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di Michele Paris
Da qualche settimana a questa parte una nuova disputa diplomatica sta incrinando i già delicati rapporti tra gli Stati Uniti e il Pakistan. Ad alimentare le frizioni con lo scomodo ma fondamentale alleato di Washington in Asia centrale è la sorte di un cittadino americano accusato di aver ucciso a sangue freddo due motociclisti pakistani in un’affollata arteria della città di Lahore. La confusione attorno alla vera identità del responsabile del duplice omicidio e le pressioni statunitensi per il suo rilascio stanno creando non pochi imbarazzi ad un governo pakistano che deve fare i conti con un sentimento anti-americano già ampiamente diffuso in tutto il paese.
Il 27 gennaio scorso, il 36enne Raymond Davis stava guidando in solitudine lungo una strada della città pakistana nord-orientale a pochi chilometri dal confine con l’India. Accortosi di essere seguito da due uomini in motocicletta, Davis li ha colpiti una prima volta con una pistola automatica Glock per poi finirli dopo essere sceso dall’auto. Secondo quanto dichiarato alla polizia locale, il cittadino americano avrebbe scattato delle fotografie alle due vittime, i quali a suo dire stavano tentando di rapinarlo.
Dopo l’accaduto, Davis ha chiamato il consolato americano di Lahore da dove hanno mandato immediatamente un’auto per assisterlo. Il S.U.V. partito dal consolato, che secondo le autorità viaggiava con una targa falsa, ha poi investito e ucciso un altro pakistano in motocicletta, fuggendo a tutta velocità per le strade della metropoli.
Secondo la ricostruzione della polizia, che respinge la tesi dell’autodifesa, oltre alla sua arma Raymond Davis aveva con sé un equipaggiamento degno di una spia, tra cui alcune mappe di installazioni di importanza strategica per la sicurezza nazionale pakistana. I due motociclisti uccisi portavano a loro volta delle armi scariche e uno di loro sarebbe stato colpito alla schiena nel tentativo di fuggire dal luogo dell’incidente.
Il comportamento del misterioso americano per le strade di Lahore ha comprensibilmente scatenato la rabbia della popolazione pakistana, mentre ad accendere ancor più gli animi ci ha pensato la televisione locale che ha trasmesso le immagini prese dalla macchina fotografica di Davis, ottenute con ogni probabilità proprio dalle forze di sicurezza e che mostravano, tra l’altro, le due vittime a terra dopo lo scontro a fuoco.
Il ruolo svolto da Raymond Davis in territorio pakistano a tre settimane dai fatti che l’hanno condotto in una sovraffollata prigione di Lahore appare ancora poco chiaro. Ufficialmente, Washington sostiene che l’ex membro delle forze speciali fa parte dell’ambasciata americana a Islamabad, dove avrebbe incarichi di natura “amministrativa e tecnica”. Secondo la versione di Davis, invece, la sua funzione sarebbe quella di consulente presso il consolato di Lahore e dunque non farebbe parte del corpo diplomatico americano in Pakistan.
Qualunque sia il reale compito svolto da Davis, dagli Stati Uniti ci si è affrettati a chiederne l’immediato rilascio. Ai suoi legali in Pakistan si sono aggiunti il Dipartimento di Stato e lo stesso presidente Obama, il quale nel corso di una conferenza stampa martedì scorso ha chiesto al governo di Islamabad di rispettare la Convenzione di Vienna e garantire l’immunità diplomatica al detenuto americano.
Il Segretario di Stato, Hillary Clinton, ne avrebbe addirittura chiesto la liberazione direttamente al presidente pakistano, Asif Ali Zardari, così da non mettere a repentaglio la partnership strategica tra i due paesi. Di fronte ad un’opinione pubblica inferocita per l’arroganza mostrata dal presunto contractor o spia americana, il governo locale ha tuttavia negato il rilascio, rimettendo alla giustizia pakistana il destino di Raymond Davis, nel frattempo formalmente accusato di omicidio premeditato.
Le nuove scintille con gli Stati Uniti e l’insistenza della Casa Bianca rischiano di destabilizzare seriamente il già fragile governo pakistano. Cedere alle pressioni potrebbe, infatti, produrre una vera e propria rivolta nel Paese, dove il risentimento verso gli americani è già profondo, soprattutto per le vittime civili continuamente provocate dalle incursioni dei droni nelle province nord-occidentali al confine con l’Afghanistan. L’avversione nei confronti degli USA sta dando vita ad una miscela esplosiva nel paese, sfruttata dall’integralismo islamico, come dimostra l’assassinio di un politico di spicco appartenente al partito di governo a inizio anno.
