di Michele Paris

Mentre il vento della rivolta continua a soffiare su tutto il Nord-Africa e il Medio Oriente, la risposta più dura alle richieste di libertà e giustizia sociale provenienti da popolazioni impoverite sta giungendo da quello che resta del regime di Muammar Gheddafi in Libia. Il “leader” ha definito, in una fugace apparizione televisiva, “drogati e ratti” i manifestanti, chiarendo che la repressione sarà ancora maggiore e che, comunque, di fuga non se ne parla: lui morirà in Libia.

I bombardamenti aerei sui manifestanti e lo spiegamento di squadre di mercenari per le strade hanno già provocato centinaia di vittime, rivelando al tempo stesso la disperazione e la volontà del dittatore libico di impiegare qualsiasi mezzo per rimanere al potere. Con un altro autocrate arabo potenzialmente vicino alla fine, i governi occidentali, nonostante le dichiarazioni ufficiali, si trovano di nuovo a fronteggiare con estremo timore la perdita di un regime con il quale condividono profondi legami economici e interessi strategici.

Le parole di Gheddafi confermano quanto  si attendeva: la minaccia del pugno di ferro contro i rivoltosi era infatti già stata prospettata la scorsa domenica dal figlio del rais, Seif al-Islam, in una confusa apparizione televisiva che indicava la guerra civile come conseguenza inevitabile delle proteste di piazza. Un breve discorso dello stesso Gheddafi nella notte tra lunedì e martedì aveva smentito poi ogni voce sulla sua possibile fuga in Venezuela. L’irrigidimento del regime si è manifestato così con le identiche tattiche che già avevano caratterizzato le fasi iniziali dell’insurrezione in Egitto e che il presidente Saleh continua ad impiegare in Yemen, mandando nelle piazze gruppi armati di sostenitori del governo che attaccano in maniera violenta gli oppositori.

A detta di testimoni libici citati dalla stampa internazionale, da giorni infatti, in una base aerea di Tripoli, starebbero sbarcando centinaia di mercenari provenienti da vari paesi africani per contribuire alla durissima repressione in corso. Di fronte alla strage messa in atto da Gheddafi, sembrano però emergere divisioni all’interno del regime. Oltre ai più volte citati aerei libici atterrati a Malta, dopo che i piloti si erano rifiutati di sparare sulla folla, membri del governo, ufficiali dell’esercito e una schiera di diplomatici nelle ultime ore hanno abbandonato i propri incarichi in segno di protesta.

Secondo un giornale vicino alla famiglia Gheddafi, ad esempio, il ministro della Giustizia, Mustafa Abud al-Jeleil, avrebbe rassegnato le dimissioni. Lo stesso avrebbe fatto uno dei più anziani ufficiali libici, il colonnello Abdel Fattah Younes, di stanza a Bengasi, mentre Gheddafi ha messo agli arresti domiciliari il generale Abu Bakr Younes, accusato di aver disobbedito all’ordine di usare la forza per disperdere le proteste in svariate città. I delegati della Libia all’ONU hanno poi rinunciato alle loro funzioni, chiedendo a Gheddafi di andarsene, così come il rappresentante di Tripoli presso la Lega Araba, Abdel Monem al-Howni.

La risposta dei governi occidentali alle violenze in Libia è apparsa come al solito fin troppo moderata. La responsabile degli affari esteri dell’Unione Europea, Catherine Ashton, ha ripetuto il consueto appello alla calma a entrambe le parti in causa, come se le ragioni delle due parti, o ancor più i mezzi della popolazione e di un regime con le sue forze di sicurezza, fossero in qualche modo equiparabili. L’Italia, il paese occidentale più vicino alla Libia e al suo leader, ha emesso da parte sua un comunicato di circostanza per condannare l’uso della forza sui civili.

Queste reazioni, d’altra parte, come per le altre rivolte che stanno sconvolgendo il mondo arabo, sono dettate dalle preoccupazioni di governi che in questi anni si sono dati da fare per stabilire contatti e fare affari con il regime di Gheddafi. A partire almeno dagli anni Novanta, il governo libico ha intrapreso una serie di iniziative volte ad ammorbidire le posizioni occidentali nei propri confronti. Un’evoluzione culminata nel 2004 con la decisione presa dall’amministrazione Bush di rimuovere le sanzioni economiche precedentemente implementate.

In Europa, l’Italia - con i governi Berlusconi - e la Gran Bretagna sono state in prima fila nella corsa ad assicurarsi le risorse energetiche libiche e gli investimenti del clan Gheddafi. La Libia oggi esporta infatti verso i paesi UE circa l’80 per cento del proprio petrolio, di cui oltre il 30 per cento a beneficio dell’Italia, tanto che sul fronte del greggio Tripoli è attualmente il terzo fornitore europeo, dopo Norvegia e Russia.

Il governo di Londra ha fatto di tutto per ristabilire rapporti cordiali con Gheddafi, così da aprire la strada a lucrosi contratti per le proprie compagnie petrolifere, come la BP. La stessa liberazione nel 2009 di Abdelbaset al-Megrahi, l’unico condannato per l’esplosione sopra Lockerbie del volo Pan Am 103 nel dicembre 1988, detenuto in un carcere scozzese, venne da molti descritta come un favore concesso a Tripoli in cambio di un importante contratto petrolifero proprio per la BP.

Notevoli sono anche gli interessi dell’ENI, detentore di svariate commesse in Libia, e le cui attività sono ora in serio pericolo, come dimostra il rimpatrio d’urgenza di tutto il personale operante nel paese. Un’iniziativa questa già adottata anche dalla norvegese Statoil, dalla francese Total, dalla spagnola Repsol e dalla stessa BP, la quale ha sospeso le trivellazioni esplorative in programma nel Golfo della Sirte.

