di Michele Paris

Lo scioglimento del Parlamento irlandese e le imminenti elezioni anticipate, rappresentano l’ultimo atto di una farsa politica che ha segnato la fine della disastrosa esperienza di governo del primo ministro Brian Cowen. Mentre il voto del 25 febbraio prossimo produrrà un’inevitabile quanto umiliante sconfitta per il suo partito (Fianna Fáil), il nuovo Esecutivo che uscirà dalle urne è destinato a seguire lo stesso percorso fatto di devastanti misure di austerity per ripagare il prestito erogato dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale seguito alla crisi che ha sconvolto l’ormai ex “Tigre Celtica”.

Le tensioni sociali che attraversano l’Irlanda da oltre due anni a questa parte si sono amplificate nel corso delle ultime settimane, fino a produrre un totale sconvolgimento del panorama politico. Al centro delle trame dei vari partiti - alternativamente preoccupati per la loro sopravvivenza politica o decisi a sfruttare l’occasione per conquistare il potere - ci sono le sorti del Taoiseach (primo ministro) Cowen. A preannunciare il destino di quest’ultimo era stato peraltro uno scoop giornalistico, che aveva rivelato la sua complicità con il mondo della finanza responsabile del tracollo dell’economia irlandese.

In un recente libro, infatti, è stata descritta una telefonata e un amichevole incontro di golf tra lo stesso Cowen e Sean Fitzpatrick, già presidente di Anglo-Irish Bank. Il finanziere irlandese, nel 2008, si sarebbe sentito con l’allora ministro delle Finanze per concordare il salvataggio della propria banca sull’orlo del collasso. Poco più tardi, il governo di Dublino avrebbe incluso la Anglo-Irish Bank nel provvedimento di emergenza adottato per garantire tutti i depositi degli istituti bancari del paese, una decisione che avrebbe trasferito i circa trenta miliardi di debito della banca guidata da Fitzpatrick ai bilanci pubblici.

Con la prospettiva di un rovescio memorabile nelle prossime elezioni, a fare il passo decisivo verso la crisi di governo sono stati i Verdi, principale partner del partito di maggioranza. Allarmati per la loro stessa sopravvivenza politica, un paio di settimane fa i Verdi hanno così ritirato il proprio sostegno al gabinetto Cowen, passando all’opposizione. Nel frattempo, per il primo ministro la situazione ha cominciato a farsi critica anche sul fronte interno al proprio partito. I vertici del Fianna Fáil hanno cercato di dargli la spallata per presentarsi al voto anticipato con un leader meno impopolare. Brian Cowen, sostituito dal suo ex ministro degli Esteri, Michael Martin, è stato dunque costretto a farsi da parte, diventando il primo Taoiseach nella storia irlandese a non ricoprire contemporaneamente la carica di segretario del partito di maggioranza relativa.

Il tentativo di proseguire nella propria azione di governo è stato poi ostacolato dalle dimissioni di otto ministri. Dopo il fallito tentativo di rimpasto, Cowen si è ritrovato con soli sette ministri per guidare quindici dicasteri. Definitivamente alle corde, l’ex leader del Fianna Fáil ha alla fine informato i membri del Dáil, la camera bassa del parlamento irlandese (Oireachtas), di aver chiesto ufficialmente alla presidente dell’Irlanda, Mary McAleese, lo scioglimento delle camere con oltre un anno di anticipo sulla scadenza naturale della legislatura. La fine della carriera politica di Cowen, assieme al riconoscimento dei disastri provocati dalla sua gestione, era giunta pochi giorni prima con la rinuncia ufficiale alla sua candidatura nelle prossime elezioni.

Dopo essere diventata un modello di crescita economica, l’Irlanda ha visto crollare miseramente la propria economia con l’esplosione nel 2008 di una gigantesca bolla immobiliare speculativa. Da allora si sono susseguite una serie di misure di emergenza per salvare le banche più esposte, e ora nazionalizzate, che sono costate centinaia di miliardi di euro.