A complicare la situazione ci sono anche gli attriti tra Islamabad e l’amministrazione della provincia del Punjab, dove si trova Lahore, responsabile dell’arresto di Davis. Qui il fervore religioso risulta particolarmente radicato e, come se non bastasse, a governare è il partito all’opposizione a livello nazionale, il PML-N dell’ex premier Nawaz Sharif. Tra il governo centrale e i militari, poi, sono emerse profonde divisioni sulla risposta da dare a Washington in merito al rilascio di Davis. Il presidente Zardari e il primo ministro Gilani sembrano convinti della necessità di garantire l’immunità diplomatica al detenuto statunitense ma, oltre a dover valutare attentamente le reazioni dei propri cittadini, sono costretti a fare i conti con le resistenze dei vertici delle forze armate, che dettano di fatto la politica estera pakistana.
Tra il caos che regna nelle stanze del potere a Islamabad sono emerse infatti posizioni anche diametralmente opposte sulla vicenda. Nonostante la misurata disponibilità mostrata dal governo, il ministro degli Esteri, Shah Mehmood Qureshi, si è ad esempio pubblicamente rifiutato di riconoscere l’immunità diplomatica che pure Hillary Clinton sotto minaccia di ritorsioni gli aveva chiesto personalmente. Secondo alcuni osservatori, Qureshi, vicino ai militari pakistani, avrebbe pagato la sua ostinazione con la rimozione dall’incarico di ministro degli Esteri pochi giorni più tardi.
Senza tanti scrupoli per le sorti di un governo che dovrebbe rappresentare un punto fermo nella cosiddetta guerra al terrore in corso in Afghanistan, nelle ultime settimane Washington ha preso una serie di provvedimenti volti ad intimidire l’alleato pakistano. Il Dipartimento di Stato ha recentemente cancellato il tradizionale summit tripartito con i ministri degli Esteri di Pakistan e Afghanistan che era in programma a partire dal 23 febbraio prossimo, ufficialmente a causa della rimozione dello stesso Qureshi che ha perso il posto nell’ambito di un rimpasto di governo.
In maniera più esplicita, invece, ai pakistani è stato fatto capire che se Raymond Davis non sarà messo a breve su un aereo per gli USA, gli ingenti aiuti stanziati annualmente dal Congresso americano potrebbero essere tagliati. Tale ipotesi é stata prospettata chiaramente sia dal deputato repubblicano Howard McKeon sia dal senatore John Kerry, presidente della commissione affari esteri, entrambi inviati dalla Casa Bianca in Pakistan negli ultimi giorni. Gli Stati Uniti nel 2009 avevano siglato un accordo per 7,5 miliardi di dollari in aiuti militari e civili da erogare in cinque anni, mentre l’anno scorso il presidente Obama aveva a sua volta promesso altri due miliardi.
L’atteggiamento intimidatorio di Washington, nonostante il rischio concreto di provocare la caduta dello stesso governo pakistano e compromettere la stabilità di un alleato così importante, suggerisce implicazioni ben più profonde riguardo alla figura di Raymond Davis. Se è impossibile trovare conferme sulla sua reale attività in Pakistan, svariate ipotesi stanno affiorando sulla stampa internazionale. Per alcuni, Davis sarebbe un agente operativo ben addestrato che i due motociclisti uccisi stavano seguendo per conto dei servizi segreti locali. Nel corso dell’inseguimento, Davis avrebbe perso la testa, sparando ai due uomini che in realtà non rappresentavano una minaccia per la sua vita.
Per i media pakistani, inoltre, le autorità sapevano che Davis era in contatto con i gruppi talebani operanti nel paese. Per questo motivo, scrive il Washington Post citando fonti anonime dell’intelligence pakistana, i due motociclisti che lo seguivano intendevano metterlo in guardia poiché il suo incarico stava verosimilmente mettendo a rischio gli interessi della sicurezza nazionale del Pakistan. In questa prospettiva, appare evidente come gli Stati Uniti temano che il loro uomo in mano ai servizi di sicurezza locali possa rivelare informazioni vitali sugli obiettivi strategici americani.
Il tribunale di Lahore, intanto, ha assecondato la richiesta del ministero degli Esteri, concedendo altre tre settimane al governo di Islamabad per stabilire una posizione ufficiale sulla questione dell’immunità diplomatica richiesta da Washington per Raymond Davis. La decisione della giustizia pakistana, salvo colpi di scena, prolungherà la permanenza di quest’ultimo nelle carceri di Lahore, provocando certamente un’ulteriore escalation delle tensioni tra i due improbabili alleati.
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di Vincenzo Maddaloni
Sarà che sopravvalutarli sembrerebbe eccessivo; sarà che in Egitto i Fratelli Musulmani non svolgono alcun ruolo gerarchico politico, come accade invece agli ayatollah in Iran. Certo è che ignorarli sarebbe molto pericoloso. Perché i Fratelli Musulmani egiziani rappresentano l'organizzazione madre di tutte le altre fratellanze islamiche in Giordania, Algeria, Iraq, Palestina. L’associazione religiosa, fondata nel 1928, sebbene combattuta e spesso duramente perseguitata dalla casta laica e panarabista dei militari, ha un peso virtuale in termini elettorali che supera il venti per cento; che non è poco in un Paese di 85 milioni di abitanti come l’Egitto.