I legami economici tra Europa e Libia non riguardano però solo il settore energetico, come sa bene il governo italiano. I fondi libici, sostanzialmente controllati dalla famiglia Gheddafi, hanno effettuato massicci investimenti in parecchie compagnie del nostro paese, delle quali detengono quote significative, a cominciare da FIAT, Unicredit e Mediobanca, ma anche Finmeccanica e lo stesso ENI.

Relazioni economiche e militari legano poi Londra e Tripoli. La Gran Bretagna da tempo addestra e rifornisce infatti l’esercito e le forze di sicurezza della Libia. Gli equipaggiamenti militari destinati a Tripoli sono stati congelati solo di recente, dopo lo scoppio della rivolta nel paese.

Come se non bastasse, ingenti riserve di valuta estera che Gheddafi e il suo entourage hanno accumulato, costringendo in uno stato di povertà gran parte del paese, si trovano su conti esteri e possono influenzare addirittura il comportamento di questo o quel governo.

Uno degli esempi più lampanti si ebbe nell’estate del 2008, in seguito all’arresto in un hotel di Ginevra di un altro figlio del rais, Hannibal Gheddafi, e della moglie, accusati di aver maltrattato due domestici marocchini. In quell’occasione, la Libia adottò una serie di ritorsioni, tra cui la minaccia di chiudere i propri conti in Svizzera, mettendo a repentaglio la tenuta stessa del sistema bancario di quel paese. Poco dopo l’arresto, la famiglia Gheddafi ottenne le scuse ufficiali da parte delle autorità elvetiche e la liberazione della coppia di maneschi rampolli.

I timori occidentali sono dunque quelli di ritrovarsi senza un regime stabile che fino ad ora ha garantito regolari forniture di gas e petrolio, investimenti e, nel caso dell’Italia, un più o meno rigido controllo dei flussi migratori. Le paure che animano soprattutto il nostro governo sono state espresse a Bruxelles dal Ministro degli Esteri Frattini, il quale ha messo in guardia dalla possibile instaurazione in Libia di un regime islamico radicale.

Se in Libia, come altrove, le proteste di piazza non sembrano in ogni caso avere un carattere religioso, ciò che preoccupa non è tanto l’Islam, dal momento che Frattini e gli altri governi occidentali non si fanno scrupoli nell’intrattenere ad esempio stretti legami con un regime oscurantista come quello dell’Arabia Saudita. La loro inquietudine è bensì per un eventuale governo che risponda finalmente alle richieste del popolo e che sia in grado di costruire un percorso autonomo e non più disposto ad assecondare passivamente gli interessi occidentali.

La repressione del regime, intanto, non fa altro che inasprire la protesta, con i disordini che sempre più stanno interessando la capitale Tripoli, dopo che i rivoltosi da qualche giorno sembrano aver conquistato il controllo di Bengasi e delle regioni orientali del paese. Allo stesso tempo, cominciano ad arrivare notizie di numerosi scioperi che fanno pensare all’inizio di una mobilitazione dei lavoratori, come già accadde in Egitto poco prima della spallata decisiva a Mubarak.

Anche in Libia i manifestanti chiedono la fine della dittatura e l’instaurazione di un governo temporaneo secolare guidato dall’esercito e dai rappresentanti dei gruppi tribali nei quali è divisa la popolazione. Secondo alcuni osservatori, tuttavia, le prospettive della rivoluzione appaiono più complicate rispetto a Tunisia o Egitto. In più di quarant’anni di regime assoluto, Gheddafi ha fatto leva su un senso di appartenenza tribale più profondo rispetto all’identità nazionale, stabilendo rapporti di favore con i clan più fedeli ed emarginando quelli rivali. In un tale scenario, il rischio concreto è appunto l’esplosione di violenze settarie e lo scivolamento verso una sanguinosa guerra civile.

di Michele Paris

Pur non essendo l’unico motivo scatenante, l’impennata dei prezzi dei beni alimentari su scala globale sta contribuendo in maniera non indifferente all’esplosione delle proteste di piazza in corso nel mondo arabo. Come già accaduto nel 2008, i rialzi stanno causando gravi sofferenze per centinaia di milioni di persone in tutto il pianeta, in particolare tra gli abitanti dei paesi più poveri.

L’indice dei prezzi della Banca Mondiale risulta superiore del 29 per cento rispetto ad un anno fa e ad appena tre punti percentuali dai livelli record del 2008. I dati della FAO indicano a loro volta un aumento del 3,4 per cento solo tra dicembre 2010 e gennaio 2011, con un indice che ha toccato il punto più alto dal 1990, di fatto già superiore anche al 2008. Tra gennaio e dicembre dello scorso anno, il prezzo del grano è salito del 75 per cento. Solo nell’ultimo quadrimestre, l’aumento è stato del 20 per cento, mentre notevoli rincari hanno fatto segnare, ad esempio, anche lo zucchero (20 per cento) e l’olio (22 per cento), penalizzando in particolare i paesi importatori.

Della crisi alimentare si stanno occupando tutti i più importanti organismi internazionali, non solo la FAO e la Banca Mondiale, ma anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) e il G-20, recentemente andato in scena a Parigi. Se queste istituzioni tendono a giustificare i continui aumenti dei prezzi con le catastrofi ambientali che hanno sconvolto molti paesi produttori nel 2010 e con le nuove dinamiche legate alla domanda e all’offerta in un mondo in cambiamento, molti commentatori indipendenti hanno messo in risalto le pesanti responsabilità della speculazione internazionale.

