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di Michele Paris
L’uccisione avvenuta martedì di Ahmed Wali Karzai, fratellastro del presidente afgano, rischia di complicare i piani delle forze di occupazione americane in vista del parziale ritiro delle truppe da poco deciso dal presidente Obama. Se le ragioni della morte di uno degli uomini più potenti di tutto l’Afghanistan rimangono tuttora oscure, chiarissime e minacciose appaiono invece le conseguenze della sua scomparsa, così come ben noti erano i suoi profondi legami con gli Stati Uniti, testimonianze entrambe del fallimento dell’avventura americana nel tormentato paese dell’Asia centrale.
Come ogni giorno, anche martedì scorso Ahmed Wali Karzai stava ricevendo i residenti della provincia di Kandahar - del cui consiglio provinciale è a capo - nella sua abitazione privata. Secondo le ricostruzioni della stampa, durante la mattinata uno degli uomini più fidati del suo servizio di sicurezza, Sardar Muhammad, avrebbe chiesto di parlare in privato con Ahmed Karzai. Dopo che i due si sono ritirati in una stanza, Muhammad ha sparato al politico afgano, colpendolo due volte alla testa. Sentiti gli spari, le altre guardie della sicurezza hanno fatto irruzione nella stanza, uccidendo l’attentatore. Il corpo di quest’ultimo è stato poi esposto pubblicamente nel centro di Kandahar, secondo un macabro rituale tipico del regime talebano.
Il 40enne assassino era uno dei comandanti delle guardie del corpo di Ahmed Karzai, per il quale lavorava da circa otto anni. Entrambi gli uomini appartenevano allo stesso clan, Populzai, di cui fa parte la famiglia Karzai. Muhammad godeva della stima del suo influente datore di lavoro, tanto da scortare frequentemente suo figlio per le strade di Kandahar e da ottenere un pezzo di terra in un elegante sobborgo della città afgana. L’omicida era a capo di una squadra di un centinaio di uomini e comandava il posto di polizia nel quartiere di Kandahar dove vivono i membri della famiglia Karzai.
L’uccisione di Ahmed Karzai è stata rivendicata dai Talebani, i quali hanno affermato di aver assoldato da tempo Sardar Muhammad. La responsabilità dei Talebani appare però tutt’altro che certa. Tanto per cominciare, le testimonianze di familiari e conoscenti rilasciate ai giornali americani sembrano escludere la possibilità che Muhammad fosse un agente talebano. Opinione diffusa è piuttosto quella che ci siano state divergenze con Ahmed Karzai negli ultimi tempi e il loro rapporto si fosse incrinato irreparabilmente.
Scorrendo il profilo e i precedenti del cosiddetto “Re di Kandahar”, tuttavia, si comprende come potessero essere in molti a desiderarne la morte. Trafficanti di droga, leader di clan rivali o addirittura personalità a lui vicine in competizione per il potere potrebbero essere dietro alla sua esecuzione.
Ahmed Karzai era a capo di un sistema di potere che andava ben al di là delle sue funzioni ufficiali al vertice della provincia di Kandahar. La sua influenza si estendeva praticamente in tutto l’Afghanistan meridionale. Oltre al prestigio e all’autorità derivanti dal rapporto di sangue con il presidente afgano, Hamid Karzai, il suo indiscusso potere dipendeva in gran parte dalla ricchezza accumulata con affari e operazioni tutt’altro che trasparenti.
Grazie al pressoché totale monopolio delle operazioni di sicurezza nel sud del paese, Ahmed Karzai si era accaparrato milioni di dollari provenienti dai lucrosi appalti concessi dalle forze NATO. Da tempo inoltre il fratellastro del presidente veniva collegato al traffico di droga nella regione di Kandahar, dove aveva costruito rapporti ambigui con gli insorti talebani.
Un cablo molto esplicito dell’ambasciata americana a Kabul del giugno 2009, reso noto da Wikileaks, descrive come “il Re di Kandahar controlla l’accesso alle risorse economiche, al sistema clientelare e di protezione”. Di fatto, prosegue il documento riservato, “gran parte della gestione di Kandahar avviene al di fuori del controllo pubblico, dove AWK (Ahmed Wali Karzai) opera, parallelamente alle strutture formali di governo, tramite una rete di alleanze che utilizza le istituzioni dello stato per proteggere e facilitare attività lecite e illecite”.