Con lo svuotamento delle casse pubbliche e sotto la minaccia crescente della speculazione internazionale, il governo di Dublino ha diligentemente proceduto al taglio della spesa sociale e degli stipendi pubblici, così come all’innalzamento del carico fiscale, provocando una crisi sociale che gli irlandesi credevano di aver definitivamente dimenticato grazie alle promesse della deregulation e del libero mercato. Quando, alla fine, l’unica soluzione è sembrata quella di accettare la medicina del Fondo Monetario e della Banca Centrale Europea per accedere ad un prestito di 85 miliardi di euro, nuovi e ancora più dolorosi provvedimenti sono giunti dal governo Cowen.

Erogata la prima tranche del pacchetto salva-Irlanda da 5 miliardi, FMI e BCE hanno chiesto a Dublino di andare oltre e di affondare ulteriormente gli attacchi ai lavoratori e alla classe media indigena. Per sbloccare il resto degli aiuti era perciò necessario approvare una nuova manovra di bilancio che prevede tagli al welfare per 780 milioni di euro, così da mettere l’Irlanda sulla strada verso la riduzione del deficit al di sotto del tre per cento del PIL entro il 2015.

Nonostante gli attacchi giunti da più parti al primo ministro, praticamente tutte le principali forze politiche irlandesi ne hanno condiviso le difficili scelte di politica economica prese in questi due anni. A conferma di ciò vi è l’ampio consenso raccolto dalla legge di bilancio straordinaria appena approvata. Dal momento che, con la defezione dei Verdi,  Brian Cowen si è ritrovato a guidare un governo di minoranza, per ottenere il via libera dalle due camere il cosiddetto “Financial bill” ha avuto bisogno del sostegno di almeno una parte dell’opposizione, come puntualmente è avvenuto.

Grazie poi alle trattative condotte dal ministro delle Finanze, Brian Lenihan, il governo ha evitato una mozione di sfiducia che i due principali partiti di opposizione - Fine Gael (centro destra) e Laburisti (centro-sinistra) - minacciavano di presentare in caso Cowen avesse rifiutato di dimettersi in tempi brevi. L’accordo siglato ha anticipato le elezioni (inizialmente fissate per l’11 marzo) al 25 febbraio, rivelando la totale sottomissione della classe politica irlandese alle élite finanziarie. Il timore era che, anche in questi pochi giorni di differenza, un governo debole e screditato avrebbe potuto esporre il Paese agli attacchi della speculazione internazionale.

I cambiamenti promossi ai vertici del Fianna Fáil a nulla serviranno per evitare una sonora batosta elettorale ad un partito che, a partire dalla sua fondazione nel 1926, ha governato l’Irlanda per ben 61 anni. A beneficiarne saranno Fine Gael e Labour, entrambi nettamente avanti nei sondaggi, che daranno vita ad un governo di coalizione. Per il partito di Cowen c’è addirittura il rischio di vedersi sopravanzare dai nazionalisti del Sinn Féin che potrebbero diventare la prima forza di opposizione, anche grazie al contributo del leader nord-irlandese Gerry Adams, candidato al parlamento della repubblica d’Irlanda.

La politica economica di Dublino, in ogni caso, non cambierà di molto con il prossimo governo. Fine Gael e Labour si sono infatti limitati a criticare Cowen per i metodi con cui sta implementando le misure richieste dal Fondo Monetario e dalla BCE, non certo per le devastazioni sociali provocate nel paese o per la sostanziale rinuncia alla sovranità nazionale in politica economica. Entrambi i partiti si sono limitati a promettere una rinegoziazione del maxi prestito, così da ottenere al massimo tempi più lunghi per ripagarlo o interessi meno gravosi. Il nuovo gabinetto chiederà insomma altri sacrifici a quegli irlandesi che stanno subendo duramente gli effetti delle misure draconiane già implementate.

Una prospettiva che lascia intravedere un ulteriore aumento del malcontento popolare nel prossimo futuro e con il quale il governo che uscirà dalle urne dovrà fare i conti ben presto, dopo una luna di miele con gli elettori che, è facile prevedere, si annuncia di breve durata.

di Carlo Benedetti 

MOSCA. Oggi avrebbe ottanta anni. E’ scomparso nell’aprile del 2007 - all’età di 76 anni - dopo aver monopolizzato la presidenza della Russia dal 1991 al 1999. Ed ecco ora che, in un clima di singolare dualismo dirigenziale, il primo ministro Putin e il presidente Medvedev celebrano Boris Nikolaevic Eltsin con manifestazioni che ai russi più attenti ricordano i fasti dei compleanni di Stalin spingendo a paragoni asiatici con il coreano Kin Il Sung.