Assieme ad Umberto Mazzei - direttore dell’Istituto di Relazioni Economiche Internazionali di Ginevra e già docente di Economia presso vari atenei di Colombia, Venezuela e Guatemala - abbiamo cercato di capire le reali cause che stanno dietro agli attuali movimenti dei prezzi del cibo e, più in generale, gli squilibri e le distorsioni che pesano sul mercato globale dei beni alimentari.


Il recente rapporto della FAO sui prezzi dei beni alimentari attribuisce sostanzialmente le impennate degli ultimi mesi alle avverse condizioni atmosferiche in molte aree del globo e alla conseguente contrazione dell’offerta, una conclusione condivisa anche da molti economisti, tra cui il premio Nobel americano Paul Krugman. Gli altri motivi dei rincari sarebbero l’aumento della domanda proveniente da pesi emergenti come la Cina e l’utilizzo dei raccolti per la produzione di biofuel. Lei condivide questo giudizio ?

Se nel 2010 i prezzi dei beni alimentari sono saliti ai livelli astronomici del 2008 non è per i motivi sostenuti dalla FAO. Tanto più che le statistiche su cui si basa l’agenzia dell’ONU arrivano solo fino al 2008, come chiunque può verificare. Attribuire la salita dei prezzi alle avverse condizione atmosferiche è a mio parere una speculazione puramente teorica. I paesi colpiti da catastrofi ambientali sono stati in realtà pochi e questi eventi si ripetono un po’ ovunque ogni anno.

Fondamentalmente, per il 2010 tali calamità hanno riguardato la Russia, poiché in Australia, ad esempio, la produzione non ha fatto segnare crolli significativi e soltanto la qualità dei raccolti ha sofferto per le piogge e le inondazioni. L’impatto di questi cattivi raccolti sull’offerta mondiale è stato inoltre largamente compensato dalle raccolte record in Cina, Argentina, Brasile ed altri paesi.

Ciò spiega perché il rapporto fra la produzione e l’offerta mondiale sia rimasto inalterato nel corso del 2010. I dati indicano anzi un indubbio aumento della produzione mondiale rispetto al 2008. In quell’anno la produzione mondiale di grano era stata di 1.697 milioni di tonnellate, mentre nel 2010 è salita a 1.793 milioni, secondo i dati dell’International Grains Council. Allo stesso modo, il consumo nel 2008 è stato di 1.684 milioni di tonnellate e nel 2010 è salito a 1.786 milioni.

Da questi numeri è possibile constatare come non ci sia stato alcun mutamento sostanziale tra offerta e domanda. Inoltre, nel 2008 le scorte di grano ammontavano a 282 milioni di tonnellate, per salire a 404 milioni lo scorso anno. La produzione di agrofuel, infine, non può essere considerata responsabile dell’aumento dei pezzi, perché durante il 2010 negli Stati Uniti, che sono i maggiori produttori, essa è rimasta stabile attorno ai 40 milioni di litri.

Di fronte a questo scenario, possiamo concludere che l’impennata dei prezzi è dovuta principalmente alla speculazione. Ciò purtroppo non rappresenta una novità. Oggi è infatti evidente come l’impennata e la successiva caduta dei prezzi dei beni alimentari nel 2008 fu dovuta proprio alle operazioni speculative. Non va dimenticata anche la svalutazione del dollaro che fa salire i prezzi dei beni scambiati in questa moneta, anche se essi rimangono stabili nelle altre valute. Nelle considerazioni di un organo delle Nazioni Unite come la FAO, d’altra parte, pesano le fortissime pressioni politiche che impediscono determinate conclusioni. Gli stessi vincoli agiscono anche sugli economisti legati all’establishment, sia pure autorevoli, come Krugman.

Anche l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha preso in considerazione l’aumento dei prezzi. Il suo direttore, Pascal Lamy, ha citato come possibile causa la regolamentazione delle esportazioni dei prodotti alimentari che alcuni paesi attuano, chiedendo perciò una maggiore liberalizzazione in questo senso. Qual è la sua opinione in proposito?

Questa brusca impennata dei prezzi, cosi come quella del 2008, non può essere attribuita a simili politiche che sono in vigore da tempo. Il diritto dei paesi ad assicurare le risorse alimentari alla propia popolazione, prima di esportarle, è in ogni caso totalmente legittimo, come sancito anche dalle norme del WTO. Queste politiche di controllo sulle esportazioni stabilizzano i prezzi interni su livelli reali e costituiscono un freno alla speculazione.

È senz’altro vero, al contrario, che tali politiche danneggiano gli speculatori, così come sono un ostacolo al controllo mondiale dei cartelli dell’agroalimentare. Il direttore del WTO, Pascal Lamy, cerca di erodere tali protezioni nazionali per favorire i cartelli, un obiettivo perseguito anche nelle negoziazioni agricole del WTO che mirano allo smantellamento delle politiche nazionali. È singolare come, potendo ottenere l’autosufficienza e la stabilità dei prezzi interni a così buon mercato (attraverso la regolamentazione delle esportazioni), si spendano invece enormi quantità di denaro pubblico, ad esempio, con le sovvenzioni della Politica Agricola Comune (PAC) per assicurare l’autonomia alimentare europea.

Più precisamente, quale peso hanno sulla crisi alimentare globale i sussidi alle esportazioni che molti paesi (Stati Uniti e UE) garantiscono ai propri produttori?

