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di Emanuela Pessina
BERLINO. Lo scorso dicembre, WikiLeaks ha rivelato all’Italia l’intenzione del Governo di censurare internet nel Paese. Il piano di controllo, tuttavia, non è stato portato a termine: all’autorevole quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung (SZ) e alle statistiche di Eurostat il compito di spiegare le ragioni di tale fallimento, se così si può chiamare, alla luce delle più recenti decisioni del Governo italiano.
Per quel che riguarda l’Italia, WikiLeaks aveva mostrato nel 2010 un ambasciatore americano preoccupato per un’eventuale censura di internet da parte del Premier Silvio Berlusconi. David H. Thorne, questo il nome del diplomatico statunitense, esprimeva i suoi timori circa il Decreto Romani, un provvedimento che sarebbe dovuto entrare in vigore a cavallo del 2010, e che avrebbe consentito procedimenti legali contro quei siti che fossero entrato in competizione con il Governo. Secondo le rivelazioni di WikiLeaks, il controllo della rete avrebbe favorito le imprese commerciali come le emittenti televisive, più controllabili e sicuramente più redditizie (anche a livello politico) per i membri del Governo stesso.
Eppure, nonostante l’opposizione online sia da sempre presente e ben organizzata, in Italia così come in tutto il resto del mondo, la censura non è andata in porto. A questo proposito, il quotidiano tedesco SZ ha di recente ricordato il No B-DAY, l’evento organizzato in rete a dicembre 2009, che ha portato in strada centinaia di migliaia di italiani. Oppure le performance di critici teatrali e autonomi come Beppe Grillo o Marco Travaglio, i più conosciuti anche all’estero, che sfruttano soprattutto le piattaforme virtuali per ovviare alla (più o meno) tacita censura televisiva.
Nonostante questi successi, dunque, il Governo italiano non è arrivato a limitare la rete. SZ se ne è chiesta la ragione e ha suggerito una risposta alquanto plausibile, sostenuta da numeri e statistiche, che merita un’analisi più approfondita. Secondo SZ, il Governo non è arrivato alla censura perché gli italiani che hanno accesso a internet sono ancora pochi e l’informazione di opposizione virtuale non costituisce una minaccia reale. In Italia, internet rimane un bene per pochi eletti, un prodotto di svago autoreferenziale legato a social network e chat.
Le statistiche europee, in effetti, parlano chiaro: l’Italia ha ancora poca familiarità con internet. L'Ufficio d’indagine dell'Unione europea Eurostat ha rivelato a fine gennaio che, nel 2010, solo il 52% delle famiglie italiane utilizzava regolarmente internet: una percentuale che colloca il nostro Paese a livello di Spagna, Repubblica Ceca, Ungheria e Cipro, seguito soltanto da Grecia, Croazia, Romania, Macedonia e Bulgaria, fanalino di coda, con il 30% degli accessi. È dei Paesi Bassi la medaglia per la maggiore diffusione di navigatori abituali della rete in Europa (90%), mentre in Germania il tasso di famiglie che utilizzano quotidianamente il web 2.0 sfiora l’80%, in Austria il 75%, in Francia il 70%.
Inutile aggiungere che la poca familiarità con l’universo virtuale fa del popolo italiano uno tra i più esposti ai pericoli della rete, quali virus, violazione della privacy o phishing. Secondo i dati diffusi da Bruxelles, i navigatori italiani sono tra i più colpiti da virus (45%) e si contano tra i fan meno accaniti degli antivirus: dalle statistiche europee risulta che il 67% ne fa volentieri a meno. Per quanto riguarda le frodi online, il 4% degli utenti italiani segnala di avere avuto problemi. Si sono registrate più vittime solo in Lettonia (8%), Gran Bretagna (7%), Malta e Austria (in entrambe 5%). E così il circolo vizioso si chiude: più problemi dà la rete, più cala fiducia nelle sue potenzialità (anche informative) tra gli italiani.
