bretagna, sembra farsi sempre più precaria. Gli strettissimi rapporti del premier conservatore con la famiglia Murdoch e i vertici del suo impero mediatico continuano infatti ad essere sotto i riflettori, minacciando la sopravvivenza stessa del governo a poco più di un anno dal suo insediamento.

Dopo aver affrontato sommariamente lo scandalo qualche giorno fa, Cameron è stato costretto lunedì ad interrompere la sua visita ufficiale in Sud Africa per tornare in fretta e furia a Londra dove mercoledì è in programma una sessione speciale del Parlamento. Gli ultimi sviluppi della vicenda stanno mettendo sempre più in difficoltà il primo ministro, la cui risposta alle polemiche delle ultime settimane è apparsa tutt’altro che convincente.

Il caso delle intercettazioni - come è noto - coinvolge il giornale News of the World, appartenente al gruppo del magnate australiano Rupert Murdoch, i cui vertici avrebbero messo sotto controllo i telefoni di politici, celebrità, membri della famiglia reale e famigliari di vittime di crimini negli ultimi anni. La condotta della testata più diffusa in Gran Bretagna, chiusa qualche giorno fa dopo 168 anni di pubblicazioni, ha messo in luce un desolante scenario di collusione tra l’impero di Murdoch, l’intera classe politica e le stesse forze di polizia.

Una prima indagine sulle intercettazioni era stata aperta, e quasi subito insabbiata, già nel 2006. Tra ipotesi e rivelazioni, il caso è riesploso prepotentemente qualche settimana fa, quando si è saputo che News of the World aveva ottenuto illegalmente l’accesso al telefono di una teenager scomparsa e successivamente ritrovata morta, Milly Dowler, e della sua famiglia. I documenti scoperti presso l’archivio di un investigatore privato al servizio di News of the World hanno rivelato poi che i telefoni di circa 4 mila persone erano stati allo stesso modo messi sotto controllo.

I problemi per il primo ministro Cameron erano iniziati almeno lo scorso mese di gennaio, quando il suo ormai ex portavoce, Andy Coulson, era stato costretto alle dimissioni a causa del suo coinvolgimento nello scandalo. Ex direttore di News of the World, Coulson era stato nominato direttore delle comunicazione del premier nonostante fosse già oggetto di una precedente inchiesta. Anche dopo le dimissioni, Cameron ha continuato a difendere pubblicamente Coulson, subendo così un duro colpo quando, settimana scorsa, quest’ultimo è stato arrestato per aver approvato i pagamenti destinati alle intercettazioni.

Le cose per Cameron hanno continuato però a peggiorare. Dopo aver rassegnato le dimissioni da amministratore delegato di News International - la filiale britannica dell’americana News Corporation di Rupert Murdoch - anche l’amica personale del premier, Rebekah Brooks, è finita  agli arresti domenica scorsa.

In rapida sequenza sono arrivate poi le dimissioni del capo della polizia metropolitana di Londra (Scotland Yard), Lord Paul Stephenson, e del suo vice, John Yates. Il primo ha dovuto cedere alle pressioni dopo il polverone sollevato dalla diffusione della notizia dei suoi rapporti con l’ex vice direttore di News of the World, Neil Wallis, assunto da Scotland Yard come consulente per i rapporti con i media, mentre il secondo è finito sotto accusa per aver deciso di chiudere l’indagine sulle intercettazioni due anni fa.

Sempre nella giornata di lunedì, è stato infine ritrovato senza vita il corpo dell’ex reporter di News of the World Sean Hoare nella sua abitazione a nord di Londra. In un’intervista di qualche mese fa al New York Times magazine, Hoare aveva per la prima volta accusato Andy Coulson di essere al corrente delle intercettazioni, contribuendo così alla riapertura delle indagini da parte della polizia britannica.

L’incertezza mostrata da David Cameron nella gestione della vicenda è indubbiamente il frutto della sua vicinanza ai responsabili dello scandalo che sta scuotendo il mondo politico britannico. Oltre a non aver scaricato in fretta il portavoce Coulson, il premier ha esitato nel chiedere le dimissioni di Rebekah Brooks dalla guida di News International. Soprattutto, però, Cameron non è intervenuto tempestivamente per fermare l’acquisizione da parte del gruppo Murdoch della totalità di British Sky Broadcasting (BSkyB).