Ed è subito orgia. Con un preciso ricorso alla manipolazione degli episodi del passato ai fini della polemica corrente. Si parla così di Eltsin con toni enfatici. Viene giustamente ricordato come il “Primo presidente della Russia” ma poi ci si lascia andare ad affermazioni di questo tipo: è stato  l'artefice delle privatizzazioni; carismatico e sanguigno; personalità vulcanica; icona di un’altra epoca; figura storica in un tempo di grandi cambiamenti; uomo legato alle speranze; trionfatore politico nel quadro di una crisi generale; autore principe della messa al bando del partito comunista; un dirigente che si è adoperato affinché potesse nascere una Russia nuova e democratica; un vero statista...

E sull’onda di queste emozioni arrivano i programmi ufficiali siglati in primo luogo da Putin che fu, appunto, il delfino di Eltsin. Si comincia con l’inaugurazione di un monumento nella città di Ekaterinburg, quella dove l’ex presidente mosse i primi passi nella nomenklatura comunista. Ed oggi la stele di marmo bianco - eretta nel centro storico con la modica somma di 50mila euro - lo ricorda come leader indiscusso e benedetto anche con un discorso di Medvedev che si aggiunge a quelli dei laudatores...

Tutto avviene mentre la macchina propagandistica del Cremlino impone ai canali radiotelevisivi (senza incontrare resistenze) servizi e documentari dedicati all’80mo del presidente. Escono i filmati dei congressi, le scene degli incontri internazionali, la vita in famiglia nella lussuosa residenza moscovita, le interviste con gli uomini che lo aiutarono nella gestione presidenziale. Del grande capo parlano a ruota libera, evidenziandone i meriti, gli ascari di un tempo, i vari Popzov, Burbulis, Sattarov, Kostikov, Ciubais, Akaiev, Stankevic, Tarpiscev, Filatov, Sciokin, Jastrgembskij, Sciuskevic, Jakovlev ... E parlano la vedova Naina Josifovna e la figlia Tatjana.

Da mattina a sera è un bombardamento d’immagini e dichiarazioni. Poi tutti al teatro Bolscioi per una serata ufficiale. Con la famiglia c’è il premier Putin che apre lo spettacolo con parole di ringraziamento per quanto fatto da Eltsin. In sala spiccano personaggi noti sui quali la tv si sofferma con lunghi primi piani. Ecco i registi Ljubimov e Zacharov (quello che si è sempre vantato di aver bruciato la tessera del Pcus), l’ex ministro della Cultura Svidkoi..

Tutto con l’accompagnamento musicale del Giuseppe Verdi della Forza del destino e poi con l’aria della furtiva lagrima di Gaetano Donizetti. Ma non c’è solo questo. L'archivista di stato Rudolf Pichoja, annuncia il libro "L'uomo dei cambiamenti. Analisi della biografia politica di Boris Eltsin" e il direttore esecutivo del “Centro Eltsin”, Aleksandr Drozdov, illustra una mostra fotografica alla Sala Esposizioni di Mosca e parla già dei concerti in onore di Eltsin che si terranno al Teatro di Stato di Ekaterinburg. Ci saranno poi la prima edizione del torneo di tennis giovanile dedicato alla memoria del presidente e  persino un concerto rock con la band russa "Okean Elzy".

Al processo di santificazione mancano, ovviamente, molte pagine segnate da eccessi di collera e improvvise amnesie. Si sorvola volutamente sul suo forte potere personale che si caratterizzò con marcati tratti dispotici che furono alla base (almeno in gran parte) del processo di estinzione dell’Urss e della scesa in campo degli oligarchi e dei mafiosi che hanno depredato il paese... E si potrebbe continuare con intere pagine (tutte filmate) delle sue sbornie epocali, in diretta.

Si potrebbe poi far luce sulla vera natura dello scontro con Gorbaciov. Ma, soprattutto, c’è quel pesante dossier della guerra contro la Cecenia con la conseguente repressione dei movimenti interni di liberazione nazionale. Per non parlare del bombardamento della sede del Parlamento. Quell’incredibile azione di guerra del 3-4 ottobre del 1993, che Eltsin scatenò nel cuore della capitale per eliminare le opposizioni pur di restare sul trono del Cremlino.