Ed è così, quindi, che la rete non si è conquistata in questi anni la fiducia degli italiani e che, di conseguenza, non ha fatto paura ai mezzi di comunicazione tradizionali, Televisione in primis, a tal punto da richiedere un intervento concreto di controllo da parte del Governo. La mentalità virtuale non è entrata a far parte delle competenze dell’italiano medio: information society, e-commerce, e-governement o e-business sono parole che sembrano provenire da un altro pianeta. Ma, certo, il difetto non è attribuibile alla mancanza di predisposizione dei singoli cittadini italiani.
Perché i dati mostrano che, in Italia, la navigazione virtuale non ha il sostegno delle infrastrutture. Solo nel 49% delle case italiane si utilizza una connessione a banda larga, quando la media europea è del 61%, e Paesi come la Norvegia e la Svezia registrano percentuali dell’83%, la Germania il 65%, Malta il 60%. Risultati peggiori dei nostri sono riscontrabili solo in Grecia (41%), Romania (23%) e Turchia (34%). Ciò significa connessione lenta, meno capillare e più costosa: fattori che, nel XXI secolo, costituiscono un indiscutibile svantaggio competitivo, oltre che a un limite culturale, per un Paese avanzato come dovrebbe essere il nostro.
Ciò significa scuole che insegnano ai bambini ad usare il computer senza connessione internet. Significa comuni dove non ci sono i soldi per gli investimenti in DSL e fibre ottiche, perché considerati alla stregua di beni di lusso. E ora, piuttosto che andare a colmare la lacuna, settimana scorsa il Parlamento ha deciso di utilizzare i 30 milioni di euro inizialmente previsti per l’estensione della banda larga per l’ampliamento della ricezione del digitale terrestre.
Non c’è da stupirsi, quindi, che l’Italia non sia incappata in una censura della rete come succede alle peggiori dittature: il progetto italiano prevede semplicemente di non favorire l’evoluzione del virtuale a favore dei mezzi tradizionali, controllabili e redditizi. Perché prevenire è meglio che curare, non vi è dubbio al riguardo, e un intervento cautelativo dà molti meno problemi rispetto a plateali rimedi posteriori. E chi ne fa le spese, come sempre, i cittadini, che volens nolens non possono scegliere equamente con che mezzo informarsi. È la comodità dei grandi media tradizionali, contro la difficoltà di accedere a quelli più innovativi, a fare la differenza.
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di Michele Paris
Come ampiamente previsto alla vigilia, le elezioni per il rinnovo del Parlamento irlandese hanno segnato venerdì scorso il tracollo dei due partiti di governo. A pesare sulle sorti del Fianna Fáil del premier Brian Cowen e sui Verdi è stata la rovinosa crisi economica che dal 2008 ha colpito il paese e le conseguenti misure di austerity adottate senza scrupolo per rimediare ad un enorme buco di bilancio.
Per il Fianna Fáil la sconfitta elettorale ha assunto i contorni di una vera e propria disfatta. Dei 78 seggi ottenuti quattro anni fa, sui 166 del Dáil (parlamento), il partito che ha governato l’Irlanda negli ultimi quattordici anni ne conserverà non più di 25, alla luce di un consenso tra gli elettori sceso al 17,4 per cento (dal 41,5 per cento). Si tratta della peggiore prestazione elettorale dal 1926, anno della sua fondazione.
A dare la misura della batosta per il partito guidato dal ministro degli Esteri, Micheál Martin, sono stati i risultati di Dublino, dove dei tredici seggi in palio che deteneva, il Fianna Fáil ne ha conservato appena uno, quello del ministro delle Finanze Brian Lenihan. Per il Green Party, poi, il voto del fine settimana ha comportato la sparizione dal panorama politico irlandese. Il misero 1,8 per cento conquistato significa che i Verdi non avranno nessun seggio nel prossimo parlamento.