Sicché affermare che essa è anche un partito politico di massa, è una considerazione affatto esagerata. Dopo tutto i Fratelli Musulmani possono contare sul sostegno di una parte rilevante della media e alta borghesia, come dimostra il controllo che il gruppo esercita sui più importanti ordini professionali, da quello dei medici a quello degli avvocati o degli ingegneri.
Così operando essi si sono radicati nel profondo della società egiziana. Molto ha influito l’aver saputo offrire alle persone servizi che lo Stato non è in grado di offrire. «È come se fosse un piccolo Stato parallelo, senza l’esercito», ha spiegato Essam el-Erian, uno dei leader più influenti del movimento. Insomma la Fratellanza, dopo la dura repressione subita durante l’èra nasseriana, ha svolto un’opera capillare di reislamizzazione "dal basso" della società imperniata sul ritorno dell'individuo a quello che viene definito l’"autentico Islam".
Essi sono, infatti, la forza di opposizione più forte, più strutturata e, secondo diversi osservatori, qualora in Egitto si svolgessero elezioni libere e trasparenti, si affermerebbero come prima forza politica del paese. Naturalmente, Essam el-Erian ammette l’esistenza di dissensi interni, ma sostiene che nel lungo periodo saranno solo una fonte di forza e non di debolezza. «L’Islam è un’unità, ma i lavori e i compiti possono essere divisi» ha spiegato «é come uno Stato: unico ma con quaranta ministeri ognuno responsabile delle proprie funzioni. Lo stesso vale per noi. Siamo pronti ad assumerci incarichi politici, ma sotto l’ombrello di una più ampia struttura».
Questa concezione strategica non è sempre stata dominante all’interno del movimento. Negli anni Cinquanta e Sessanta, l’ideologia era ancorata ad uno dei propagandisti di punta, lo scrittore Sayyid Qutb particolarmente ostile nei confronti dell'Occidente. Egli è l’autore di un commentario coranico - Pietre miliari - un’opera fondamentale, da molti considerata l'apri strada del moderno Islam politico di orientamento fondamentalista. Sicuramente è stato fonte d’ispirazione per Ayman al-Zahawiri, il medico egiziano diventato il massimo ideologo di Al Qaeda.
Tuttavia, un’attenta analisi del movimento islamico, delle sue dinamiche interne e dei suoi rapporti con il potere, rivela oggi un quadro decisamente complesso. In buona sostanza, il movimento religioso ha sempre cercato di evitare una contrapposizione diretta con il regime, poiché secondo i principi fondamentali della Fratellanza, la conquista del potere deve essere perseguita soltanto quando le condizioni lo permettano, quando cioè la società sia stata islamizzata e sia pronta per un governo islamico. Altrimenti - si sostiene - la ricerca del potere non condurrebbe a uno Stato islamico e condizionerebbe negativamente sia il funzionamento interno della Fratellanza, sia la sua immagine pubblica. Così si spiega perché dopo la riorganizzazione del movimento degli anni Settanta e Ottanta e l’atteggiamento compromissorio con il governo, la Fratellanza ha rinvigorito il suo ruolo sociale.
Naturalmente, il pensiero dei Fratelli Musulmani si è molto evoluto negli ultimi vent’anni e, tra i fautori di un’interpretazione letterale dei testi sacri e i sostenitori del modello turco, esiste una grande varietà di posizioni intermedie. Tuttavia non ha dubbi, e non potrebbe essere diversamente, l’ottava Guida generale del movimento, Muhammed Badi’e, secondo il quale l’islamizzazione dello Stato deve continuare ad essere la priorità principale.
Fratellanza in prima linea, dunque, nonostante le apparenze dicano il contrario. La raccomandazione di Muhammed Badi’e nasce dall’esperienza storica, poiché nonostante i ritardi, le difficoltà e le sconfitte subite nel corso dei decenni, lo strumento più efficace che i popoli islamici hanno trovato contro l’Europa (quand’era colonialista) e oggi nel confronto con l’America che pianifica il “Grande Medio Oriente” è stato proprio l’Islam.
Con un ritorno ai suoi primordi l’Islam diventa quindi religione, politica, ideologia, morale, visione del mondo e modo di vita. Naturalmente questo processo di maggiore rigore, ma anche di minore aderenza alle trasformazioni e alle nuove esigenze degli stessi Paesi islamici, matura durante un arco di tempo piuttosto lungo. Dove più dove meno, tale processo continua, fino a dare origine a un tipo d’intransigenza assolutamente nuova e spesso lontana dalla tradizione islamica così come essa ci è documentata dalle fonti storiche. Com’è accaduto, ad esempio, in Arabia Saudita.