I colpi delle artiglierie della divisione Tamanskij - da lui mobilitata - distrussero la facciata dalla Casa Bianca adagiata sulla Moscova. Ci furono decine di morti fatti scomparire in tutta fretta. Poi una ditta turca provvide immediatamente al restauro per far dimenticare lo scempio, pur se le foto della Tass dovrebbero ancora circolare.

Ma sul terreno delle celebrazioni (queste, al momento, non caricate dall’ufficialità del Cremlino) sembra che ci sia un  posticino anche per quel Michail Sergeevic Gorbaciov che in Russia è persona quasi  dimenticata. Ora corre verso gli ottanta anni che compirà il 2 marzo. Ma di lui c’è - a Mosca - solo il ricordo del precipitare della perestrojka.

Nessuna celebrazione in patria perchè il compleanno verrà festeggiato da lui e dalla figlia alla Royal Albert Hall a Londra, con ospiti del calibro di Sharon Stone, Bryan Ferry, gli Scorpions, la London Symphony Orchestra e Lara Fabian, tutti riuniti in occasione di un concerto di beneficenza che vedrà tra gli invitati anche Angela Merkel e Arnold Schwarzenegger. Nella capitale russa, invece, l’ex presidente dell’era comunista potrà contare su una mostra fotografica e niente più. Gli onori, infatti, vanno tutti al padre di questa Russia globalizzata e corrotta, dominata dalle mafie e dagli oligarchi, alleata al grande capitale americano e israeliano. Eltsin, in fondo, avvolto nell’incenso dei suoi laudatores, è la conferma del fatto che la Storia la scrivono i vincitori.

 

di Fabrizio Casari

Un famoso detto arabo sostiene che “non c’è pace senza la Siria e non c’è guerra senza l’Egitto”. Intende con ciò che se Damasco è in grado di destabilizzare il quadro regionale con il suo peso politico, Il Cairo è indispensabile per poter consentire agli arabi qualunque avventura militare. Il fatto che dalla Guerra del Kippur in poi, i Paesi arabi non abbiano mai più tentato forzature militari anti-israeliane, vista la bruciante e rapidissima sconfitta subìta ad opera delle truppe di Tel Aviv, non cambia comunque la percezione generale che il detto arabo ben riassume.

L’Egitto, situato alla frontiera occidentale d’Israele, è crocevia ineludibile tra il possibile conflitto e l’assenza di guerre regionali; è un Paese cerniera che, per il suo peso specifico, risulta decisivo per qualunque scenario si voglia profilare. E proprio per anestetizzare i possibili contraccolpi che la crisi egiziana potrebbe generare nello scacchiere mediorientale, le cancellerie occidentali stanno correndo ai ripari invitando, né più né meno, Mubarak a lasciare il potere.

Diversa la posizione israeliana, che con il regime egiziano (e con la Giordania) ha un accordo di pace; Israele sembra notevolmente preoccupata dalla rivolta in corso. Del resto, la sua famosa intelligence (come tutte le altre occidentali) non era stata in grado di anticipare quanto sarebbe avvenuto. Il che, ovviamente, riporta all’ordine del giorno quanto già visto nell’ultima avventura militare in Libano: esercito e intelligence israeliana hanno patito sul campo due lezioni non indifferenti. La questione agita quindi fortemente i sogni del governo israeliano, che vorrebbe un appoggio deciso a Mubarak tale da consentire al Rais l’uso della forza per riportare l’ordine nel paese. Niente di strano d’altra parte: lo Stato ebraico ha nella forza l’unico strumento politico di cui si fida.

Le differenze di vedute che emergono tra Tel Aviv e Washington (e anche con Bruxelles e Ankara), attengono quindi al timore israeliano che il cambio di regime in Egitto possa rimettere in discussione il ruolo filo-occidentale del Cairo. Un paese ai suoi confini non più obbediente, viene visto come una possibile minaccia. Nello specifico, poi, la possibilità che El Baradei (che alla guida dell’Aiea ha dichiarato ripetutamente il suo disaccordo con Washington e Tel Aviv sul nucleare iraniano) possa divenire il nuovo leader egiziano, aumenta ulteriormente i timori; tra questi anche quello di non avere più campo libero contro Teheran.