BSkyB è la prima televisione satellitare britannica per numero di utenti ed appartiene già per il 39% a Murdoch. L’operazione in corso fino a pochi giorni fa prevedeva l’acquisto da parte di News International dell’altro 61%. Il via libera all’acquisizione da parte del governo di Londra sembrava cosa fatta, quando lo scoppio dello scandalo ha finito per rimettere tutto in discussione. Nonostante la crescente opposizione nel paese, Cameron ha atteso parecchi giorni prima di spingere Murdoch a ritirarsi dall’operazione, lasciando così la possibilità ai laburisti per presentarsi come difensori della pluralità del sistema dell’informazione in Gran Bretagna.

L’affare BSkyB è stato valutato nell’ordine di 12 miliardi di dollari e verosimilmente sembra poter essere alla base stessa dell’esplosione dello scandalo. Profonde rivalità tra i giganti della comunicazione e una dura competizione per le quote di mercato stanno dietro al tentativo di fusione tra News International e BSkyB, con la BBC e il Guardian - in prima linea nel denunciare l’affaire delle intercettazioni - particolarmente infastiditi dalle tendenze monopoliste del gruppo Murdoch.

Mentre Rupert Murdoch e il figlio James, assieme a Rebekah Brooks, apparivano di fronte alla commissione Cultura, Sport e Media al Parlamento di Londra per rendere conto delle loro responsabilità, il leader laburista Ed Miliband ha continuato ad attaccare sia i vertici di News International che il governo conservatore. “Questa era un’organizzazione che pensava di non avere alcuna responsabilità”, ha dichiarato Miliband a proposito del comportamento dei media del gruppo Murdoch. “Il suo potere era immenso, la sua influenza enorme, a partire dal primo ministro… Nessuno sembrava disposto a contrastarla, nemmeno la polizia, i politici e la stampa”. Nessuno, in effetti, e tanto meno i governi laburisti di Tony Blair e Gordon Brown che hanno ampiamente beneficiato dell’appoggio di Murdoch e dei suoi giornali.

Gli effetti del caso News of the World in Gran Bretagna, intanto, hanno avuto ripercussioni anche negli Stati Uniti, dove il gruppo Murdoch controlla, tra l’altro, FoxNews, New York Post e Wall Street Journal, il cui editore, Les Hinton, si è dimesso qualche giorno fa.

Dietro richiesta del deputato repubblicano di New York, Peter King, l’FBI ha infatti aperto un’indagine nei confronti di News Corporation con l’accusa di aver messo sotto controllo i telefoni dei famigliari delle vittime dell’11 settembre. Questa ipotesi era stata avanzata da un recente articolo del Daily Mirror basato sulla testimonianza di un ex poliziotto newyorchese, il quale aveva rivelato come alcuni giornalisti di News of the World gli avessero offerto del denaro in cambio dei dati telefonici delle vittime dell’11 settembre e dei loro famigliari.

Gli sviluppi dell’inchiesta americana rischiano di essere ancora più problematici per Rupert Murdoch, il cui gruppo ha la maggior parte degli interessi proprio negli USA. La sua vicinanza alla politica anglo-americana - e non solo - potrebbe tuttavia permettergli anche di uscire dalla vicenda senza troppe conseguenze, al di là di una campagna di condanna sui giornali di mezzo mondo.