I sussidi alle esportazioni agricole dell’Unione Europea e degli Stati Uniti di fatto hanno rovinato gli agricoltori che non possono competere con prezzi tenuti artificialmente bassi. Anche quelli più efficienti, nella migliore delle ipotesi, hanno visto ridurre drasticamente i loro profitti. Se sovvenzionare per garantire la propria sovranità alimentare è legittimo, decisamente meno lo è per favorire l’esportazione degli stessi prodotti agricoli sussidiati, in quanto essi determinano l’abbassamento dei prezzi internazionali a livelli rovinosi. Il crollo dei prezzi, a sua volta, rende necessarie le sovvenzioni, producendo un circolo vizioso. A peggiorare la situazione c’è poi il fatto che le sovvenzioni favoriscono principalmente il processo industriale e gli intermediari commerciali, piuttosto che i produttori.

A causa di questi sussidi molti paesi hanno visto lo spopolamento di intere zone rurali, con il conseguente spostamento di milioni di persone in aree urbane sempre più affollate. Per lo stesso motivo, paesi già esportatori di prodotti alimentari sono ora dipendenti dalle importazioni per il loro  sostentamento. Notissimo è il caso dei cosiddetti “quattro del cotone” (Benin, Burkina Faso, Mali e Ciad) che basavano appunto le loro economie sull’esportazione del cotone, e i cui governi sono costretti ora a spendere centinaia di milioni di dollari solo per mantenerne in vita la produzione. Un’evoluzione dovuta in primo luogo ai 25 miliardi di dollari in sussidi ai propri produttori di cotone che Washington ha assicurato negli ultimi 9 anni e che coprono ben il 68% del costo della produzione negli Stati Uniti.

Un altro esempio significativo è quello della produzione dello zucchero. La coltivazione più efficiente è quella derivata dalla canna da zucchero, tipica dei climi tropicali. L’Europa in teoria non potrebbe mai competere con questi paesi, tuttavia, grazie alle sovvenzioni della PAC, non solo da noi si produce zucchero di bietola, ma l’Europa ne è anche il maggiore esportatore mondiale. In definitiva, i contadini di qualsiasi paese - Europa compresa - vorrebbero semplicemente prezzi più alti, ovvero reali. Al contrario, il denaro dei contribuenti viene speso per abassare i prezzi dei beni alimentari, così da creare nuovi grandi mercati ed enormi guadagni per gli intermediari del commercio internazionale.

Tornando alla situazione attuale di rincari dei beni alimentari, può spiegare più nel dettaglio come la politica monetaria della Fed americana (con la svalutazione del dollaro) e la speculazione internazionale possono influire sull’aumento dei prezzi dei beni alimentari ?

Il ruolo della Banca Centrale Americana è innegabile. A partire dal 1971, quando gli USA abolirono la convertibilità del dollaro in oro, la Fed è in grado di emettere cifre astronomiche di denaro tramite una pratica definita “quantitative easing”. Con un semplice tocco sulla tastiera si mettono in circolazione cifre che superano di molto la capacita d’assorbimento dell’economia reale. Sono quantità di denaro molto piu grandi della vera economia mondiale e che si muovono tra i centri finanziari per essere investiti nelle borse valori.

Da tempo, infatti, si assiste alla salita del valore delle azioni senza una ragione apparente, come un aumento dei dividendi o nuovi investimenti, e lo stesso accade con altre proprietà o valori. Questo eccesso di denaro virtuale causa un succedersi di bolle speculative che possono riguardare qualsiasi bene scambiabile, compresi quelli alimentari, i cui prezzi fanno segnare impennate come quella in corso. Quando queste bolle esplodono e i prezzi cadono, il denaro immesso artificialmente sul mercato si volatilizza. La Fed allora interviene nuovamente per erogare altro denaro virtuale a beneficio degli speculatori di Wall Street affinchè facciano risalire i prezzi e possano recuperare le perdite creando sempre nuove bolle.

Che a produrre il rialzo del prezzo del cibo sia la speculazione o le catastrofi ambientali, quel che è certo è che dalla metà dello scorso anno 44 milioni di residenti dei paesi più poveri sono stati spinti in condizioni che la Banca Mondiale definisce di “estrema povertà”, cioè costretti a sopravvivere con meno di 1,25 dollari al giorno. Di fronte ad una comunità internazionale pressoché impotente, il numero delle persone malnutrite sulla terra tocca oggi i 925 milioni e, con l’attuale tendenza dei prezzi dei beni alimentari, è probabile che entro la fine dell’anno verrà superato il miliardo, vale a dire quasi un sesto della popolazione della terra.

di Carlo Benedetti

MOSCA. Scricchiolano gli equilibri geopolitici interni: si parla sempre più di due Zar (Medvedev e Putin) obbligati a condividere una poltrona unica mentre si vanno imponendo, sulla scena socio-economica, nuovi oligarchi venuti alla luce dopo Eltsin. Si fanno sempre più complessi i rapporti con i paesi dello “spazio post-sovietico” e la Csi - quella struttura che secondo il Cremlino doveva rimpiazzare il sistema del controllo sovietico - non svolge nessun ruolo dirigente.

C’è poi il campo della politica estera che al momento non brilla per idee e soluzioni. Non si comprende bene, infatti, quale sia il rapporto reale con gli Usa di Barack Obama e con la Cina di Hu Jintao. Ed è con questo bagaglio di problemi che il cronista - in una Mosca sempre coperta dalla neve e con punte di meno venti - va alla scoperta di eventuali soluzioni relative, appunto, alla conduzione geopolitica del Cremlino. Si entra, quindi, nei santuari delle accademie e degli istituti politici. E come prima questione sul tappeto si scopre che si è alla vigilia di una importante decisione del Cremlino relativa al rapporto con il mondo musulmano.