Il quadro che agita Tel Aviv è questo: a est la monarchia giordana ha sciolto il governo e vede concretamente profilarsi una rivolta sociale, a ovest Mubarak ha già le valigie pronte e, con Hamas a sud ed Hezbollah a nord, con la Turchia non più annoverabile tra i paesi alleati, un’aera fino a pochi giorni fa sostanzialmente stabile minaccia di divenire instabile, dunque pericolosa per Israele e la sua sicurezza. La leadership israeliana vorrebbe quindi allertare i suoi alleati circa la possibilità che possa vacillare la sua certezza di supremazia nell’area. In realtà quello di Israele è un timore sui generis, dal momento che il suo apparato militare è più che sufficiente a sconfiggere ogni operazione sul terreno. Semmai, quello che invece si presenta come una novità non prevista (e sgradita a Tel Aviv) è che politicamente il quadro regionale è ormai molto diverso da come appariva solo due settimane fa.

Il fatto poi che con l’Amministrazione Obama il governo Netanyahu abbia avuto contrasti ripetuti lungo tutto il 2010, sebbene sia un fatto inedito per laforma, è in sostanza solo fumo negli occhi per l’opinione pubblica internazionale e per le cancellerie occidentali; perché per quanto siano state importanti le differenziazioni tra i due Paesi, nessuno può nemmeno ipotizzare una sorta di “neutralità” statunitense nella regione.

Il rapporto con Israele è fortissimo e solo la palese violazione di ogni impegno internazionale e la flagrante violazione di ogni accordo firmato e di ogni decenza nell’agire nella guerra totale combattuta contro i palestinesi, pure disponibili ad ogni tipo di accordo, hanno obbligato la Casa Bianca ad alzare la voce.

Certo, Obama vede nella transizione rapida l’unica via d’uscita alla crisi egiziana e questo, da Israele, viene visto come un ulteriore elemento di scarso feeling con la Casa Bianca, in coerenza con quanto già registrato da un anno in qua. Ma si tratta di divergenze d’opinione in ordine all’espansione ininterrotta degli insediamenti dei coloni, di differenze nell’approccio politico alla questione mediorientale, non di prese di distanza effettive e, meno che mai, di abbandono a se stesso dello Stato ebraico.

Obama non ha nessuna intenzione d’incrinare il rapporto con Israele e tantomeno risulta indifferente alla cornice di sicurezza dell’area. L’alleanza tra i due paesi è più che mai solida. E’ quindi ipotizzabile che le differenziazioni con Usa e UE saranno alla fine risolte con una campagna israeliana affinché, dalla minaccia di mutazione del quadro della sicurezza nell’area, Israele possa ricevere ulteriori superforniture di armamenti così da ammodernare le sue forze armate e minacciare ulteriormente i vicini arabi.

Ma la Casa Bianca crede che per ridurre il rischio di esplosione generalizzata in tutta l’area, che potrebbe portare il Medio Oriente sull’orlo dell’ingovernabilità, serva un’altra politica e, dunque, anche un’altra immagine degli stessi USA presso i Paesi arabi. Washington ritiene che il progressivo reinserimento siriano nel gioco mediorientale, le pressioni ma anche il dialogo con l’Iran, la soluzione del conflitto politico libanese e la moderazione d’Israele nella politica degli insediamenti debbano esser parte dello stesso progetto di controllo dell’area e che questa non possa rischiare di subire contraccolpi d’instabilità politica che, come si è visto, sono difficili da prevedere all’inizio e ancor di più nella loro ricaduta finale.

Cambiare tutto per non cambiare niente, questo è l’obiettivo statunitense ed europeo che a Tel Aviv non comprendono, abituati come sono a ritenersi l’unica democrazia mediorientale e convinti che la supremazia militare israeliana sia l’unica garanzia per la loro sicurezza e quella dell’Occidente. Europa e Stati Uniti, invece, per storia e cultura politica, hanno capito quanto è necessario capire e che Israele non è in grado d’intendere: o la rivolta in tutto il Maghreb trova un suo sbocco politico liberale, o rischia di essere solo il primo momento della rivoluzione che verrà.