A beneficiare dell’impopolarità del governo uscente è stato in primo luogo il Fine Gael, di centro-destra, che ha messo a segno la migliore prestazione elettorale della sua storia. Il partito del prossimo Taoiseach (primo ministro), Enda Kenny, ha raccolto poco più del 36 per cento dei consensi (27,3 per cento nel 2007) e porterà al parlamento di Dublino 76 rappresentanti.
La seconda forza nel paese è diventata il Partito Laburista, appena sotto il 20 per cento e con circa 36 seggi nel nuovo Dáil. Il principale raggruppamento di centro-sinistra entrerà a far parte di un governo di coalizione con il Fine Gael che in grandissima parte percorrerà la stessa politica di lacrime e sangue del gabinetto uscente.
Significativi passi avanti hanno fatto anche il Sinn Fein (10 per cento, 13 seggi) - con il proprio leader, Gerry Adams, eletto nella contea di Louth dopo che si era dimesso dal Parlamento di Londra e dall’assemblea di Belfast per correre nella repubblica d’Irlanda - e gli Indipendenti (12,6 per cento, 13 seggi). Nemmeno al tre per cento è giunta invece l’Alleanza Unita di Sinistra, formata dal Partito Socialista e da altre conformazioni minori come teorica alternativa di sinistra al Labour.
La punizione inflitta dagli elettori irlandesi ai partiti di governo riflette il profondo malessere diffuso nel paese per le misure draconiane imposte come condizione per accedere al maxi prestito da 85 miliardi di euro erogato l’anno scorso dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale. A questo percorso obbligato - fatto di tagli alla spesa sociale e licenziamenti nel settore pubblico - non si sono viste alternative concrete nel corso della campagna elettorale appena terminata, così che il voto di protesta si è concentrato sui due principali partiti di opposizione.
Il premier in pectore, Enda Kenny, appena appreso del successo elettorale, ha spiegato ancora una volta come il suo governo intenderà muoversi nel prossimo futuro. “Voglio lanciare un messaggio a tutto il mondo”, ha affermato il ministro del Turismo e del Commercio tra il 1994 e il 1997 dopo aver conquistato il suo seggio nella contea di Mayo. “Questo paese ha chiaramente legittimato il mio partito a formare un governo forte e stabile, con un programma ben definito”. Dichiarazioni queste che lasciano intuire come l’obiettivo primario del nuovo esecutivo irlandese sarà quello di rassicurare i mercati, garantendo l’implementazione dei drastici tagli alla spesa pubblica adottati dal Fianna Fáil e ampiamente appoggiati anche dal Fine Gael.
Quest’ultimo partito, che non si differenzia sensibilmente dal punto di vista ideologico dalle posizioni del Fianna Fáil, ha basato la propria campagna elettorale sulla promessa di rinegoziare il prestito EU-IMF. L’impegno, tuttavia, prevede esclusivamente il tentativo di ottenere tassi di interesse più contenuti e la possibilità di ripagare il prestito in un periodo di tempo più lungo. Per il resto, il programma di governo include ulteriori tagli di bilancio, il licenziamento di 30 mila dipendenti pubblici nei prossimi quattro anni ed una nuova campagna di privatizzazioni per quelle poche aziende rimaste in mano pubblica.
Il bilancio di emergenza approvato poco prima del voto, e che prevede tagli per 4,5 miliardi di euro solo per l’anno in corso, aveva trovato d’altra parte il sostegno sia del Fine Gael che del Labour, così da immettere l’Irlanda sulla strada della riduzione del deficit al di sotto del tre per cento del PIL entro cinque anni. Per raggiungere tale obiettivo saranno chiesti nuovi pesanti sacrifici ai lavoratori e alla middle-class irlandese.
Una prospettiva che minaccia l’esplosione del conflitto sociale in un paese dove, ad esempio, la disoccupazione è salita dal 4,2 per cento del 2005 al 13,8 per cento attuale. Il ruolo dei Laburisti, legati a doppio filo con i sindacati ufficiali, diventerà perciò fondamentale per far digerire agli strati più penalizzati della popolazione le devastanti misure che già si annunciano a breve.