I dati attuali sono più che mai notevoli e degni di attenzione. Perchè sono oltre 20 milioni gli islamici presenti in Russia ed è chiaro che i think tank del Cremlino sono obbligati a tener d’occhio questa realtà. Ecco, quindi, che prende forma concreta quell’idea che il presidente Medvedev avanzò due anni fa: la realizzazione di un canale televisivo russo tutto dedicato ai musulmani, alla loro vita, alle loro tradizioni, al loro credo.

Si è alla vigilia del lancio ufficiale di questa rete (Febbraio) che, in primo luogo, si rivolgerà ai giovani promuovendo - come spiega il capo mufti russo, Ravil Gaynutdin - la tolleranza e i concetti di democrazia e convivenza tra religioni diverse. Ma è anche chiaro che l’idea del Cremlino consiste anche nel controbattere l’altra faccia della propaganda. Quella che viene dalle trasmissioni della tv cecena “Put” che, creata tre anni fa, si rivolge soprattutto alle popolazione del nord Caucaso con programmi e letture del Corano a ciclo continuo.

Il problema, qui, rischia di aggravarsi sempre più. Pensiamo, ad esempio, che una città come Grozny, capitale della Cecenia, contava, dodici anni fa, un 60% di slavi ed adesso ne conta appena un 6%. E questo fa capire come la situazione non sia delle più felici. Di conseguenza il Cremlino - viene fatto notare a Mosca - punta sempre più ad un buon rapporto con le popolazioni musulmane.

Ma nell’agenda delle priorità c’è anche la questione degli slavi-ortodossi. I quali, oggi come oggi, si attestano al 79%, mentre solamente dieci anni fa se ne contavano un 83% sulla popolazione totale. In questo contesto gli uomini del Cremlino addetti allo studio e all’esame dei rapporti interetnici ricordano che l'ortodossia si differenzia dalla religione cattolica in due caratteristiche: non viene riconosciuta l'infallibilità del Papa e a livello liturgico non viene riconosciuta la cresima (discesa dello spirito santo sull'uomo) perchè giudicata un doppione del battesimo. Per il resto valgono le regole delle due Chiese.

E sempre sul fronte religioso si evidenzia quel  dialogo teologico teso al superamento degli ostacoli ancora esistenti. Grande è stata così l’attenzione del Cremlino nei confronti dei lavori di una importante riunione che ha visto riuniti a Vienna esponenti dell’ortodossia e della Chiesa cattolica. Il tema affrontato - quello relativo al dialogo teologico - ha visto impegnati i rappresentanti delle quattordici Chiese ortodosse autocefale (Patriarcato ecumenico, Patriarcati di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Mosca, Serbia, Romania, Bulgaria, Georgia, Chiese di Cipro, Grecia, Polonia, Albania e delle Terre di Cechia e di Slovacchia), da altrettanti rappresentanti della Chiesa cattolica impegnati sul fronte della promozione dell'unità dei cristiani e del metropolita di Pergamo, Ioannis (Zizioulas), del Patriarcato ecumenico.

Non si è però trovata una comune piattaforma d’intesa. Ma al Cremlino - che di diplomazia e di trattative comuni se ne intende - si fa notare che le speranze per la prosecuzione del dialogo sono ben avviate e che, dunque, si spera che con la possibile presenza a Mosca del Papa tedesco si possano raggiungere posizioni accettabili.

Quanto alle linee di politica estera, le fonti più vicine al potere del duo Medvedev-Putin mostrano attenzione nei confronti dell’attuale vertice presidenziale alla Casa Bianca. Qui l’atteggiamento dei maggiori specialisti è improntato al pragmatismo più ferreo. Si parla delle tensioni valutarie tra dollaro e yuan che preoccupano anche il Cremlino. Ma si pone l’accento anche sul tema della Corea del Nord. E l’orientalista russo Sergej Lusianin - che da anni segue l’andamento delle relazioni tra Mosca, Pechino e Pyeongyang - fa notare in proposito che il conflitto fra le due Coree, cosi come la tensione su Taiwan, i contenziosi fra Cina e Giappone, Russia e Giappone, aggravano il clima in una  regione segnata da “una carenza di fiducia”.

A consolidarla punta però, nota l’esperto, l’iniziativa russo-cinese che prevede inoltre la nascita di strutture regionali per prevenire i conflitti che possono andare oltre i confini dell’Asia e del Pacifico. Comunque, questo, è soltanto il primo passo su una lunga strada verso il consenso multilaterale e la diversificazione dei legami economici.

L’anno che si è da poco concluso - dichiara Lusianin - ha registrato un salto di qualità, passando alla cooperazione nell’energetica nucleare ed elettrica, alle forniture del gas liquefatto, alla costruzione di condutture. Ci sono, infatti, alcuni contratti importanti nella metalmeccanica per mettere a punto attrezzature per questo settore con l’applicazione di alte tecnologie. Inoltre c’è da mettere nel conto gli investimenti cinesi nello sfruttamento dei giacimenti siberiani insieme alle società russe.

L’anno appena trascorso ha pertanto rafforzato i legami d’investimento e ha evidenziato una nuova tendenza: “La piccola e media impresa russa prende in affitto i terreni, compra società, lancia vari progetti. La nostra imprenditoria - nota sempre il russo Lusianin - va volentieri in Cina, in quanto questa economia propone regole di gioco chiare e ben precise. E così nel 2011 si punterà alla diversificazione dei legami economici, innanzitutto nelle alte tecnologie.