Un’altra accusa mossa contro Ahmed Karzai era quella di aver favorito la rielezione del fratellastro manipolando i risultati del voto per le presidenziali dell’estate del 2009. Ahmed Karzai comandava inoltre un reparto speciale clandestino (“Kandahar Strike Force”) che partecipava alle operazioni segrete condotte dalla CIA e dalle Forze Speciali americane. Proprio dell’agenzia d’intelligence di Langley Ahmed Karzai era sul libro paga fin dal 2001, almeno secondo quanto scrisse il New York Times due anni fa citando fonti governative degli Stati Uniti.
I legami con la CIA sembrano avergli permesso di sopravvivere e di accumulare potere per anni nonostante i suoi traffici e l’opposizione di certi ambienti militari americani. Le attività illegali di Ahmed Karzai, secondo molti comandanti statunitensi in Afghanistan, rischiavano infatti di alimentare l’odio popolare contro l’occupazione NATO e il governo fantoccio di Kabul.
Nell’aprile del 2009 il generale David McKiernan, allora a capo delle forze armate americane in Afghanistan, aveva perciò chiesto ai suoi subordinati di raccogliere ogni possibile prova che legasse Ahmed Karzai al traffico di oppio. Da molti ambienti USA vennero fatte pressioni, peraltro senza successo, sullo stesso presidente afgano per rimuovere il fratellastro, anche offrendogli un incarico diplomatico all’estero.
La rassegnazione dei militari americani a collaborare con Ahmed Karzai nel sud del paese è testimoniata da una rivelazione del Washington Post del giugno 2010. Nell’articolo viene descritto come nel marzo precedente il nuovo comandante delle forze di occupazione, generale Stanley McChrystal, dopo aver valutato alcuni rapporti sulle attività illegali di Ahmed Karzai, ordinò ai comandanti ai suoi ordini di astenersi da qualsiasi critica verso il potente uomo politico afgano e di avviare piuttosto una collaborazione attiva. Questo approccio sarebbe stato successivamente fatto proprio anche dal successore di McChrystal, il generale David Petraeus da poco nominato nuovo direttore della CIA.
Il cambiamento di rotta da parte americana nei confronti di una figura così discutibile è dimostrata anche da una serie di commenti apparsi sui media d’oltreoceano a partire da martedì e nei quali si sottolinea in continuazione come Ahmed Karzai avesse cambiato registro negli ultimi mesi, mostrandosi più collaborativo con i comandanti NATO e ben deciso ad occuparsi del bene della cruciale provincia di Kandahar.
Nonostante le perplessità, gli americani hanno preferito così conservare un alleato influente e una preziosa fonte di informazioni, chiudendo un occhio sugli affari poco puliti in cui Ahmed Karzai era coinvolto. In definitiva, come ha chiesto retoricamente un anonimo funzionario americano ad un giornalista del New York Times, per Washington “sono più importanti la sicurezza e la guerra contro i Talebani o il traffico di droga e la corruzione ?”.
Questo atteggiamento opportunistico, tutt’altro che insolito per la politica estera americana, è in un certo senso la testimonianza della sostanziale sconfitta della missione afgana dopo quasi dieci anni di combattimenti. I timori espressi da più parti per il vuoto di potere causato dalla morte di Ahmed Karzai e possibili nuovi attacchi talebani a Kandahar - dove, secondo i vertici NATO, erano stati fatti significativi progressi - sono infatti la prova della fragilità di un’occupazione fondata su politici locali impopolari e corrotti.
Una strategia quella americana che ha progressivamente abbandonato i propositi di conquistare le popolazioni locali con la promessa di instaurare la democrazia e un governo privo di elementi corrotti. Di fronte all’irriducibile opposizione di gran parte dei civili afgani si è scelta alla fine la strada di un impegno relativamente più limitato, basato principalmente su sanguinose operazioni militari contro i cosiddetti insorti, senza troppi scrupoli nel collaborare con personaggi controversi come Ahmed Wali Karzai.
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di Michele Paris
Il Parlamento israeliano ha approvato in via definitiva una nuova legge che comprime la libertà di espressione nel paese e legittima gli insediamenti nei territori occupati, ritenuti illegali secondo il diritto internazionale. La “Knesset” ha infatti licenziato nella giornata di lunedì un provvedimento che trasforma in reato civile il solo appello al boicottaggio contro lo stato di Israele e i suoi insediamenti.