Lo scenario che attende l’Irlanda è dunque quello che già si sta profilando anche per altri paesi in Europa e altrove. Anche nella ormai ex Tigre Celtica a scatenare la crisi fu l’esplosione di una colossale bolla immobiliare speculativa nel 2008. La decisione del governo Cowen di salvare i profitti delle banche coinvolte aprì una voragine nei bilanci pubblici, per ripianare la quale si è messa in atto una drastica riduzione della spesa pubblica.
Anche con queste misure, in ogni caso, sono in pochi a scommettere sull’effettiva capacità dell’Irlanda di ripagare il proprio debito con le istituzioni che ora dettano, di fatto, la politica economica di Dublino (EU e IMF). Con la ripresa delle emigrazioni di massa e una popolazione sempre più impoverita, l’economia irlandese continua infatti a contrarsi. Per questo, anche se la coalizione Fine Gael-Labour ha conquistato una chiara affermazione elettorale, la strada verso la guarigione dell’Irlanda si presenta ancora tutta in salita.
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di Carlo Musilli
La campanella che ha svegliato l'Onu dal suo sonno diplomatico, stavolta, si chiama Barack Obama. Con una presa di posizione fra le più dure del suo mandato, il presidente degli Stati Uniti ha firmato venerdì scorso una serie di sanzioni contro la Libia, aggiungendo poi che Gheddafi "se ne deve andare ora, per il bene del suo Paese", avendo "perso ogni credibilità e legittimità a governare".
Dopo l'intervento americano è finalmente arrivato l'accordo anche fra i quindici membri del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che, in linea con l'Unione Europea, ieri notte hanno approvato la risoluzione contro il regime libico. I 192 paesi che fanno parte delle Nazioni Unite dovranno imporre un embargo sulle forniture di armi verso Tripoli e congelare i beni del Colonnello e dei suoi familiari, a cui si impedirà anche di viaggiare nell'Unione Europea. Il documento prevede sanzioni specifiche contro Gheddafi, otto dei suoi figli, due cugini implicati nel massacro dei dissidenti e altri undici esponenti del regime. Fra questi figurano il capo delle Forze Armate, il ministro della Difesa e il capo dell'antiterrorismo.
La risoluzione contiene inoltre il deferimento del rais alla Corte penale internazionale dell'Aja, competente in tema di crimini di guerra e contro l'umanità. Proprio questo è stato il nodo più difficile da sciogliere, a quanto pare, a causa della Cina, membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu con potere di veto. Anche a Pechino c'è un regime che, com'è ovvio, non vede di buon occhio il Tribunale dell'Aja. Per questo pare che i cinesi, pur non discutendo nella sostanza il contenuto delle sanzioni alla Libia, abbiano chiesto di sfumare il riferimento al possibile intervento della Corte internazionale. Nel Palazzo di Vetro si è seriamente temuto che il gigante asiatico si mettesse di traverso, ma alla fine lo scoglio è stato superato e il voto è stato unanime.
Eppure, una voce contraria alla risoluzione c'è stata. Secondo il primo ministro turco Erdogan, l'Occidente si sta muovendo solo per "calcolo", in funzione del petrolio, e il provvedimento non farà altro che aggravare la situazione del popolo libico. Se si fosse limitato alla questione umanitaria, forse, avrebbe suscitato maggiore attenzione. Ma Erdogan se l'è presa con l'"Occidente" e per questo può facilmente essere liquidato come un leader incauto, che ragiona in ottica islamica.
Il premier turco ha però sicuramente ragione quando sostiene che "non si può assicurare la pace nel mondo ricorrendo sempre e solo a sanzioni". Non tanto perché queste non siano giustificate, ma perché ormai è tardi. In questi ultimi anni i governi di mezzo mondo si sono macchiati di connivenze e collaborazioni con il regime di Gheddafi. Le misure adottate oggi non possono farcelo dimenticare, risolvendo un decennio di ingloriosa diplomazia in un manicheismo da quattro soldi. Non può bastare così poco per scaricarsi la coscienza e ripulirsi l'immagine.