Si tenga a mente che i Fratelli Musulmani non rappresentano la maggioranza della popolazione egiziana, ma essi sono, come tutti i religiosi che si rispettino, i più vicini ad essa e alle sue necessità. Non va dimenticato che il rialzo dei prezzi alimentari e della disoccupazione sono stati il motivo vero dell'inaspettata rivolta in Egitto, come pure in Tunisia. L’Associated Press riporta che circa il 40 per cento degli egiziani si dibatte attorno al livello di povertà stabilito dalla Banca mondiale di meno di 2 dollari al giorno. Gli analisti stimano che l'inflazione dei prezzi alimentari in Egitto è attualmente un drammatico 17 per cento annuo. Nei paesi più poveri, il 60-80 per cento del reddito della gente serve per il cibo, rispetto al solo 10-20 per cento dei paesi industrializzati. Un aumento di venti centesimi di Euro o giù di lì, nel costo di un litro di latte o di un panino per noi italiani, può significare per milioni di egiziani, come per gli abitanti dei Paesi poveri, la morte per fame.
La Fratellanza che fa? Con la creazione di un’efficiente rete di organismi legati alle moschee, essa interviene con i sussidi, l’assistenza, il cibo in tutto il Paese. Inoltre gestisce una cinquantina ospedali dove i pazienti pagano le cure secondo le proprie disponibilità. Insomma i Fratelli fanno “apostolato”, come usa dire in linguaggio ecclesiale, a trecentosessanta gradi. Va pure detto che in Egitto ci sono dieci milioni di cristiani copti, che svolgono la medesima opera di soccorso e di aiuto tra le loro genti. E benché essi siano una minoranza, rappresentano un’occasione di confronto e perciò di stimolo per la Fratellanza a mantenere il primato dell’efficienza.
A questo punto val la pena ricordare che la tentazione, nelle analisi di politica internazionale, è sempre di ragionare sulla base delle crisi precedenti. Sicché oggi ci si appunta sugli ultimi quarant’anni durante i quali la Fratellanza ha continuato a oscillare tra opposizione e compromesso con le autorità. Di conseguenza - si sostiene - questo atteggiamento ha indebolito la credibilità del movimento come forza di opposizione. Si aggiunge ad avallo della tesi, che l’iniziativa politica è stata assunta da altre forze di opposizione, come il Partito del domani (al-Ghad) o il Movimento egiziano per il cambiamento.
Il fatto è che queste previsioni non tengono in gran conto che le religioni sono sempre in qualche misura istituzioni sociali, cioè sono condivise, dotate di regole e strutture sociali ordinate, dove singoli individui sono legati tra loro da un complesso di credenze, comportamenti, atti rituali e cultura che li trasforma in una moltitudine che ha inclinazioni diverse da quelle a cui sono abituati i politologi studiando i regimi. Voglio dire che i fedeli alla fine sempre si affidano - con fiducia e affetto - ai ministri che gestiscono la prassi religiosa.
Sicché scegliendo di schierarsi al fianco di Mohamed el Baradei, l’uomo di punta del fronte ostile a Mubarak, la leadership dei Fratelli Musulmani ha voluto segnalare ai propri fedeli, con la certezza di essere ascoltata, che non è il momento di esporsi con rivendicazioni politiche che potrebbero spaventare l’Occidente, ma anche gli egiziani. La parola d’ordine è: coraggiosa attesa. Ed è così per il momento.
A conferma della certezza di essere ascoltati c’è la realtà delle piazze che si sono riempite con il richiamo alla religione comune, la quale rappresenta la forza che unisce le moltitudini al movimento e le trasforma in una massa - s’è visto - di una potenzialità inaudita. Siccome la gente è pronta a schierarsi per chi gli dà il pane, le cure, il lavoro e la speranza in un al di là premiante, sono queste le persone che hanno caratterizzato l’evento sotto le Piramidi. Certamente, non quelli che hanno twittato, i quali per tutto un insieme di realtà - non ci vuole molto a capirlo - non potevano essere in molti.
Eppure si continua ad appiccicare sulla rivolta egiziana l'etichetta di “rivoluzione del web”. L’ha ribadito anche Hillary Clinton l’altro ieri alla George Washington University, celebrando l’elogio di Internet come strumento di libertà di opinione, come se soltanto con le sue tecnologie, e i suoi social network si possono “liberare” i popoli. Finora non è accaduto, e non ci sono validi spunti nel Magreb per credere che possa davvero accadere.
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di Eugenio Roscini Vitali
Malgrado il divieto imposto dal Ministero degli Interni iraniano, a Teheran l’Onda Verde è tornata in piazza e lo ha fatto pagando un altro contributo di sangue a quello che molti esponenti dell’opposizione definiscono come il “fascismo religioso al potere”. Due morto, diversi feriti e centinaia di arresti in una manifestazione che, nonostante l’assenza del capo del partito Eternad-meli e leader del fronte antigovernativo, Mehdi Karroubi, posto agli arresti domiciliari dagli uomini del ministero degli Interni, ha visto la partecipazione di quasi dodicimila persone, donne e ragazzi che hanno sfilato per le vie della capitale al grido di “Morte al dittatore”.