Attraverso il suo impero, per molti anni Murdoch ha influito pesantemente sulle decisioni politiche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, al di là del colore dei governi che hanno spesso fatto a gara per assicurarsi il suo sostegno. In questo ruolo, il gruppo da lui guidato ha contribuito in maniera fondamentale a spostare a destra il baricentro della politica di questi due paesi e, di riflesso, di tutto l’Occidente, avanzando un’agenda dai tratti profondamente anti-democratici secondo il volere di quella oligarchia economico-finanziaria che il miliardario australiano rappresenta alla perfezione.

di Michele Paris

Nelle difficili trattative in corso tra Repubblicani e Democratici per innalzare il tetto del debito pubblico americano, sono intervenuti negli ultimi giorni voci autorevoli del mondo economico e finanziario. Le pressioni sul Congresso e sulla Casa Bianca si stanno facendo sempre più forti, così da giungere ad un accordo bipartisan che permetta al governo federale di rispettare le proprie scadenze e, soprattutto, che preveda sostanziali tagli alla spesa pubblica nei prossimi anni.

Il più recente intervento per mettere in guardia dalle conseguenze di un possibile default, se il limite massimo dell’indebitamento americano non verrà alzato entro il 2 agosto prossimo, è stato quello dell’agenzia di rating Moody’s. Con un consolidato metodo ricattatorio - già impiegato negli ultimi mesi per i casi di Grecia, Irlanda e Portogallo - l’agenzia statunitense mercoledì ha minacciato di rivedere a breve la “tripla A” riservata agli USA se la politica non troverà una soluzione concordata per evitare una nuova crisi.

Per Moody’s anche solo una breve interruzione delle capacità del Tesoro americano di pagare gli interessi sui propri bond sarà da considerarsi come un default, con tutte le conseguenze sul sistema finanziario domestico e internazionale. La presa di posizione degli analisti di Moody’s fa seguito a quella dei colleghi di Standard & Poor’s, che lo scorso aprile avevano già declassato la prospettiva dell’economia americana da stabile a negativa a causa dell’elevato deficit di bilancio.

L’avvertimento di Moody’s era stato preceduto di un giorno dall’appello lanciato da 500 top manager d’oltreoceano, riuniti sotto alcune sigle imprenditoriali come la Camera di Commercio e il Forum per i Servizi Finanziari, per agire al più presto sul fronte del debito. Le preoccupazioni del business americano non riguardano naturalmente le possibili conseguenze sul finanziamento dei programmi sociali in caso di default, bensì gli effetti devastanti che si abbatterebbero sul sistema finanziario.

Sempre mercoledì, anche il governatore della Fed, Ben Bernanke, ha ritenuto di dover sollecitare i politici americani a muoversi in fretta nel corso di un’audizione alla Camera dei Rappresentanti. Oltre a confermare che la Fed è pronta a nuove misure di “stimolo” per rilanciare un’economia ancora stagnante, Bernanke ha avvisato che, se non arriverà l’innalzamento del tetto del debito, le conseguenze sociali saranno rovinose. Ai primi di agosto scatterà infatti un taglio di circa il 40 per cento della spesa federale che colpirà i programmi pubblici come Medicare, dal momento che il governo non potrà più fare ricorso alle entrate provenienti dal denaro raccolto sul mercato dei bond.

A conferma delle apprensioni a livello internazione per la situazione di stallo nelle trattative sul debito negli Stati Uniti, ieri è giunto un appello anche dalla Cina. Sia pure in maniera misurata, il maggior detentore del debito pubblico USA - oltre mille miliardi di dollari in titoli del Tesoro - ha chiesto ufficialmente al governo di Washington di proteggere gli interessi degli investitori.

Sul fronte politico, intanto, le trattative tra i due partiti hanno fatto segnare mercoledì un altro punto morto. Il summit alla Casa Bianca tra il presidente Obama e la leadership democratica e repubblicana si è chiuso tra nuove tensioni. Secondo i resoconti dei testimoni, Obama avrebbe abbandonato bruscamente il vertice dopo uno scontro verbale con il leader di maggioranza alla Camera, il deputato Eric Cantor della Virginia.

Nonostante i due schieramenti condividano sia le ansie sulla questione del tetto del debito sia la necessità di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica, rimangono dei contrasti sui contenuti dell’accordo. Mentre i repubblicani sono disposti ad acconsentire all’aumento del debito solo a condizione che vengano fatti tagli di spesa per l’importo corrispondente e che un accordo complessivo sul deficit non preveda nessuna crescita del carico fiscale, i democratici non intendono in nessun modo stralciare dai negoziati modesti aumenti delle tasse per i redditi più alti.