Anche perché, in effetti, le sanzioni non avranno alcun effetto su quello che in Libia sta accadendo. Per un inspiegabile senso del pudore, o forse per semplice pedanteria semantica, in molti si rifiutano ancora di chiamarla col suo nome: guerra civile. In ogni caso, è evidente che nessuna delle misure decise dall'Onu favorirà materialmente la risoluzione del conflitto, almeno non in tempi brevi. Per questo, come indicato dall'ambasciatrice degli Stati Uniti, Susan Rice, il documento emanato fa riferimento anche all'articolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, che "non esclude un intervento internazionale se necessario".
Ma che genere d'intervento? Sul fronte militare, piuttosto che ad un'operazione di sbarco vecchia maniera, si è parlato nei giorni scorsi della creazione di una "no fly zone" sulla Libia. Un provvedimento che però andrebbe prima approvato dall'Onu, poi messo in pratica dalla Nato. Ecco spiegato uno dei cambiamenti più significativi nel passaggio dalla bozza alla risoluzione vera e propria: la frase che faceva riferimento all'uso di "tutte le misure necessarie" si è addolcita, limitandosi ad affermare una generica "cooperazione per facilitare e sostenere" l'ingresso degli aiuti umanitari. Meglio non rischiare altre brutte figure.
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di mazzetta
I militari americani e le aziende che li riforniscono del necessario hanno seri problemi nel mantenere i loro budget ai livelli stratosferici raggiunti durante l'amministrazione Bush. La realtà sul campo rende evidente che gli Stati Uniti non hanno bisogno di grandi e sofisticati sistemi d'arma in teatri come l'Iraq o l'Afghanistan, dove i militari si sono innamorati dei droni che hanno il terribile difetto di costare poco in confronto a un moderno aereo multiruolo o a navi che sembrano uscite dai fumetti.
Molti sistemi d'arma possono essere giustificati solo con la presenza di una minaccia bellico-tecnologica adeguata e quella “islamica” proprio non è sufficiente a giustificare le spese stellari in certi casi. I paesi islamici più dotati militarmente hanno armi fornite dagli USA e il povero Iran è del tutto privo di aviazione militare e di una marina da guerra minimamente credibile, quanto le sue sopravvalutate capacità missilistiche non riescono a giustificare la costruzione di uno scudo che protegga l'Europa da vettori persiani.
Non si possono giustificare gli investimenti in aerei da combattimento quando la supremazia aerea è già incontrastata e nulla, nemmeno nell'orizzonte di decenni, sembra insidiarla. Non si possono chiedere navi fantascientifiche quando già non esistono marine da guerra capaci di mettere indubbio il dominio assoluto di tutti i mari. Le marine da guerra più capaci hanno qualche decina di navi da guerra, gli Stati Uniti ne possiedono centinaia, tra le quali le più grandi e le più potenti di ogni classe.
Così non resta che la minaccia cinese. E se i cinesi non sono militarmente credibili per il ruolo, si può sempre contare sulla diffusa percezione del grande avanzamento e della grande espansione commerciale della Cina tra le opinioni pubbliche occidentali e collegarla a un'analoga volontà d'espansione militare. La costruzione della “minaccia cinese” intesa come minaccia commerciale, del tutto simile alla vecchia “minaccia giapponese” degli anni '80 che ci avvertiva che i giapponesi ci avrebbero comprati tutti, è già in marcia da tempo.
Un esempio di quest’approccio si ritrova nella ricorrente accusa di voler colonizzare l'Africa, scaturita dal grande successo dei cinesi nel continente, ma del tutto priva di fondamento visto che i cinesi non mandano soldati in Africa e non sembrano ingerire negli affari dei terrificanti governi africani, per lo più al potere con il sostegno di quelli occidentali di riferimento.