Maryam Rajavi, presidente del Consiglio iraniano in esilio di resistenza nazionale (Cnri) parla di «rivolta senza precedenti», di una nazione decisa a combattere contro le misure repressive adottate dal regime e di un popolo «che continuerà fino al rovesciamento della dittatura religiosa al potere per instaurare in Iran la democrazia e la sovranità popolare».
Le proteste, iniziate alle prime ore del 14 febbraio, sono state subito segnate dal violento intervento della polizia in tenuta antisommossa; secondo i siti web dell’opposizione, Herana e Peykeiran e radio e-Persian, i basij, le forze paramilitari di mobilitazione fedeli al governo, avrebbero attaccato i manifestanti con manganelli e gas lacrimogeni. Una fonte vicina all’agenzia Reuters riferisce di migliaia di persone prese di mira dalle forze di sicurezza mentre sfilavano in silenzio e senza scandire slogan vicino a piazza Imam Hossein. Notizie di scontri tra i manifestanti e le forze di sicurezza anche a piazza Enghelab, piazza Azadi e nei pressi dell’università Sharif, dove gli squadroni della polizia erano schierati sin dalla notte precedente, e nelle città di Shiraz, Isfahan, Rasht e Mashhad.
Gholam Hossein Mohsenì Ejeì, portavoce del potere giudiziario iraniano, ha informato che gli autori dei disordini di Teheran verranno processati senza alcuna clemenza. Per le autorità la morte dei due manifestanti sarebbe imputabile ai Mujaheddin del Popolo iraniano (Pmoi) che avrebbero aperto il fuoco sulla folla; tra le vittime ci sarebbe Sanè Jalè, 24 anni, studente di Arti Rappresentative all’Accademia delle Belle Arti dell’università di Teheran, ucciso secondo Irib dai colpi sparati dalle armi dei “mercenari armati” dagli Stati Uniti.
Il regime era stato chiaro: il comandante dei pardaran, Hossein Hamadani, aveva parlato dei manifestanti come di cospiratori da considerarsi “cadaveri”; pene esemplari per chi sarebbe sceso in piazza; controllate le abitazioni e tagliate le linee telefoniche dei principali leader dell’opposizione; censurata internet e oscurati i canali televisivi trasmessi via satellite.
L’aria che tira oggi a Teheran è sicuramente pesante ed è evidente che il vento non può che spirare in una sola direzione: nel mirino i “pochi individui che si sono separati dal popolo” e che “cercano di offuscare l’immagine splendente della rivoluzione”. All’indomani dei disordini 233 deputati hanno chiesto l’avvio di una indagine che porti al processo di Karroubi e di Mir Hossein Mousavi, il candidato riformista che il 13 giugno 2009 denuncio i brogli elettorali che consentirono ad Ahmadinejad di vincere le lezioni presidenziali, definiti dal conservatore Gholam Alì Haddad Adel «due signori sono ormai famosi per i servigi resi a Washington e Tel Aviv».
Il Majles, il Parlamento iraniano, ha iniziato i lavori con il discorso del presidente Larijani che ha parlato di manifestazioni «orchestrate a favore degli interessi di Stati Uniti e Israele»; Mohsen Rezaee, candidato sconfitto delle ultime elezioni, ha ribadito che in Iran maggioranza e opposizione sono sostenitori della Repubblica Islamica ed al servizio della guida suprema ed ha invitato tutti a condannare un evento orchestrato e programmato dagli Usa.
L’11 febbraio Ahmadinejad aveva tentato di cavalcare l’onda della rivolta egiziana accorpando l’evento alla celebrazione del trentaduesimo anniversario della Rivoluzione del 1979. Parlando in piazza Azadi, il presidente iraniano aveva la folla affermando che «vedremo presto un Medio Oriente libero dall’America e dal regime sionista, dove non vi sarà posto per l’arroganza dell’Occidente».
Il presidente pasdaran aveva parlato di potenze in stallo e d’inizio del risveglio islamico, di movimento globale di protesta e di vittoria del popolo egiziano da non considerare più solo come fenomeno nazionale. Parole che ricalcavano il sermone tenuto il venerdì precedente dall’ayatollah Ali Khamenei, quando al termine della preghiera aveva inneggiato al risveglio delle coscienze contro i governanti arabi servi degli Stati Uniti: «Eccolo il terremoto che stavamo aspettando, il segno tanto atteso; quella cui assistiamo in questi giorni è un’esplosione di rabbia sacra, un movimento di liberazione islamico, e io prego per la vostra vittoria».