Quello che per gli oppositori della nuova legge non è altro che un ulteriore passo verso una preoccupante deriva anti-democratica di Israele, è stato approvato con 47 voti a favore e 38 contrari. La misura, definita “Boycott Prohibition Law”, colpirà chiunque inviterà al boicottaggio economico, culturale e accademico dello stato di Israele, delle sue istituzioni e di qualsiasi area sotto il suo controllo. Una definizione quest’ultima che fa riferimento agli insediamenti illegali nei territori palestinesi occupati.
Nelle dichiarazioni ufficiali, gli esponenti della maggioranza hanno sostenuto che la legge sarà uno strumento per combattere la campagna di delegittimazione in atto nei confronti di Israele. Una delegittimazione agli occhi del mondo che il governo israeliano contribuisce peraltro ad autoinfliggersi, come confermano iniziative come quella appena approvata.
Ad ogni modo, coloro che violeranno la nuova legge potranno andare incontro a sanzioni economiche, mentre aziende o organizzazioni che sosterranno un boicottaggio saranno a rischio di esclusione dalle aste per gli appalti pubblici. Allo stesso modo, le ONG potranno perdere i benefici fiscali di cui godono attualmente.
A presentare il testo di legge in Parlamento è stato il deputato Ze’ev Elkin del partito del premier Netanyahu (Likud), uscito dalla formazione centrista Kadima nel 2008 perché trasformatasi ormai, a suo parere, in un partito “di sinistra”. Alla votazione di lunedì erano assenti sia lo stesso Netanyahu che il ministro della Difesa Ehud Barak e altri esponenti di spicco del governo.
Le discussioni sull’opportunità di presentare una misura di questo genere erano state molto accese alla vigilia del voto. Lo speaker della Knesset, Reuven Rivlin del Likud, aveva ad esempio espresso non poche perplessità sui contenuti della legge e alcuni suoi emendamenti per attenuarne l’impatto sono stati poi bocciati in aula. Ancora più ferma era stata l’opposizione del consigliere legale del parlamento, Eyal Yinon, il quale aveva definito la legge al limite della costituzionalità e affermato senza mezzi termini che avrebbe minato la libertà di espressione.
Nonostante l’assenza, Netanyahu aveva dato il suo pieno appoggio alla legge. Nella giornata di domenica, il primo ministro si era incontrato con lo stesso Rivlin e il primo firmatario del provvedimento, il deputato Elkin, per discuterne il percorso parlamentare. Liquidando gli avvertimenti del vice-premier, Dan Meridor, per possibili ripercussioni negative sulla riunione del cosiddetto Quartetto per la pace in Medio Oriente (USA, UE, Russia e Nazioni Unite), andata in scena proprio lunedì a Washington, il capo del governo israeliano alla fine non ha riscontrato alcun motivo per ritardare il voto in Parlamento.
Gli appelli al boicottaggio di Israele e delle sue compagnie - in particolare quelle operanti nei territori occupati - si sono moltiplicati negli ultimi anni e hanno avuto come protagonisti sia palestinesi che attivisti israeliani. Numerosi artisti e intellettuali stranieri si sono poi rifiutati di esibirsi o tenere conferenze in Israele per protestare contro la politica di Tel Aviv nei confronti dei palestinesi. L’indignazione a livello internazionale era cresciuta soprattutto in seguito all’assalto condotto dalle forze di sicurezza israeliane nel maggio del 2010 contro sei navi di attivisti dirette a Gaza per rompere l’assedio nella Striscia e che fece nove morti.
Sul fronte interno, gli appelli al boicottaggio sono stati spesso clamorosi. Lo scorso anno, ad esempio, un gruppo di artisti di teatro si rifiutò di esibirsi in un nuovo centro culturale costruito nell’insediamento illegale urbano di Ariel, in Cisgiordania centrale. Successivamente, molti altri accademici, scrittori e intellettuali israeliani hanno scelto di disertare corsi e lezioni ad Ariel e in altri insediamenti della Cisgiordania.
A rendere ancora più insensata la legge sul boicottaggio sono le modalità con cui dovrà essere applicata. Secondo il testo del provvedimento, infatti, non sarà necessario provare che un appello al boicottaggio abbia provocato effettivi danni allo stato o a un’istituzione di Israele, bensì sarà sufficiente ipotizzare eventuali danni derivanti da un invito al boicottaggio. Su questa ipotesi un tribunale dovrà valutare potenziali danni economici e imporre un risarcimento.