I cinesi investono poco in armi, il loro budget aumenta nel tempo, ma sono inferiori a quelle dell'India e rappresentano solo una frazione della spesa corrente americana; qualche decina di miliardi di dollari all'anno contro le centinaia degli statunitensi, al netto delle spese per le guerre in corso.
I cinesi tra un po' avranno la loro prima portaerei, a gasolio. Inutile dire che non è paragonabile a quelle americane a propulsione nucleare, così come i “moderni” sottomarini a gasolio che hanno comprato dalla Germania hanno poco a che fare con i mostri atomici degli americani o dei russi. I russi, con i quali è tramontata qualsiasi ipotesi di confronto militare, sono ancora l'avversario più dotato, ma molto più lontano di un tempo dalle dotazioni americane.
I russi vendono ai cinesi aerei e motori già vecchi in confronto a quelli americani, i cinesi ci lavorano su e appena presentano un aereo modesto che entrerà in produzione tra qualche anno, ne parlano tutti i giornali del mondo. L'aviazione cinese ha le sue armi più terribili negli aerei russi, ma manca ad esempio della capacità di agire a lungo raggio perché non ha mezzi per il rifornimento in volo e negli ultimi anni non ha comprato dai russi a causa di un contenzioso su una vecchia fornitura che i cinesi hanno contestato.
Anche il lancio di un missile cinese contro un satellite ha destato grande scalpore, ma poi sono gli stessi americani a dire che una cosa è colpire un bersaglio fermo e un'altra un satellite che può essere spostato senza troppi patemi in caso d'attacco. Pare che lo stato dell'arte non lo consenta nemmeno agli americani.
Ma tutto ciò importa poco; a Washington giungono di continuo rapporti che raccontano del timore dei cari alleati alla vista dell'aumento delle spese militari cinesi e vanno ad auto-alimentare un circuito poco virtuoso destinato a tener desta l'attenzione anche di questi fantastici stati-cliente ai quali gli Stati Uniti vendono di tutto. Giappone, Corea, India, Australia, Indonesia e altri fino al Pakistan sono armati dagli USA per “contenere” la Cina, circondandola con armi che per i cinesi sono ancora fantascienza.
Purtroppo per i volenterosi lobbysti e per i generali che poi entreranno nei consigli di amministrazione delle aziende che li pagano, c'è la crisi. Sono finiti i tempi nei quali Bush, in nome della guerra santa, poteva spendere quel che voleva e provare persino la grande truffa dell'ombrello antimissile. Nemmeno con la minaccia cinese riescono però a mantenere i vecchi livelli di spesa, ma forse è già un successo il riuscire a limitare un'inversione di tendenza inevitabile quanto per ora modesta.
Senza neppure la minaccia cinese gli americani potrebbero permettersi, per qualche anno almeno, di non spendere un dollaro in molti sistemi d'arma, senza alcun indebolimento della loro supremazia militare su ogni teatro.
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di Michele Paris
Il moribondo movimento sindacale degli Stati Uniti ha visto negli ultimi giorni un improvviso risveglio, in seguito ad una serie di manifestazioni contro gli attacchi ai diritti e agli stipendi degli impiegati pubblici che dal Wisconsin si stanno rapidamente espandendo ad altri stati americani. Il motivo scatenante la protesta è la legge di bilancio presentata dal governatore repubblicano Scott Walker, deciso ad ottenere dai dipendenti dello stato le stesse concessioni a cui i lavoratori del settore privato hanno dovuto acconsentire per pagare le conseguenze di una crisi che nessuno di loro ha contribuito a provocare.