Anche se il potere non è mai stato concretamente indebolito dal sangue versato durante l'estate 2009, Ahamdinejad sa che milioni di ragazzi per strada rappresentano un pericolo; la repressione non può che provocare altre grane e una nuova stretta internazionale all’embargo sul petrolio, un passaggio che non potrebbe altro che peggioramento le già difficili condizioni economiche e sociali in cui versa il Paese. Per tagliare le spese il governo ha già dimezzato le sovvenzioni statali sui generi di prima necessità, una decisione che vale 80 miliardi di euro all’anno, ma che scontenta 15 milioni di poveri e di 10 milioni di disoccupati.
L’installazione di 20 mila impianti per la produzione di energia solare decisa dall’Organizzazione nazionale per l’efficienza dei consumi energetici e la prossima inaugurazione della più grande raffineria del Medio Oriente, la Shazand che sorge ad Arak, un progetto che porterà la capacità di produzione di benzina dell’Iran ai 17 milioni di litri al giorno, non hanno impedito rincari di benzina, elettricità e acqua tra il 10 e il 30%.
E sul fronte dell’occupazione e dei bilanci familiari non cambieranno la vita degli iraniani i 7 miliardi di dollari che la Cina dovrebbe investire nelle raffinerie di Abadan e Isfahan, 30 milioni di litri di benzina e gasolio al giorno, ne l’inaugurazione della seconda sezione del giacimento petrolifero di Darkhovin, un progetto sviluppato dalla compagnia italiana ENI che porterà la produzione dell’impianto da 50 mila a 160 mila barili al giorno, con una capacità giornalmente di estrazione di 280 milioni di metri cubi di gas naturale.
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di mazzetta
Pochi giorni fa, esattamente il 7 febbraio, il Procuratore Generale egiziano ha messo sotto accusa per l'attentato alla chiesa copta di Alessandria l'ex-ministro dell'interno Habib el-Adly, già braccio destro di Mubarak negli ultimi quattordici anni, così come il vicepresidente Suleiman è stato il suo braccio sinistro. Sinistro in tutti i sensi, visto che da testimonianze e documenti è emerso che al-Adly ha organizzato da ormai sei anni alcune speciali unità, ponendole sotto il comando di ventidue ufficiali.
Le unità sono composte di estremisti islamici e delinquenti scelti tra i carcerati del regime, agenzie private di “sicurezza” e membri della polizia e dei servizi del Ministero dell'Interno. Dovevano servire a praticare una vera e propria “strategia della tensione” attraverso attentati e atti di violenza, quando fossero state utili al regime.
Regime che nel 2010 ha visto enormi difficoltà addensarsi all'orizzonte e ha pensato bene di organizzare l'attentato alla chiesa cristiana. Per portare a termine il piano il maggiore Fathi Abdelwahid ha arruolato Ahmed Mohamed Khaled (con undici anni di galera alle spalle) e l’ha istruito a cercare un contatto con i vertici dell'organizzazione sunnita estremista Jundallah, d'ispirazione qaedista. Stabilito il contatto con Mohamed Abdelhabi, uno dei leader di Jundallah in Egitto, Khaled ha offerto loro un attentato chiavi-in mano ai copti e questi ha procurato quello che ne sarebbe stato l'esecutore: Abdelrahman Ahmed Ali.
Questi ha guidato l'auto imbottita d'esplosivo di fronte alla chiesa, pensando di doverla parcheggiare in modo che i suoi complici potessero farla esplodere con un telecomando all'uscita dei fedeli; invece il maggiore Abdelwahid aveva un altro piano e lo ha fatto esplodere non appena giunto di fronte alla chiesa. Ventiquattro vittime, un “kamikaze” offerto ai periti forensi e un testimone di meno. L'inchiesta ufficiale aveva poi “rivelato” che gli autori erano un gruppo di “palestinesi di al Qaeda”, provocando un fremito di piacere in Israele e un brivido di terrore a Gaza, dove Hamas si era immediatamente dissociata e aveva offerto collaborazione all'indagine.
Per chiudere il cerchio il maggiore ha imposto al suo contatto di organizzare un incontro per discutere l'azione e in quell'occasione li ha arrestati tutti e rinchiusi nel palazzo del Ministero dell'Interno. A seguito dei moti rivoluzionari e allo sbando della polizia, dopo che l'esercito si è schierato dalla parte dei manifestanti, i due terroristi per conto terzi sono riusciti a fuggire e si sono rifugiati all'interno dell'ambasciata britannica confessando tutto. Gli inglesi sono riusciti evidentemente ad ottenere solidi riscontri alla confessione e li hanno passati alla Procura egiziana che, ansiosa di mostrare un'indipendenza sconosciuta fino a pochi mesi fa, ha a sua volta riscontrato la validità delle accuse e proceduto con l'incriminazione.