Ma Mosca, nonostante queste previsioni, teme pur sempre che si possa giungere ad un asse Usa-Cina e per questo studia attentamente le parole del segretario di Stato Hillary Clinton e del Consigliere per la sicurezza nazionale Tom Donilon. E in particolare si prendono in esame i discorsi dei capi di Microsoft, Steve Ballmer, di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, di General Electric, Jeff Immelt, di Coca Cola, Muhtar Kent e di Boeing, Jim McNerney.

I russi, inoltre, cercano di pesare attentamente (con l’aiuto di esperti in lingua cinese) il senso reale delle affermazioni dei dirigenti economici di Pechino al tavolo della Casa Bianca: il presidente di Lenovo, Liu Chuanzhi, l'acquirente cinese della divisione pc di Ibm, Lou Jiwei, presidente della China Investement Corporation, Lu Guanqiu di Wanxiang Group e Zhang Ruimin di Haier. Sulla base di tutti i dossier che i russi esaminano ora e sui quali intendono far sapere la loro posizione si può notare che la Cina è  oggi il primo creditore estero americano con 895,6 miliardi di dollari in novembre, l'1,2 per cento in meno rispetto al mese precedente.

Intanto, per chiarire clima e speranze del rapporto Washington-Pechino il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton, ha spiegato alla televisione cinese che "apertura e trasparenza" sono due elementi essenziali per stabilire una relazione di fiducia tra Stati Uniti e Cina. "Vogliamo avviare un dialogo aperto con la ricerca di un terreno d’intesa e poi appianare i punti di disaccordo", ha spiegato il capo della diplomazia americana, senza nascondersi che "da entrambe le parti vi sono posizioni molto nette. Ma noi auspichiamo che nulla interferisca sulla nostra volontà di continuare a discutere e ricercare un terreno d'intesa". Parole, queste, che Mosca sembra sottoscrivere in pieno.

Non mancano - in questa sintetica panoramica di relazioni internazionali viste da Mosca - le questioni relative alla sicurezza nell’Asia, alla cooperazione energetica e a quel vero e proprio boom  che sta attraversando la piccola e media impresa russa in Cina.

Si può concludere questa panoramica con un certo ottimismo? E’ ovvio che risposte dettagliate non possono essere fornite. Si possono avanzare solo alcune riflessioni da inquadrare, tutte, in un complesso scenario che lascia da parte verità a tutto tondo. Uno scenario che è pur sempre dominato da complicati rapporti politici ed economici.

di Carlo Musilli

L'ondata rivoluzionaria che sta attraversando i paesi nordafricani e mediorientali è arrivata a toccare le coste del Bahrein. Nel piccolo arcipelago del Golfo Persico, il malcontento popolare dura da anni. Ma è stato soprattutto l'esempio egiziano a sdoganare la possibilità di una vera rivolta. La maggioranza sciita, che costituisce il 70% della popolazione, ha deciso così di iniziare a far davvero la voce grossa contro il regime sunnita che da quarant'anni governa il Paese.

Gli scontri sono iniziati lunedì scorso, nei villaggi intorno a Manama, la capitale. I manifestanti chiedono riforme che trasformino il Bahrein da monarchia assoluta in monarchia costituzionale. Vogliono anche le dimissioni del premier, sheikh Khalifa bin Salman al Khalifa, che oltre a guidare il Paese dal 1971 (anno dell'indipendenza dalla Gran Bretagna), è anche lo zio del re, sheikh Hamad bin Isa Al-Khalifa. Dalla rivoluzione egiziana, i contestatori hanno ripreso il principale slogan ("Il popolo vuole il crollo del regime") e la più visibile fra le modalità di protesta: l'occupazione del cuore della capitale. Centinaia di persone si sono accampate così in piazza della Perla, la piazza Tahir del Bahrein.

Ma è stata subito evidente la distanza che corre fra Manama e il Cairo. Nell'isola del Golfo, le forze di sicurezza sono costituite per lo più da siriani, giordani e pachistani. Stranieri che non hanno alcun legame con la popolazione locale. I manifestanti sono stati così attaccati nel cuore della notte, mentre dormivano. A suon di manganelli, pallottole e lacrimogeni, la polizia ha impiegato non più di 20 minuti a sgombrarli. E per evitare che l'episodio si ripeta, oggi la città è presidiata dai blindati dell'esercito. Nel frattempo, il bilancio degli scontri è salito a 5 morti, 60 dispersi e oltre 200 feriti. Com'è ovvio, tutto ciò ha dato il colpo di grazia al già precario equilibrio politico del Paese. Il capo del movimento d'opposizione Wefaq, sheikh Ali Salman, ha ritirato in blocco i suoi 18 deputati dal Parlamento. Quasi la metà, visto che in tutto i seggi sono 40.

"Chiediamo al Bahrein, alleato e amico dell'America, moderazione in vista di possibili nuovi scontri. Gli Stati Uniti sostengono il processo per veri, significativi cambiamenti politici nel Paese". E' questo l'appello lanciato dal segretario di Stato Usa, Hilary Clinton, in tutto simile a quello indirizzato qualche settimana fa a Hosni Mubarak. La verità è che Washington è terrorizzata dalla possibilità di una guerra civile in Bahrein. Per quanto trascurabile possa sembrare a guardarlo su una carta geografica, il Paese ha un'importanza strategica cruciale: è qui che gli Stati Uniti hanno stanziato il quartier generale della Quinta Flotta della loro marina militare.

Per gli americani si tratta dell'unico punto di riferimento che consente di tenere sotto controllo le acque del Golfo. Da questa base le portaerei di Washington sorvegliano il transito del 20% del petrolio mondiale, sostengono le operazioni in Afghanistan e fanno sentire costantemente il fiato sul collo all'Iran. Sempre da qui sono partiti gli attacchi aerei durante la prima e la seconda guerra del Golfo. Perdere il Bahrein, è evidente, sarebbe una catastrofe. Se una rivoluzione portasse al potere un regime sciita, il Paese cadrebbe nelle braccia di Teheran e l'intera geopolitica della zona ne uscirebbe ridisegnata. La base americana più vicina, infatti, è sull'atollo sperduto di Diego Garcia, 1.600 chilometri a sud dell'India.