Contro la legge si sono scagliate le associazioni israeliane per i diritti civili, che hanno immediatamente annunciato un ricorso alla Corte Suprema per chiederne l’annullamento. Secondo il direttore dell’Associazione per i Diritti Civili in Israele, Hagai El-Ad, questa misura “rappresenta l’apice di una deplorevole ondata di leggi anti-democratiche che sta progressivamente compromettendo le fondamenta democratiche di Israele”.
Le conseguenze negative per l’immagine del paese sono state sottolineate, tra gli altri, dal deputato del partito di centro-sinistra Meretz, Nitzan Horowitz, per il quale la legge è un motivo di “imbarazzo per la democrazia israeliana. In tutto il mondo ci si chiederà se esiste veramente una democrazia nel nostro paese”.
Il deterioramento del clima politico in Israele è andato di pari passo con il crescente disagio della comunità internazionale nei confronti dell’unico (presunto) paese democratico del Medio Oriente. Un’evoluzione che sta portando a sempre più drastiche restrizioni della libertà di espressione e di critica verso il governo, di cui il “Boycott Bill” ne è appunto un esempio.
Come ha sottolineato un duro editoriale del quotidiano Haaretz, la nuova legge dipinge come “atto criminale ogni boicottaggio, petizione o articolo di giornale… I legislatori cercano di cancellare una delle forme più legittime di protesta democratica e di restringere la libertà di espressione e di associazione di quanti si oppongono alla violenza dei coloni”.
“Molto presto”, prosegue l’editoriale della testata progressista israeliana, “ogni dibattito politico verrà messo a tacere. I membri della Knesset che hanno votato per questa legge appoggiano il soffocamento delle proteste nel quadro di uno sforzo teso a liquidare la democrazia. Iniziative di questo genere vengono vendute come necessarie per proteggere Israele ma, in realtà, non fanno altro che aggravare l’isolamento internazionale del Paese”.
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di Carlo Musilli
Decenni di stragi, genocidi e deportazioni, ma alla fine è successo. Sul nostro pianeta è nata ufficialmente una nuova nazione, il Sudan del Sud. A gennaio un referendum ne ha sancito la secessione da Khartoum e sabato scorso si è svolta la cerimonia per la proclamazione di indipendenza. Il neonato africano (54esimo Stato del continente) è grande come Kenya, Uganda e Tanzania messi insieme, ma la sua popolazione non raggiunge i nove milioni di abitanti. La metà della sola città del Cairo. Per arrivare fin qui sono state combattute due guerre civili decennali (1955-1973 e 1983-2005). Da una parte i musulmani arabi del nord, dall'altra i cristiani del sud. Oltre due milioni di persone sono morte, quattro milioni gli sfollati.
Nonostante l'entusiasmo sfrenato che si respira in questi giorni per le strade di Juba, la nuova capitale, leggere quello che è successo sabato come il lieto fino di una brutta storia sarebbe quanto mai ingenuo. Il Sudan del Sud è ancora una delle aree più sottosviluppate al mondo e i massacri sono ancora pane quotidiano. Nulla lascia prevedere che la situazione possa migliorare in tempi brevi, soprattutto perché il nord rimane sotto il controllo del dittatore sanguinario Omar al Bashir. Su di lui pende un mandato di cattura emanato dalla Corte penale dell'Aia per i crimini di guerra e contro l'umanità commessi nel Darfur.
Al Bashir era presente alla proclamazione d'indipendenza. La sua doveva essere una visita diplomatica e di riconciliazione, ma è sembrata più un gesto di scherno. O, peggio ancora, un monito a non alzare troppo la testa. Sono ancora molte le questioni aperte su cui il dittatore non ha alcuna intenzione di negoziare.
A livello territoriale, la disputa principale riguarda la regione centrale di Abyei, diecimila chilometri quadrati fertili e ricchi di petrolio al confine fra i due stati. Dopo l'invasione delle truppe di Khartoum, nella zona sono stati schierati 4.200 caschi blu eritrei del contingente di pace Onu. Un'altra area critica è quella del Kordofan meridionale, terra abitata principalmente da cristiani, che però rimarrà nei confini del nord.
Oggi è presidiata dall'esercito sudanese, che intende prevenire qualsiasi possibile velleità di secessione. Un accordo per la spartizione pacifica della regione fra i due Paesi era stato raggiunto lo scorso 29 giugno. Al Bashir lo ha ricusato giovedì, due giorni prima di volare a Juba con un bel sorriso stampato sulle labbra.