Praticamente tutti gli stati americani si trovano oggi a dover fare i conti con enormi deficit di bilancio che già hanno portato all’adozione di drastiche misure per ridurre la spesa pubblica, con gravi conseguenze come la chiusura di scuole e ospedali, la soppressione di programmi di assistenza sociale e licenziamenti di massa. Se pure il Wisconsin non presenta una situazione dei propri conti così drammatica come quella di altri stati - come California, Illinois o New York - il neo-governatore Walker si è dimostrato pronto a tutto per chiudere a suo modo un buco di circa 3,6 miliardi di dollari previsto per il prossimo biennio.
Le misure in attesa di approvazione prevedono, tra l’altro, un maggiore contributo da parte dei dipendenti pubblici ai loro piani sanitari e previdenziali. Un incremento che andrebbe ad intaccare direttamente le buste paga, concretizzandosi in una riduzione effettiva di circa il venti per cento dello stipendio netto, il tutto a fronte dei sacrifici già richiesti più volte negli ultimi due anni. Inoltre, Walker e i repubblicani, che controllano entrambi i rami del parlamento locale del Wisconsin, intendono portare attacchi diretti al diritto di associazione dei lavoratori statali.
Tra le iniziative in discussione ci sono l’abolizione pressoché totale della contrattazione collettiva, tranne che sulle questioni riguardanti l’adeguamento delle retribuzioni, l’obbligatorietà di ripetere annualmente le elezioni per le rappresentanze sindacali, l’assegnazione di poteri straordinari al governatore per porre fine agli scioperi dichiarando lo stato di emergenza e la proibizione ad alcune categorie di lavoratori di aderire ai sindacati. Ciò che soprattutto preoccupa le varie sigle sindacali é però la fine della raccolta automatica dei contribuiti a loro destinati tramite le detrazioni in busta paga. Un sistema che verrebbe sostituito da contributi volontari e che, con ogni probabilità, ridurrebbe drasticamente la fonte principale delle loro entrate.
Di fronte a tali assalti, sono scattate proteste spontanee, con migliaia di dipendenti pubblici che hanno invaso pacificamente la sede del Congresso statale del Wisconsin, nella capitale Madison, dove tra l’altro i senatori democratici da giorni non si presentano in aula, facendo mancare il numero legale necessario al voto sui provvedimenti voluti dal governatore Walker. Le manifestazioni hanno immediatamente raccolto l’appoggio di molti lavoratori del settore privato, mentre iniziative simili sono andate in scena in stati anche molto lontani, come Maryland, Nevada, New Hampshire, Washington e West Virginia, dove la scure dei falchi del deficit si sta abbattendo allo stesso modo.
Il conflitto sociale riesploso negli Stati Uniti, in seguito al radicalizzarsi dell’offensiva della classe politica - repubblicana e democratica - contro i diritti e le condizioni di vita dei lavoratori, giunge dopo decenni di sporadiche mobilitazioni che hanno segnato il mondo lavoro in questo paese a partire almeno dalla durissima soppressione dello sciopero dei controllori di volo (PATCO) nel 1981 da parte dell’amministrazione Reagan. Uno scenario, quello americano, che ha di fatto causato il progressivo allargamento delle disuguaglianze sociali e l’impoverimento di ampi strati di lavoratori.
Se le associazioni sindacali americane possono contare oggi su un misero 6,9 per cento di aderenti nel settore privato, contro il 36 per cento a metà degli anni Cinquanta, le ragioni vanno ricercate principalmente nel loro stesso ruolo svolto per soffocare le rivendicazioni dei lavoratori e assicurare il sostegno alle condizioni imposte dal capitale. La trasformazione dei sindacati in enormi macchine burocratiche interessate quasi esclusivamente alla loro sopravvivenza, di fronte ad una classe di lavoratori che ha visto perdere a poco a poco i diritti faticosamente conquistati in decenni di lotte, spiega anche la diffusa ostilità nei loro confronti in buona parte della popolazione americana.