 

 

 

 

 

 

di mazzetta

Il referendum per l'indipendenza del Sud Sudan (ora Repubblica del Sud Sudan) è stato un plebiscito e ha segnato la nascita di una nuova nazione africana. A smentire la folla di “esperti” pagati un tanto al chilo per difendere l'Occidente dalle sue evidenti responsabilità, è arrivata di seguito la presa d'atto del governo di Karthum, che ha augurato buona fortuna agli ex compatrioti e auspicato un futuro di buoni rapporti tra i due paesi. Secondo gli “esperti” il governo sudanese non avrebbe mai rispettato i patti, ma solo secondo gli esperti, visto che il regime sudanese non ha mai speso una parola che non fosse per confermare la sua adesione agli impegni presi.

Termina così una saga che è passata attraverso il processo di de-colonizzazione e la successiva lotta per la secessione sudista sostenuta in particolare da Gran Bretagna e Stati Uniti. Il Sudan era in effetti un aborto della colonizzazione, il più grande paese africano (otto volte la Germania riunificata, più dell'Europa senza la Russia), un enorme contenitore di decine di etnie al quale i britannici non avevano offerto e lasciato nulla che non fosse la cultura del dominio in punta di fucile e la divisione della società lungo linee razziali, ad emarginare le etnie più “primitive” e a sottometterle promuovendo a classe dirigente gli arabi, che nel paese rappresentavano decisamente la parte più sviluppata e moderna del paese.

L'indipendenza del Sudan è stata, come quella di molti paesi dopo l'indipendenza, una lunga teoria di dittature sostenute dai referenti occidentali, fino a quando nel Sud del paese sono stati scoperti vasti giacimenti petroliferi. Da allora la voglia d'indipendenza dei sudisti ha trovato un buon numero di fan. Per vent'anni il Sud e il Nord si sono fatti la guerra e il Sud è stato presentato alle opinioni pubbliche occidentali come la vittima del Nord “musulmano”e per mantenere viva questa narrazione è stata prodotta una mole di menzogne che ha ben pochi paragoni.

C'erano persino organizzazioni umanitarie gestite da personaggi come la baronessa inglese Caroline Cox che raccontavano che gli “arabi” del Nord riducevano in schiavitù e vendevano i “cristiani” del Sud,  anche se i cristiani al Sud non sono poi così tanti e, soprattutto, anche se non era vero. Si è scoperto poi che nessuno schiavizzava nessuno e che con i soldi che la Cox raccoglieva per “ricomprare” gli schiavi in realtà comprava armi inglesi, che giungevano in Uganda come “pezzi di ricambio” e da lì finivano all'esercito sudista, alla faccia dell'embargo dell'ONU.

Ora la pantomima è finita. Anzi, è finita nel 2004 quando sono stati siglati gli accordi che hanno portato all'indipendenza, firma alla quale i tutori occidentali tenevano così tanto da chiudere gli occhi mentre il regime di al Bashir stroncava nel sangue la rivolta del Darfur fomentata da alcune delle dittature confinanti, quella del Ciad su tutte.

Oggi nasce un nuovo paese, nel quale non c'è nulla, non ci sono infrastrutture, non c'è un governo e non esiste nemmeno una classe dirigente che non sia quel che resta della catena di comando dell'SPLA, l'Esercito di Liberazione del Sud Sudan una volta guidato da John Garang, il leader un po' ingombrante (e non solo perché iscritto nella lista internazionale dei terroristi) opportunamente sparito in un incidente aereo all'indomani della firma degli accordi. Il destino di questa neonata nazione dipenderà ancora una volta dalla qualità e quantità delle ingerenze occidentali e per questo non è il caso di coltivare eccessivi ottimismi, piuttosto c'è da temere l'ennesimo saccheggio delle ricchezze di un paese per mano di un'associazione a delinquere tra i poteri locali e alcune potenze e corporation straniere.

C'è da scommettere che ora l'interesse per il Sudan “cattivo” e il suo regime adesso scemeranno dalle nostre parti, al Bashir ha le sue gatte da pelare con la rivolta che si è accesa sull'esempio di Tunisia ed Egitto e fino a che non si riaccenderà un nuovo conflitto per il petrolio scoperto nel Darfur meridionale, le faccende del Sudan non faranno più notizia. Che è esattamente ciò di cui hanno bisogno i soggetti che nei prossimi anni s'impegneranno nella facile impresa di saccheggiare le risorse di un paese inerme e privo di una classe dirigente capace di difenderne gli interessi.