Dopo aver ceduto abbondantemente alle richieste repubblicane sulla riduzione della spesa, i democratici si trovano ora costretti almeno a salvare le apparenze, in modo da poter sostenere che l’abbattimento del deficit non graverà interamente su lavoratori e pensionati americani. In realtà, le proposte democratiche appaiono in larga misura trascurabili e comprendono, tra l’altro, la soppressione di alcune scappatoie legali che permettono alle corporation di non pagare tasse, delle detrazioni fiscali per i jet privati dei manager delle grandi aziende e dei sussidi alle compagnie petrolifere. L’impatto di questi provvedimenti sarebbe peraltro neutralizzato dalla proposta di abbassare sensibilmente l’aliquota fiscale applicata al business americano.

Il presidente Obama, inoltre, nel dibattito in corso sul debito si sta dimostrando per certi versi ancora più a destra del Partito Repubblicano. L’accordo sul risanamento avanzato dalla Casa Bianca prevede infatti tagli a tutto campo che ammontano a 4 mila miliardi di dollari in un decennio, una cifra di gran lunga superiore a quella proposta dai repubblicani e dalla moribonda commissione bipartisan guidata dal vice-presidente Biden. Sul tavolo per Obama c’è anche il ridimensionamento dei programmi pubblici Medicare e Medicare e del sistema pensionistico, cosa che una parte dei repubblicani aveva invece escluso.

Di fronte alle resistenze dei colleghi democratici, i repubblicani cominciano ora a valutare i possibili contraccolpi negativi di un mancato accordo e di doversi assumere interamente la responsabilità politica di un default. Per questo, il leader di minoranza al Senato, Mitch McConnell, ha proposto un’insolita soluzione per uscire dall’impasse lasciando tutte le conseguenze politiche ai democratici. Secondo il piano, dovrebbe essere Obama a prendere la decisione di alzare il tetto del debito. A quel punto il Congresso finirebbe per bocciare il provvedimento della Casa Bianca ma Obama sarebbe in grado di implementarlo ugualmente usando il proprio diritto di veto.

Questa manovra proposta dal senatore del Kentucky ha suscitato le ire immediate di quasi tutto il suo partito, soprattutto dei deputati più a destra vicini ai Tea Party. Tuttavia, successivamente, in molti si sono detti disponibili a valutare la proposta - compresa la Casa Bianca - nel caso non dovesse emerge nessun’altra alternativa percorribile. In ogni caso, Obama ha fissato a venerdì la data ultima per trovare un accordo di ampio respiro sul deficit. Se lo scontro persisterà, si lavorerà allora ad una soluzione più limitata per evitare il default. Il tutto in tempi rapidi, visto che secondo il Tesoro dopo il 22 luglio potrebbero mancare i tempi tecnici per fare entrare in vigore un eventuale provvedimento.

Nel dibattito sul debito negli Stati Uniti, va ricordato, non è praticamente mai emerso il problema del persistente altissimo livello di disoccupazione. Persino Bernanke durante la già ricordata audizione al Congresso ha ricordato ai politici americani che gli USA stanno vivendo due crisi: quella del debito e quella di una disoccupazione risalita al 9,2 per cento secondo i dati più recenti. Ciononostante, l’intera classe politica appare sorda e anzi ben decisa a varare misure che aggraveranno la situazione.

L’insistenza da parte di democratici e repubblicani sulla questione del deficit e dei tagli alla spesa pubblica, d’altra parte, non è altro che il riflesso di un sistema nel quale gli unici due partiti del panorama politico di Washington difendono unicamente gli interessi delle élite economiche e finanziarie del paese.

Per questi ultimi, lo smantellamento di ciò che resta dei programmi pubblici e il mantenimento di un elevato livello di disoccupazione fanno parte della medesima strategia volta a proteggere i loro profitti, comprimendo gli stipendi di decine di milioni di americani, assestando colpi mortali ad uno stato sociale traballante e distruggendo le residue garanzie rimaste ai lavoratori.


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