Come accaduto in l'Egitto con la dittatura di Mubarak, anche in Bahrein gli Stati Uniti sono stati ben lieti di appoggiare per anni un regime che rispondeva perfettamente alle loro esigenze in termini di equilibri internazionali. Una volta scoppiata la rivolta popolare, la democrazia non è la strada migliore da scegliere per motivazioni astrattamente ideologiche. E' piuttosto l'unica alternativa a una possibile debacle. Non è per le vite o per i diritti umani che Washington chiede di scongiurare la guerra civile a Manama, quanto per il rischio inaccettabile per la stabilità dell’area che questa comporterebbe.

Così si spiega la telefonata, di cui lo stesso Pentagono ha dato notizia, fra il segretario alla Difesa Usa, Robert Gates, e il principe ereditario del Bahrein, Salman. I due avrebbero parlato della "situazione attuale sul piano della sicurezza". E davvero avranno avuto di che discutere, soprattutto se sono veri gli episodi riferiti da Nicholas Kristof, inviato del New York Times sull'isoletta del Golfo. Via Twitter, il giornalista americano dipinge una situazione molto più grave di quella finora raccontata dai media: infermieri minacciati per evitare che soccorrano i feriti, prigionieri giustiziati a sangue freddo in mezzo alla strada, reporter segregati in aeroporto perché nessuno sappia. Nemmeno Washington?

di Alessio Marchetti

PRAGA. Dal 1989, anno della caduta dei regimi comunisti, c'é stata una progressiva ed inesorabile avanzata della criminalità organizzata nei paesi dell'Europa Centrale, in particolar modo in Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria. Proprio qui, nel cuore geografico dell'Europa, diverse organizzazioni criminali hanno deciso di impiantare i loro quartier generali da cui organizzare e gestire i loro traffici all'interno dell'Unione Europea. Partiamo proprio dall'Ungheria, strategico ponte tra l'Europa dell'Est e i Balcani, porto geografico ideale dove organizzare il proprio centro logistico per un'attività criminale per i traffici di merce illegale e armi dall'ex Yugoslavia e dai porti del Mar Egeo verso Est e viceversa.

Come in molti altri paesi post comunisti, molto del capitale illegale accumulato in Ungheria si é realizzato durante gli anni '90, grazie al contrabbando, agli appalti pubblici e alla corruzione delle istituzioni giudiziarie e delle forze di sicurezza. Il network delle attività criminali, infatti, é stato alimentato in quegli anni dai membri dei servizi di sicurezza dell'ex regime comunista, poliziotti corrotti e servizi segreti, e da quelle figure che già operavano sul mercato nero prima del 1989 e che venivano protetti proprio dalla corruzione diffusa. Tutto ciò ha determinato scarsi controlli di sicurezza e una generale disattenzione delle normative. Il rapido sviluppo di questo network criminale ha portato al controllo attuale di oltre il 20% del PIL ungherese.

La favorevole posizione geografica del paese rende più facili i movimenti di merce illegale su gomma e treno. Per esempio, dall'Ucraina entrano tabacco e giovani donne da avviare alla prostituzione in Austria; dalla Romania passano forze lavoro irregolari provenienti dal Caucaso; dalla Croazia e dalla Serbia sono importate armi e droga, che poi vengono indirizzate altrove. Le organizzazioni criminale hanno bisogno di far muovere continuamente e velocemente le loro merci e, da questo punto di vista, l'Ungheria ha una solida base infrastrutturale. Budapest é la capitale europea della pornografia, del contrabbando di sigarette nonché il punto di incontro e negoziazione tra i vari gruppi criminali che commerciano in armi, prostituzione e droga e che qui provengono da tutta Europa per concludere i loro affari.

Il Consiglio di Sicurezza Ungherese, un'agenzia pubblica preposta al controllo delle attività illecite, ha di recente riportato uno studio secondo cui il numero delle organizzazioni criminali presenti nel paese é in costante crescita. In particolare, le imprese edili, immobiliari e le società finanziarie sono quelle a maggior rischio di infiltrazione mafiosa, dando origine a quel diffusissimo fenomeno del lavaggio del denaro sporco. Si é anche rilevato che, recentemente, organizzazioni provenienti dalla Cina e dal Sud America hanno iniziato proprio dall'Ungheria la loro invasione verso l'Europa occidentale. La crescita delle mafie internazionali in Ungheria si é registrata particolarmente dopo il 1 maggio 2004, giorno dell'accesso del paese all'UE. A questo proposito, da alcuni anni, forze congiunte di polizia di Germania, Austria, Italia, Svezia e Stati Uniti stanno collaborando attivamente con la polizia ungherese e hanno stabilito nel territorio magiaro delle task force per monitorare la situazione direttamente alla fonte.

La situazione non si può certo definire migliore in Repubblica Ceca, sicuramente l'economia più fiorente e avanzata dell'ex blocco comunista in Europa centro-orientale. Le forze di sicurezza locali hanno stilato recentemente un rapporto secondo il quale sono oltre 100 le organizzazioni criminali presenti sul territorio: queste contano almeno 3000 adepti, tra i quali vari ragionieri contabili, commercialisti ed avvocati. Almeno 30 di queste organizzazioni sono integrate con altri gruppi all'estero e con diverse attività in vari paesi europei.