Come prevedibile, gran parte dei conflitti ruota attorno al petrolio. L'oro nero contribuisce per il 98% ai ricavi del sud e per il 90% a quelli del nord. Dividere questa risorsa in un modo accettabile fra le parti sembra un'impresa titanica. Soprattutto perché, anche dopo la separazione, i due territori rimangono strettamente interdipendenti.
Nel sud, prevalentemente rurale, si trovano i tre quarti dei giacimenti, ma gli oleodotti e le raffinerie sono tutti al nord. Una delle soluzioni prospettate prevede che il sud venda a Khartoum il suo petrolio con uno sconto del 10% nei prossimi tre anni, pagando al contempo l'utilizzo delle infrastrutture. Ma non sarà un accordo facile da raggiungere.
Oltre alle contese con i vecchi connazionali, il Sudan del Sud deve anche fronteggiare una serie di problemi interni. Il più grave ha a che fare con la minaccia del conflitto etno-tribale. Sembra che nelle ultime settimane la comunità Dinka, a cui appartiene il neo presidente Salva Kiir, stia portando avanti un'ennesima, sistematica pulizia etnica nei confronti dell'etnia rivale Nuer.
Tutto questo accade in un Paese dove la stragrande maggioranza della popolazione guadagna meno di un dollaro al giorno e vive di agricoltura su terreni per lo più desertici. La mortalità femminile legata al parto è la più alta al mondo e oltre la metà dei bambini non va a scuola. In compenso, il Sudan del Sud è uno dei paesi più ricchi di armi di tutta l'Africa. Il mercato più fiorente è quello dei kalashnikov, degli Ak47 e soprattutto delle armi di piccolo taglio.
Degrado e mancanza di sicurezza sono ai livelli massimi su scala globale, ma tanto per cambiare le Nazioni Unite non sembrano disposte ad andare oltre il minimo sindacale per questa fetta del pianeta. Si limitano a monitorare gli attacchi portati dalle truppe sudanesi alla popolazione civile, senza garantire una reale protezione.
I governi occidentali si producono nei soliti appelli in favore dei diritti umani. Purtroppo Al Bashir nemmeno gira la testa per ascoltarli. L'unico Paese ad avere un vero potere contrattuale per far sentire la sua voce fin qui è la Cina, che acquista circa i due terzi del petrolio esportato dal Sudan. Ma se le disgrazie subsahariane non appassionano l'Onu, figuriamoci quanto possono interessare al regime di Pechino.
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di Giuliano Luongo
Numerosi sono gli aspetti sottolineati in maniera più che ampia, spesso anche in maniera esplicitamente inutile, della grande rivoluzione egiziana culminata con la cacciata di Mubarak. In ogni caso, l'elemento economico sembra essere passato in sordina, quando invece si dimostra essere un dei fattori che più potranno influenzare seriamente il futuro del Paese. La situazione economica egiziana, infatti, era ed è tutt'ora disastrata.
E’ essenziale dare un’occhiata ai numeri per rendersi conto della gravità della situazione. Nel primo quadrimestre dell’anno in corso il PIL è tracollato di 7 punti percentuali, mentre il fatturato del turismo - settore traino per l’economia - è sceso dell’80%; il tutto condito da un tracollo del 32% del mercato azionario.
L’occhio vigile e metafisico del Fondo Monetario Internazionale ha stimato un tasso di crescita annuale per l’anno in corso dell’1%, quando solo 365 giorni fa la crescita annua era arrivata al 5,1%. Meno pessimista il molto meno blasonato IFI (Istituto della Finanza Internazionale), che ipotizza “solo” un dimezzarsi della crescita del PIL, con un dato per l’anno in corso al 2,5%, senza dimenticare che una crescita forte serve di base già solo a mantenere il passo con il livello di crescita della popolazione, cosa non facile in un paese come l’Egitto.
In quest’amena situazione (che potrebbe peggiorare) l’intervento di “salvataggio” delle istituzioni economiche e finanziarie internazionali è stato presentato come l’unico modo per uscire da questo momento di crisi. In effetti, però, è più inquadrabile come l’unico modo per le autorità egiziane per rendersi gradite al jet set delle potenze internazionali mostrando loro una faccia “globalizzata”. E magari anche per distrarre il resto del mondo dal fatto che le fazioni estremiste islamiche stanno tentando più che mai di colonizzare la politica del Paese.