La difesa dei loro privilegi è apparsa in tutta evidenza proprio nel corso delle proteste del Wisconsin. I sindacati maggiormente coinvolti nella mobilitazione - il Wisconsin Education Association Council (WEAC) e la sezione locale dell’American Federation of State, County and Municipal Employee (AFSCME) - dopo aver chiesto lo scorso fine settimana ai propri affiliati di interrompere le manifestazioni di protesta, hanno fatto intendere chiaramente di essere disposti a dare il via libera ai tagli agli stipendi dei lavoratori, pur di salvaguardare il diritto alla contrattazione collettiva.
Quest’ultima rivendicazione appare peraltro del tutto priva di significato, dal momento che il ruolo del sindacato nelle negoziazioni non è servito ad altro che a far accettare ogni imposizione proveniente dai vertici delle aziende, annullando le resistenze dei lavoratori stessi e trasformando la contrattazione collettiva in una farsa. Ciò sta portando alla luce una sostanziale divergenza d’interessi tra le organizzazioni sindacali e i lavoratori che dovrebbero teoricamente rappresentare. Ciononostante, è comunque evidente come sia del tutto legittima la lotta per la salvaguardia della contrattazione collettiva da parte dei dipendenti pubblici del Wisconsin, ai quali la scelta dei loro rappresentanti non può essere imposta da politici ultraconservatori.
Praticamente identica a quella della burocrazia sindacale è stata poi la reazione alle manifestazioni da parte del Partito Democratico. I democratici hanno cioè criticato l’atteggiamento anti-sindacale del governatore Walker, pur elogiando più o meno apertamente la sua volontà di ridurre il deficit statale tramite misure draconiane. L’intervento dello stesso presidente Obama - il cui recente bilancio federale non a caso prevede ugualmente una serie di pesanti tagli alla spesa pubblica - mira a difendere la posizione di privilegio dei sindacati al tavolo delle trattative con le aziende.
Una battaglia irrinunciabile per i democratici, non tanto per tutelare i lavoratori quanto per assicurare la sopravvivenza di organizzazioni sindacali che rappresentano fonti di finanziamento importanti durante le campagne elettorali e che svolgono un ruolo fondamentale nel reprimere le rivendicazioni dei lavoratori, così da poter perseguire quasi senza opposizione politiche che beneficiano unicamente i grandi interessi economici e finanziari del paese.
Per raggiungere il proprio scopo, Partito Democratico e sindacati intendono perciò convincere i repubblicani del Wisconsin ad abbandonare i provvedimenti relativi allo smantellamento della contrattazione collettiva, in modo da far passare per una vittoria dei lavoratori un compromesso che preveda “soltanto” un taglio pari a non meno di un quinto delle loro retribuzioni.
La tesi principale che i politici di entrambi gli schieramenti e i media istituzionali cercano di promuovere è d’altra parte quella della necessità di porre fine a “privilegi” di cui godrebbero i lavoratori pubblici, causando pesanti buchi di bilancio alle casse statali. Così, il governatore del New Jersey, il repubblicano Chris Christie, nel presentare a sua volta un bilancio che prevede tagli agli stipendi per finanziare un programma di detrazioni fiscali, ha recentemente definito i lavoratori statali come una specie di “casta” che può contare su benefit e impieghi stabili, ormai una rarità nel settore privato. Come se ciò fosse realmente un privilegio e lo standard per tutti sia destinato a diventare, piuttosto, precarietà e impoverimento.
A questo gioco al ribasso, per cui tutti i lavoratori - pubblici e privati - sembrano dover diventare un’unica classe senza diritti, contribuiscono però anche i governatori democratici, come dimostrano i severi bilanci presentati, ad esempio, da Jerry Brown in California e da Andrew Cuomo nello stato di New York. In una situazione di questo genere, gli scontri e le proteste sono destinate allora a crescere ben presto in tutti gli USA. In pochi giorni, infatti, dal Wisconsin le manifestazioni e le occupazioni dei parlamenti locali si sono diffuse ai vicini Ohio e Indiana, dove sono in discussione identiche leggi di bilancio infarcite di tagli indiscriminati e gravi minacce ai diritti di tutti i lavoratori.