 

di Fabrizio Casari

Anche ieri gli scontri stra militari e rivoltosi hanno contrassegnato le manifestazioni ormai quotidiane che chiedono la fine del regime di Mubarak. All'esercito, che aveva chiesto ai dimostranti di tornare a casa, é stato invece risposto picche: la rivolta non si ferma. L'Egitto rifiuta gli appelli ad una transizione immediata del potere: lo ha detto il portavoce del ministero degli Esteri. Gli Usa si dicono preoccupati per l'evolversi della situazione ed il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon definisce “inaccettabili” gli attacchi contro i manifestanti. Le pressioni internazionali sembrano quindi indicare una scarsa disponibilità a correre in aiuto del fido alleato di un tempo. L'alunno per eccellenza del FMI, alleato fedele della pax occidentale, sembra ormai fuori gioco.

E quanto avviene in Egitto è ormai tema ineludibile per i media, le cancellerie internazionali, le opinioni pubbliche di ogni latitudine e longitudine. Ma se per queste ultime c’è solo la possibilità di accedere a parole ed immagini di una rivolta, per la diplomazia internazionale e per i mass-media le battaglie nelle strade del Cairo rappresentano invece la conferma ultima della loro inadeguatezza a svolgere il compito al quale sono chiamate.

Sembra quasi che le recenti rivelazioni di Wikileaks abbiano solo fornito con qualche settimana d’anticipo il senso compiuto della perdita di efficacia della diplomazia internazionale. Non una cancelleria, né occidentale, né orientale, aveva minimamente intuito cosa si agitava nel corpo della società egiziana, così come nessun reporter, di nessuna testata al mondo, aveva raccontato delle avvisaglie di una crisi profonda che avrebbe fatto saltare il coperchio sotto al quale ribolliva e ribolle tutto il paese.

D’altra parte entrambe le categorie vivacchiano osservando il mondo dai salotti e dalle piscine degli hotel di lusso, difficile che colgano quanto vive nelle strade caotiche, che pulsano fame e disperazione. L’Egitto è un paese di ottanta milioni di abitanti. La sua popolazione, con una crescita demografica impressionante, detiene due dati che meglio di ogni altro spiegano queste giornate: il 70 per cento della popolazione ha meno di 25 anni e l’ottanta per cento della popolazione è situata nella fascia più bassa di reddito. Non è quindi propriamente una nazione: è piuttosto una bomba a tempo. Milioni e milioni di giovani laureati vedono come prospettiva la disoccupazione. La povertà estrema riguarda il 40% della popolazione e la casta che domina il Paese rappresenta il 3% dello stesso.

Mentre si agitava lo spettro dell’integralismo islamico, si scopre che le rivolte hanno al centro la rivendicazione di democrazia, più precisamente del modello liberale della stessa. Altro che isterìa religiosa: si tratta di rivendicazioni sociali e politiche che riguardano proprio la mancata democrazia, formale e sostanziale.

Elezioni farsa e sistema di potere dittatoriale di riproduzione delle caste, peso preponderante dei militari e delle strutture d’intelligence nel controllo sociale e politico verso l’interno; questa l’essenza del sistema che ha reso i paesi maghrebini dominati dall’estero e dominanti verso l’interno. Le popolazioni di quei paesi, ricchi di passato, sono ormai masse di disperati senza alcun futuro.

L’Egitto ne è un esempio evidente: la sua economia, diretta dal Fondo Monetario Internazionale e parzialmente sussidiata dall’estero, tramite i circa due miliardi di dollari annui di aiuti Usa e gli otto miliardi di dollari provenienti dalle rimesse dei suoi emigranti (otto milioni circa, il 10% dell'intera popolazione) ha nello sfruttamento del gas e nel turismo le due uniche voci significative per le entrate, atteso che la produzione industriale non presenta cifre degne di nota in rapporto all’ampiezza e alla scala demografica della nazione.

Se poi si considera che, eccezion fatta per le rimesse dall’estero, i proventi del turismo e del gas, così come i sussidi internazionali vanno ad ingrassare i portafogli del 10 per cento della popolazione, cioè dell’elite economica e sociale che è padrona del Paese, si capisce come il livello di povertà della stragrande maggioranza degli egiziani sia irrisolvibile senza un cambio di regime.