In ogni caso, le cifre messe sul piatto dalle istituzioni economiche internazionali erano di certo più che ghiotte: 2,2 miliardi di dollari dalla Banca Centrale e soprattutto un maxi bail out da parte del FMI per coprire 10-12 miliardi di dollari di buco presente nel budget egiziano.
Inutile dire che, specie quello del Fondo, era un prestito più che condizionato dall’assunzione di misure liberalistiche e liberalizzanti da parte del governo provvisorio. Il Fondo aveva “dubbi” sulle vere intenzioni “liberali” dei leaders egiziani, temendoli troppo proni a “sottostare alla pressione popolare” e pertanto non avvezzi a dare il “colpo” necessario al sistema economico-istituzionale del Paese.
Vediamo dunque la tipica storiella della “liberalizzazione giusta” che si ripete: o ti apri forzatamente oppure niente, il prestito internazionale non arriva e via verso la bancarotta. Che allegria. Come sempre, questa vicenda pare dimenticare il fatto che allontanare lo Stato dalla società in un Paese tragicamente povero è solo un ottimo strumento per far sprofondare il Paese medesimo nelle mani degli oligarchi di turno supportati da residui di regimi precedenti e, perché no, potenze straniere interessate ad espandere la propria egemonia.
Il tempo passa, ma ancora nessuno pare imparare nulla dai fiaschi dei principi del Washington Consensus e della liberalizzazione forzata dell’Europa dell’est. E di certo a povertà diffusa l’Egitto sta messo più che bene, con un tasso medio del 20% di poveri nelle aree urbane che sale al 70% in quelle rurali.
In ogni caso, il 6 giugno scorso il FMI ha dato il proprio “via libera” al prestito, iniziando con la cifra di 3 miliardi di dollari (interessi all’1,5%) e la solita motivazione di rigore: il Fondo ha spiegato che il prestito sarà elargito per favorire una serie di riforme economiche che definiranno un nuovo assetto sociale tramite “lotta a povertà e disoccupazione” (anche con un programma di assunzioni pubbliche, un po’ in contrasto con l’idea di trinciare la spesa pubblica) e “varie riforme”.
Si noti come il termine riforme non venga mai associato a descrizioni - anche vaghe - sul contenuto delle stesse: in ogni caso, la verità è venuta a galla, con tutto il pacchetto innovatore che in pratica si sarebbe concretizzato in un mega taglio a tutto quello che potesse ricordare anche vagamente il caro, vecchio welfare. E fare questo in un Paese in cui i cittadini sono talmente esasperati da vivere accampati in piazza a spaccare tutto per richiedere condizioni di vita decenti, è francamente una baggianata. E si poteva scrivere di peggio.
Ma la leadership egiziana, memore di com’era finito Mubarak dopo l’ennesima manifestazione di piazza ove, accanto alle “solite” richieste di vere elezioni subito e più riforme politiche vi erano presenti forti inni contro questa devastazione economica supplementare spinta dal Fondo, ha deciso di non agire secondo quanto indicato dagli organismi finanziari internazionali.
Poco prima della fine di Luglio, infatti, il Ministro, delle Finanze egiziano Samir Radwan ha dichiarato che il suo Paese rinunciava pubblicamente a ricevere il prestito di salvataggio del Fondo, ritenendolo troppo oneroso sia per “numerosità” che per condizioni. Questo duro quanto inaspettato NO a caratteri cubitali si è manifestato (quale coincidenza) quasi in concomitanza con la dichiarazione di aiuto volontario e volenteroso da parte di Arabia Saudita e Qatar.
Riad aiuterà gli egiziani con 4 miliardi di dollari, erogati sotto forma di prestiti a lunga scadenza e contributi, mentre il Qatar - stando a quanto riferito dalle autorità dell’Egitto - contribuirà con “appena” 10 miliardi in investimenti (non sono state date specifiche ulteriori). La sensazione di sollievo venuta dal vedere come un Paese in via di sviluppo abbia mandato a quel paese il FMI viene però meno celermente vedendo che l’Egitto si allinea strettamente con due monarchie assolute a matrice islamica.
Non ci si può non domandare se l’Egitto abbia fatto o meno il tipico salto dalla padella alla canonica brace: non si può dirlo con certezza, in quanto non si può stabilire a tavolino quale sia il peggiore dei due mali, tra un’occidentalizzazione forzata (e sappiamo quanto le cose vadano male dalle nostre parti) ed una tendenziale re-islamizzazione, con l’alleanza economica - e probabilmente de facto anche politica - con le monarchie petrolifere islamiche.