Il dieci febbraio un diplomatico britannico ha spiegato ufficialmente all'Eliseo perché la Gran Bretagna ha insistito con forza per la rimozione di el-Adly; spiegazione opportuna, visto che Sarkozy e il governo hanno sostenuto fino all'ultimo Mubarak e, in subordine, gli esponenti del suo sistema di potere. Non risulta che all'Italia sia stata usata la stessa delicatezza e nel nostro paese la notizia non ha avuto nessun risalto.
Un esito delle vicende egiziane molto imbarazzante per il nostro premier, che aveva declamato la saggezza di Mubarak anche quando era già chiaro che fosse stato scaricato persino dagli Stati Uniti, e un vero schiaffo per il Ministro degli Esteri Frattini, che aveva reagito all'attentato portando alla UE un'assurda proposta che l'impegnava alla difesa dei cristiani dalle persecuzioni religiose ovunque nel mondo. Proposta fortunatamente respinta dall'UE e non solo perché era scaturita da presupposti falsi.
Frattini tace, i media non sembra proprio che abbiano raccolto la novità e quelli che l'hanno raccolta l'hanno relegata a un trafiletto. Eppure tutte le forze politiche si erano indignate per la persecuzione dei cristiani, per l'attentato dei feroci islamici. Sull'attentato aveva soffiato forte anche il Papa e tutti i cespugli della politica avevano stormito insieme.
Invece l’attentato è stato opera del governo di Mubarak, quello stesso governo che ha offerto protezione ai copti dopo l'attentato, quello stesso governo fino a ieri coperto di apprezzamenti dal vertice del nostro governo e da quelli di Francia, Israele ed Arabia Saudita che, per voce di Abdallah, si erano offerti di sostituire i finanziamenti americani che gli Stati Uniti hanno provato ad usare come leva per provare a passare per i liberatori di quelli che si erano già liberati da soli.
È un vero peccato che questa notiziola non sia oggetto di dibattito o almeno di qualche banale intervista al ministro Frattini o a un portavoce del Vaticano. Forse questo pesantissimo silenzio serve a non turbare l'ennesima “emergenza islamici” brandita dal governo all'arrivo dei primi tunisini via mare. O forse è solo la misura imbarazzante del disinteresse con il quale, in Italia, media e politica seguono gli avvenimenti internazionali. Per poi ritrovarsi a difendere quelli come Mubarak anche quando sono già caduti in disgrazia e disonorati agli occhi di chiunque, complici consapevoli dei loro crimini in nome di tutti gli italiani.
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di Carlo Benedetti
MOSCA. Il 16-17 febbraio Dmitrij Medvedev, Presidente della Russia, sarà in Italia su invito di Giorgio Napolitano. I due presidenti daranno il via all’Anno della lingua e della cultura russa in Italia e della lingua e della cultura italiana in Russia. Nell’agenda romana - segnata da forti motivazioni di politica internazionale - ci saranno ovviamente colloqui con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Poi una visita al Vaticano per incontrare il papa tedesco.
E sin qui, a parlare, é il freddo comunicato delle due diplomazie. Del resto è difficile aggiungere qualcosa oltre l’ufficialità del programma. I tempi non sono dei migliori. E a Mosca, con una buona dose di rude ironia slava, si dice che se la Russia non ride anche l’Italia non ha di che stare allegra. Si insiste, pertanto, nel “capire” il senso reale della missione di un Medvedev in libera uscita oltre le mura del Cremlino, perché sarebbe più logico, visti i precedenti, un blitz di Putin tutto concentrato sul rapporto con l’amico Silvio.
Tenendo conto, tra l’altro, che i veri amici si scoprono nei momenti di difficoltà… Misteri russi e roulette politica a parte ecco, quindi, il Medvedev in formato export che arriva per rivelare, forse, dinamiche nascoste o per mettere in luce, con un preciso percorso politico, trasformazioni sinora occultate.
Con Napolitano l’incontro sarà tutto in discesa. Non c’è alcun contenzioso da affrontare perché le grandi questioni tra i due Stati sono state da tempo appianate. Le “questioni” dei soldati italiani morti (o dispersi) in Russia - le tombe dell’Armir, i cimiteri di guerra - sono già accantonate e sistemate nei dossier della Storia. Sorte analoga per quei lontanissimi italiani (pugliesi) che andarono - prima della Rivoluzione d’Ottobre - a colonizzare le terre della Crimea: di loro restano in alcune remote valli solo i cognomi tramandati ormai da qualche generazione. E ancora: non ci sono problemi per la sparuta comunità “italiana” presente in varie località russe.
Complesso, quanto a tematiche, è invece quel dossier da esaminare con Berlusconi che - a livello dei due governi - si è andato formando sotto la gestione di Putin. Qui entrano in campo quadri politici e diplomatici di varia natura e spesso motivo di dibattito. Perché ci sono innanzitutto le conseguenze della globalizzazione che segnano fortemente le sfere politiche ed economiche dei due paesi. Il che, tra l’altro, comporta un’influenza smisurata, sulla vita degli stati, di istituzioni come il Fondo monetario internazionale (Fmi), la Banca mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).