Le elites egiziane mandano all’estero i propri figli a studiare; su di loro s’investe per la formazione della futura classe dirigente, direbbero gli economisti, ma sarebbe meglio dire che i fortunati pargoli altro non sono che i predestinati a ricevere in dono il Paese. Oltreconfine ci vanno anche i denari che le elites saccheggiano dall’estero e all’interno. Mentre quindi il paese è schiacciato verso il basso, denari e figli prediletti volano verso l’alto. Una sostanziale partita di giro che trasforma la ricchezza nazionale in patrimoni privati e le speranze nel futuro di decine di milioni di giovani in privilegi acquisiti per poche migliaia di rampolli. L’umiliazione di un paese che è stato culla della civiltà, risiede nei numeri infamanti che connotano le ingiustizie più profonde.

Quella in corso in Egitto è una rivolta, non una rivoluzione: la prima si differenzia in toto dalla seconda perché completamente diversi sono gli obiettivi. La rivoluzione ha come obiettivo quello di abbattere un sistema, di rovesciare la piramide sociale, economica e politica che quel sistema sorregge e che da quel sistema si alimenta. La rivolta ha obiettivi diversi: chiede la riformabilità di quel sistema, ma non ne mette in discussione il modello. Ne chiede semmai l’applicazione corretta, la compensazione e il riequilibrio delle storture che la sua degenerazione ha provocato e provoca.

Mubarak ha tentato di tenere a sé le forze armate e l’intelligence del Paese, nominando il suo capo a primo ministro e proponendo una sostanziale chiamata di correità a tutta l’elite dominante. Ma ha perso: l’esercito si rifiuta di usare ancora la forza e le elites economiche sono già con la valigia in mano. La sua capacità di coagulo è finita e, con essa, quella di mantenersi al comando. Che El Baradei, figlio dell’alta borghesia egiziana ma tenuto ai margini del potere e relegato ad un ruolo di rappresentanza internazionale di lustro per il Paese delle Piramidi, sia oggi il candidato più forte alla successione non è strano, è semmai l’unica opzione.

Non solo perché può contare sull’appoggio internazionale, ma anche perché gli stessi Fratelli Musulmani, come le altre organizzazioni della società civile egiziana, trovano in lui l’unico possibile compromesso tra passato e futuro, l’unica possibilità di mediazione tra le istanze di rinnovamento e il tentativo di accomodamento proposto dal dittatore in crisi. E trovano in El Baradei l’unico riferimento possibile in assenza di partiti politici capaci di farsi interpreti (e di essere riconosciuti come tali) delle istanze di rivolta.

Per questo l’uscita dalla crisi porterà uomini nuovi e nuovi assetti, non un nuovo sistema. E questo sembra averlo ben compreso Obama, che “gattopardescamente” ha capito che l’unico modo per mantenere il sistema è quello di riformarlo. Opporsi alla domanda di democrazia, difendere oltre l’indifendibile i raìs ormai odiati, avrebbe come unico effetto la radicalizzazione del conflitto e l’inserimento nello stesso delle forze politiche e religiose ostili agli interessi occidentali.

Resta da vedere se Mubarak sarà disponibile a lasciare il dominio sul Paese senza combattere fino all’ultimo. In fondo, sa perfettamente che la proposta di indire nuove elezioni e di non ricandidarsi non è sufficiente a fermare la sommossa. La scelta che l’opposizione gli pone è quella tra un aereo e l’esilio o il rimanere ed affrontare il giudizio che, immancabilmente, verrà. Perché ogni rovesciamento ha bisogno di una vittima sacrificale.

L’Egitto non è la Tunisia e nemmeno il Marocco. Il peso specifico dei militari è infinitamente più grande. A determinare lo sviluppo della situazione saranno dunque l’esercito e la polizia. Se si fideranno delle garanzie offerte da El Baradei, allora per il Raìs le ore sono contate. Se invece, a fronte delle loro richieste di cambiare il Presidente ma non il regime - e soprattutto il loro ruolo al suo interno - El Baradei dovesse opporre un rifiuto, allora i trecento morti contati fino ad ora potrebbero risultare solo la prima parte di una repressione sanguinosa di una rivolta che chiede solo di restituire l’Egitto agli egiziani.

 

 

 

 

 

 

 


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