Vedendo il sorgere di partiti legati ad estremisti islamici - non parliamo solo dei rinati Fratelli Musulmani, ma anche della nuova fazione politica ufficiale dei Salafiti - ed il supporto internazionale delle citate monarchie, non ci si può non preoccupare per vedere dove finirà l’Egitto: in barba agli slogan di libertà cantati dai coraggiosi rivoluzionari, le ombre che si stendono sul Paese sono lunghe e spesse come il braccio dell’oscurantismo. Non resta che sperare ancora nella forza della piazza. Perché, par di capire, serve ancora la piazza.
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di Michele Paris
Il ritorno delle forze di sicurezza siriane nella città di Hama ad inizio settimana ha segnato un nuovo intensificarsi della repressione del regime del presidente Bashar al-Assad nei confronti delle proteste in corso da oltre quattro mesi nel paese. Mentre il governo sta per avviare un improbabile progetto di dialogo con l’opposizione, le pressioni esterne su Damasco continuano a crescere, prefigurando uno scenario incerto e destabilizzante non solo per la Siria ma per tutta la regione mediorientale.
Dopo il duro intervento del regime ad inizio giugno, le forze di sicurezza di Assad avevano abbandonato la città di Hama, permettendo una qualche libertà di espressione del dissenso. Come segnale di apertura, il presidente aveva inoltre rimosso dal suo incarico il governatore di Hama, Ahmad Khalid Abdel Aziz, nominato solo lo scorso mese di febbraio.
Meno di un mese più tardi i carri armati sono però tornati nella quarta più grande città della Siria – dove nello scorso fine settimana erano scese in piazza centinaia di migliaia di persone – operando nuovi arresti a tappeto e uccidendo almeno una ventina di manifestanti. Ad aumentare le tensioni é stato anche l'arrivo ad Hama (giovedì scorso) degli ambaaciatori americano Robert Ford e francese Eric Chevallier, le cui presenze hanno suscitato le proteste del governo siriano.
Questa città della Siria centrale a nord di Damasco ha un’importanza simbolica del tutto particolare sia per il regime che per i suoi oppositori. Nel febbraio del 1982 fu infatti teatro del massacro di decine di migliaia di sostenitori dei Fratelli Musulmani in rivolta da parte dell’allora presidente Hafez al-Assad.
L’allargamento delle proteste nel paese sta così moltiplicando le voci di quanti nella comunità internazionale auspicano la fine del regime di Assad. I segnali che preannunciano un’azione diretta - se non addirittura un intervento militare sul modello libico - da parte dell’Occidente o di qualche paese vicino sono ormai molteplici nelle ultime settimane. Oltre alle sanzioni economiche contro i massimi esponenti del governo, già applicate da Stati Uniti e Unione Europea, sono sempre più frequenti le minacce verbali più o meno esplicite.
Il Segretario di Stato americano Hillary Clinton, ad esempio, qualche giorno fa in un’intervista alla CNN ha ribadito che il tempo per Assad sta per scadere. Dalla stessa Turchia, la quale aveva costruito rapporti diplomatici ed economici molto stretti con la Siria negli ultimi anni, si parla poi di un possibile intervento militare in territorio siriano, sia pure circoscritto, per creare una zona cuscinetto di confine, in modo da permettere ai profughi di sfuggire alle violenze.
Dell’altro giorno è infine un rapporto di Amnesty International che accusa Assad e il suo entourage di crimini contro l’umanità. Una denuncia che potrebbe aprire la strada ad una incriminazione presso la Corte Penale Internazionale dell’Aia per il presidente siriano e i suoi più stretti collaboratori, sulla scia di quella istruita recentemente contro Gheddafi e da utilizzare come pretesto dalle potenze occidentali per giustificare un eventuale intervento militare.
Il crollo del regime, in ogni caso, oltre che sotto l’azione di forze esterne, potrebbe avvenire per implosione. La prolungata siccità e la crisi alimentare nelle campagne, già tra le cause scatenanti della rivolta, e un’economia sempre più in affanno sono infatti i più immediati motivi di preoccupazione per la sopravvivenza di Assad. Le difficoltà dei mercanti sunniti – uno dei pilastri del regime alauita di Damasco – in seguito alla crisi interna potrebbe in particolare infliggere un colpo fatale alla tenuta e alla legittimità residua del governo.