La mafia presente a Praga é soprattutto russa, ucraina, georgiana e moldava. Recentemente la polizia ceca ha registrato l'incremento della presenza anche di gruppi provenienti dalla Croazia, Serbia, Albania, Bulgaria, Romania, Vietnam e Cina, cosi come di turchi, specializzati nel lavaggio del denaro sporco, e greci, che gestiscono il commercio di droga e prostituzione.

Da non sottovalutare poi anche i gruppi mafiosi sudamericani, libanesi, iraniani e nigeriani, oltre alla Camorra italiana, ben presente soprattutto nel settore immobiliare. I cechi tendono a non creare una propria rete criminale quanto piuttosto a servire e supportare le mafie straniere. Questo, oltre a confermare il fenomeno mafioso non autoctono ma prevalentemente d’importazione, crea problemi alle forze di sicurezza locali che non riescono a tracciare i rapporti tra i vari gruppi e i loro leader. Dato la vicinanza, la Repubblica Ceca é considerata un'ottima testa di ponte per far entrare droga, prostituzione e altri traffici illegali in Germania. Il paese serve anche come base per il traffico verso i paesi scandinavi, in particolare la Svezia, di materiale umano proveniente dalla Moldova e dall'Ucraina.

Se la Repubblica Ceca piange, i cugini della Slovacchia non ridono. Secondo statistiche della polizia, a Bratislava sono presenti oltre 50 gruppi mafiosi che contano circa 700 adepti; le organizzazioni criminali sono in prevalenza kosovare, ucraine, russe, georgiane e locali. La Slovacchia, a partire dagli anni '90, é stata tacitamente divisa in zone di influenza tra i vari gruppi criminali, in modo da evitare inutile guerre che avevano negli anni precedenti prodotto numerose vittime. La capitale Bratislava ha una fortissima presenza albanese specializzata nella prostituzione illegale con dei ricavi annui stimati in oltre 50 milioni di euro. I rumeni invece sono specializzati nel furto d'auto, da rivendere poi, intere o a pezzi, nei mercati tedeschi e olandesi. Il commercio della droga é gestito dai turchi e dai kosovari, che la esportano prevalentemente in Germania, Olanda e Scandinavia. In Slovacchia c'é anche una certa attività nel mercato illegale di armi, provenienti dalla Moldova, dal Caucaso e dai Balcani: i clienti di questo tipo di attività provengono prevalentemente dall'Africa Sub-Sahariana e dal Medio Oriente e qui comprano soprattutto esplosivi e missili anti-carro.

Tra i gruppi criminali che hanno visto la maggiore crescita in questi ultimi anni, in termine di numeri e di volume di affari, ci sono sicuramente i cinesi e i vietnamiti, che sono riusciti a costruire un network consolidato ed affidabile che va dalla Scozia fino alla Grecia. I Vietnamiti sono considerati i maggiori importatori di materiale di contrabbando (sigarette, tessile e altri beni di consumo) ed hanno un sistema molto ben oliato per quanto concerne l'immigrazione irregolare dal sud est asiatico all'Europa. Si capisce quindi come dalla caduta del comunismo, l'attività delle organizzazioni criminali si sia internazionalizzata e sia etnicamente molto sfaccettata. Per facilitare l'integrazione dei propri adepti, le mafie organizzano matrimoni con i cittadini locali, per ottenerne la cittadinanza e il passaporto europeo.

Anche l'attività legata al commercio della droga é totalmente in mano alle organizzazione straniere.  L'eroina e la cocaina vendute a Praga o Budapest costano la metà di quella venduta a Parigi o Berlino: questo crea quel fenomeno conosciuto con il nome di narcoturismo, che insieme al turismo del sesso garantiscono le due voci di maggiori introiti nell'attività giornaliera dei gruppi criminali, che con queste finanziano il resto dei loro commerci.

Basta pensare che nella sola Budapest ci sono circa mille escort ingaggiate dalle mafie che generano un ritorno monetario annuo valutabile in circa 80 milioni di euro. Se a questo aggiungiamo il resto del vasto spettro di affari legati all'industria del sesso (bordelli, discoteche, cinema porno, call center, siti internet porno, ecc) allora il volume di affari é stimato raggiungere i cinque miliardi di euro.

Sovente il business illegale si mischia e diventa tutt'uno con quello legale. Praga in particolare, negli ultimi anni, ha subito l'invasione della mafia russa che ha lavato il proprio denaro sporco investendo in attività del tutto legali come hotels, ristoranti, agenzie di scommesse e aziende di costruzioni o immobiliari. Il fine ultimo di queste organizzazioni, in particolare di quella russa, secondo un rapporto stilato di recente dal Ministero dell'Interno ceco, é proprio quello di penetrare legalmente nel tessuto economico, politico e sociale ceco.

Lo studio e la ricerca delle organizzazioni criminali in Europa Centrale e tenuto in grande considerazione nei paesi dell'Europa Occidentale ed il motivo eé semplice: per molte di esse, la loro presenza a Praga, Budapest e Bratislava rappresenta una base per i grandi mercati francesi, italiani e soprattutto tedeschi. L'integrazione europea del 2004 ha avuto come conseguenza un minore controllo alle frontiere e ad una maggiore facilità e velocità nello spostamento delle merci. Certamente il collasso del comunismo ha portato una notevole sfida alle autorità di sicurezza e doganali dell'Unione Europea e questo sta diventando sempre più chiaro ed evidente giorno dopo giorno. E la sfida per l'Europa oggi sembra essere proprio questa: offrire sicurezza ai proprio cittadini senza allo stesso tempo minarne le libertà acquisite.

 

 


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