Sul piano della bilateralità, intanto, va rilevato che l’Italia ha sviluppato con la Russia relazioni di un'intensità tale da poterle qualificare come "rapporto privilegiato". Si tratta tuttavia di un edificio che trova le sue fondamenta nella storia e, più di recente, nel sincero sostegno dell'Italia al progressivo avvicinamento della Russia alla "comunità occidentale" (UE, NATO, OMC, OCSE). Nel corso degli ultimi anni, appunto, le relazioni fra l'Italia e la Russia hanno conosciuto una fase d’intenso sviluppo che ha permesso non solo un approfondimento dei rapporti fra i due Paesi ma anche la realizzazione di progetti comuni in molteplici settori che spaziano dall'ambito culturale a quello economico.
Su queste basi, dalla formazione del governo Prodi in poi, si sono già svolte diverse visite ad alto livello: il Presidente del Consiglio ed il ministro degli Esteri si sono recati più volte in visita in Russia. E, in merito, una data importante fu quella del 14 marzo 2007 quando al vertice intergovernativo di Bari le relazioni bilaterali italo-russe trovarono un fondamentale momento di consolidamento e ulteriore slancio. Ci fu, tra l’altro, la missione di Putin, che incontrò Napolitano e Prodi e che contribuì ad avviare quel partenariato strategico articolato in un crescendo di dialogo politico e di collaborazione economica in svariati campi di primario interesse.
Notevoli poi quegli accordi intergovernativi come l’Accordo per la reciproca protezione della proprietà intellettuale nell'ambito della cooperazione tecnico-militare, il Protocollo sulla collaborazione per la realizzazione del Progetto "Super Jet 100" ed il Programma Esecutivo di Collaborazione Culturale 2007-2009. I vertici bilaterali hanno anche portato ad accordi tra banche, imprese ed enti. Tra questi, l'Accordo di Cooperazione tra Finmeccanica e Ferrovie Russe, gli accordi tra IntesaSan Paolo e le banche russe VTB e Sberbank, gli accordi finanziari tra Mediobanca e le banche russe VTB e VEB, il memorandum d'Intesa tra ENEL e ROSATOM e l'accordo fra la Città di Ferrara ed il Museo Ermitage per l'istituzione a Ferrara di una prima sede estera dell'Ermitage.
Più complessi sono, invece, i dossier di natura prettamente geopolitica. E questo tenendo conto che la Russia registra spinte contrapposte: una rivolta al passato, l’altra proiettata verso il futuro. A Mosca dominano, infatti, apparati politici, economici e militari che rivelano attitudini conservatrici. E ci sono anche forze che s’ispirano a gruppi economici internazionali e che, di conseguenza, operano per far entrare nel paese gruppi economici che potrebbero divenire forze di pressione.
Ed è proprio in questo contesto che si delinea la presidenza di Medvedev. Un personaggio del quale non si conoscono ancora a fondo gli obiettivi. Considerato come un liberale si dice che vorrebbe dare un volto liberista alla sua presidenza guardando più all’economia sociale di mercato sul modello tedesco che al liberismo di stampo anglosassone. Ma si dice anche che Medvedev starebbe lavorando in disaccordo, fosse anche solo parziale, con il suo mentore e attuale Primo Ministro Putin.
E non è un caso se nell’entourage del Cremlino si torna a porre l’accento su alcuni personaggi italiani (che avrebbero una certa influenza su Berlusconi) con i quali il giovane ed “inesperto” Medvedev si potrebbe trovare ad operare avendoli come interlocutori. Ma in questo rapporto di lavoro dovrebbe segnare la sua “diversità” da Putin.
I personaggi in questione, noti a Mosca, sono Valentino Valentini, strettissimo collaboratore di Berlusconi specialista nel tessere i rapporti tra L’Eni e i russi; Antonio Fallico (presidente di Intesa Sanpaolo Russia, advisor di Gazprom per l'Italia e interlocutore abituale di Eni ed Enel, profondo conoscitore dell’oligarchia russa ed insignito da Putin dell’Ordine di Lomonosov) e Bruno Mentasti, un manager di grande intelligenza legato agli ambienti economici della nuova Russia con una joint-venture personale collegata al Gazprom e basata a Vienna.
E’ questa, in sintesi, l’anticipazione sintetica delle questioni legate allo shopping italiano del presidente russo. Il quale, per rafforzare il suo prestigio dovrà necessariamente riportare a casa qualcosa di fondamentale. E potrebbe essere la volta buona (l’incontro con il papa tedesco che da tempo scalpita per arrivare accanto alle mura del Cremlino) per spianare definitivamente la strada dei rapporti tra il Vaticano e l’ortodossia russa. Per il suo paese Medvedev diverrebbe così il vero uomo-artefice del dialogo religioso.