Allo stato attuale delle cose, appare invece improbabile che un’opposizione debole e divisa possa provocare da sola la caduta del regime, tanto più che l’esercito e le forze di sicurezza appaiono ancora sostanzialmente fedeli alla cerchia di potere di Damasco, nonostante le notizie di massicce diserzioni circolate nei giorni scorsi.
Il raduno concesso eccezionalmente da Assad la settimana scorsa a circa 150 tra intellettuali e dissidenti di varia provenienza ha confermato le divisioni che attraversano la multiforme opposizione siriana. Il gruppo che si è riunito a Damasco ha invocato riforme ed ha lanciato un appello al dialogo, senza chiedere però la fine del regime. Una posizione fortemente criticata dai gruppi che stanno animando le proteste di piazze, i quali hanno infatti disertato l’inconsueta assemblea andata in scena in un hotel della capitale.
Mentre una certa opposizione, nonché verosimilmente una buona parte della popolazione siriana, sembra valutare con qualche interesse le concessioni fatte finora dal governo, come l’aumento degli stipendi dei dipendenti pubblici o la soppressione della legge sullo stato di emergenza, le formazioni più o meno spontanee che continuano a manifestare chiedono con forza la partenza di Assad e una transizione democratica immediata.
In questa incertezza, domenica prossima dovrebbe scattare il “summit per il dialogo” che il presidente promette sarà un’occasione per discutere con l’opposizione delle riforme proposte dal regime. Tra le iniziative di cui si parlerà c’è la legge sui partiti politici, che dovrebbe porre fine allo status privilegiato del partito Ba’ath, ma anche la legge elettorale e possibili elezioni ad agosto, la legge sui media e il cambiamento della Costituzione. Resta da capire quale opposizione parteciperà al dialogo e di chi sarà voce, dal momento che in molti tra i militanti anti-regime hanno già annunciato di non voler discutere con il governo mentre è in corso la repressione nelle città siriane.
Con un’opposizione disunita e senza guida né obiettivi precisi, si aprono allora ampi spazi per le manovre dei paesi occidentali. L’obiettivo principale di Stati Uniti e Israele è innanzitutto quello di sganciare la Siria dall’alleanza con l’Iran e, di conseguenza, di spezzare il cordone che unisce questi due paesi ad Hamas a Gaza ed Hezbollah in Libano. Dopo il deterioramento già avvenuto delle relazioni tra Turchia e Siria, questo sviluppo contribuirebbe a rompere il fronte anti-americano e anti-israeliano in Medio Oriente. Allo stesso scopo lavorano anche i sauditi, il cui silenzioso intervento in Siria sta inoltre fomentando conflitti settari in uno dei paesi più secolari del mondo arabo.
I timori di una destabilizzazione incontrollata della Siria e dell’intera regione sembrano scemare a poco a poco di fronte alla possibilità di assistere alla prossima fine di Assad. Che nel mirino dell’Occidente ci sia poi, oltre al regime di Damasco, anche l’Iran appare chiaro. A confermarlo ci sono tra l’altro le nuove sanzioni decise settimana scorsa dall’amministrazione Obama contro la Repubblica Islamica, accusata pur senza prove sostanziali di aver fornito appoggio alla repressione condotta dal maggiore alleato di Teheran in Medio Oriente.
Da parte loro, Francia e Gran Bretagna stanno cercando di far votare al Consiglio di Sicurezza dell’ONU una risoluzione contro il governo siriano. A questa iniziativa si oppongono tuttavia Cina e, soprattutto, Russia, la quale conserva in Siria la sua unica base navale nel Mediterraneo. Già critica nei confronti della NATO per le operazioni in Libia, Mosca comprende perfettamente che la rimozione di Assad per mezzo di un intervento occidentale rappresenterebbe un colpo mortale per i propri interessi in Medio Oriente.
La prospettiva di un’azione occidentale simile a quella in corso in Libia implicherebbe anche un probabile coinvolgimento dell’Iran, preoccupato per l’isolamento a cui andrebbe incontro con la caduta del regime alauita di Damasco. L’aggravarsi della situazione in un paese strategicamente fondamentale per gli equilibri mediorientali come la Siria minaccia insomma di innescare pericolosi conflitti che andrebbero ben al di là dei suoi confini.