di Alessandro Iacuelli

E' stato uno dei più violenti terremoti della storia del Giappone, quello che ha colpito il nord ovest del Paese, 250 km circa a nord di Tokyo, causando almeno nove morti e oltre 300 feriti. Il Giappone è il Paese che ha saputo meravigliare il mondo intero per le sue costruzioni antisismiche e per il saper resistere alle scosse senza che ci fossero vittime. Stavolta non è andata così. Il terremoto ha distrutto un intero villaggio ed ha innescato un violento incendio nella centrale nucleare di Kashiwazaki Kariwa, nella provincia di Niigata. Le immagini trasmesse dalle emittenti tv mostrano una vasta colonna di fumo nero che si alza dall'impianto di Kashiwazaki Kariwa. I quattro reattori della centrale sono stati fermati. La compagnia elettrica Tepco (Tokyo electric power) ha confermato che le fiamme si sono sviluppate in un trasformatore che fornisce corrente ai reattori nucleari. L'agenzia meteorologica giapponese ha rilevato la scossa alle 10.13 ora locale (le 3.13 in Italia) del 16 luglio, avvertita anche a Tokyo. Dopo la scossa più forte, ne sono state avvertite altre di assestamento, nessuna superiore ai 5 gradi della scala Richter. L'epicentro è stato registrato in mare, ad una profondità di 10 chilometri, al largo di Niigata, sull'isola di Honshu, a non molta distanza dalla centrale nucleare in fiamme.

di Bianca Cerri

Il 1967, generalmente associato all’estate dell’amore, fu anche l’anno in cui in 64 città americane la disperazione urbana sfociò in rivolta. Le comunità nere di Newark, esasperate dalle mancate promesse di uguaglianza oltre che dall’indigenza, insorsero alla notizia della morte di quattro giovani afro americani uccisi dalla polizia. Fra il 12 ed il 17 luglio 23 persone tra i 10 ed i 73 anni persero la vita e altre 725 furono ferite in modo più o meno grave. L’immagine simbolo della rivolta è una foto che ritrae la Guardia Nazionale che avanza con le baionette spianate lungo la Springfield avenue. Gli abitanti di Newark non hanno mai dimenticato quei cinque giorni in cui il sangue prese a scorrere nelle strade lasciando ferite insanabili anche nell’animo di chi non fu direttamente toccato dalla violenza. Dopo i primi scontri, era arrivata la notizia che anche un tassista di colore fermato per un sorpasso azzardato era stato picchiato a morte dalla polizia per gli afro americani era stata la classica goccia che fa traboccare il vaso.

di Fabrizio Casari

La Corte Suprema argentina ha cancellato la sentenza di amnistia verso Santiago Riveros, uno dei boia della Giunta militare argentina che tra il 1976 e il 1983 gettò il paese latinoamericano nell’orrore. Accusato di crimini contro l’umanità, l’ottantatreenne ex-generale della vergogna dovrà subire fino all’ultimo il castigo. Con quattro voti a favore, due contrari e un’astensione, i giudici della Suprema Corte argentina hanno stabilito che non c’è né ci potrà essere perdono, né per Riveros – già condannato in contumacia all’ergastolo dal Tribunale di Roma nel 2003 - né, men che mai, per Videla e Massera, i due peggiori criminali della dittatura militare argentina che si sono accucciati sotto la coperta dell’indulto per non dover rispondere dei loro crimini. Ma la vacanza è finita. Nessun indulto potrà essere chiamato a cancellare l’ignominia, l’infamia. La Corte Suprema argentina ha stabilito che non hanno più valore le leggi del perdono e della dimenticanza, promulgate nel 1986 e 1987 dal governo di Raul Alfonsin, alle quali fece poi seguito nel 1989 la concessione dell’indulto da parte del Presidente Carlos Menem. Annullata la sentenza perché le leggi che stendevano l’oblìo sui crimini non hanno più vigenza, in esecuzione di quanto disposto dal governo Kirchner che, con coraggio civile e politico, nel 2003 abrogò le leggi perdoniste verso i militari argentini che affogarono nel sangue partiti, sindacati e società civile.

di Carlo Benedetti

E’ cronaca di una fine annunciata. Con Putin che, con gli Usa, ha retto il dialogo-confronto sino all’ultimo momento e ha poi deciso di passare all’attacco sospendendo la partecipazione della Russia al Trattato sulle Forze convenzionali in Europa (Cfe). Lo ha fatto con un solenne annuncio alla nazione, ricordando agli americani un vecchio detto popolare del suo paese. E cioè che quando un orso dorme è bene non fare rumore… E di rumore la Casa Bianca (la Cia e il Pentagono) ne hanno fatto già molto battendo con forza su quello scudo spaziale che dovrebbe portare i missili di Washington nel cuore dell’Europa, in Polonia (un sito per 10 intercettori di tipo Kei) e nella Repubblica Ceca (un X-Band Radar) squilibrando la mappa e la tranquillità del continente. Così la Russia - che in questi mesi sta puntando a riconquistare un ruolo mondiale, militare e politico superando la fase post-sovietica della transizione - ha deciso di rispondere colpo su colpo. Prima ha annunciato una serie di iniziative strategiche e militari con la dislocazione di sue postazioni missilistiche in nuove zone della Russia, proponendo contemporaneamente una base comune Usa-Russia in Azerbaigjan, paese più prossimo all’Iran di quanto non sia la Repubblica Ceca. Questo con l’obiettivo di venire incontro alle “esigenze” americane. Ma poi, visto il silenzio statunitense, ha deciso di passare all’attacco.

di Ilvio Pannullo

C’è qualcosa in Italia che pare non funzioni come dovrebbe. Il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici, ha denunciato il Sismi per aver spiato le procure della Repubblica di Milano, Roma, Torino e Palermo, sorvegliando le iniziative di 47 magistrati italiani, con lo scopo di intimidirli e screditarli con azioni “anche traumatiche”. Le intercettazioni e i dossier fabbricati da Pio Pompa, stretto collaboratore del generale Pollari, hanno riguardato anche esponenti politici del centro-sinistra. Inoltre, pare – o almeno questo sostiene il CSM – che i Servizi Segreti Militari Italiani, non contenti di commettere un vero e proprio atto illecito nei confronti dell’Ordinamento Nazionale, abbiano anche spiato 156 magistrati europei, violando, così, la sovranità di paesi con cui intratteniamo costantemente rapporti politici e diplomatici. In un paese normale, dove la democrazia non è una parola con cui riempirsi la bocca, ma un preciso assetto istituzionale dotato di meccanismi di rappresentanza, con organi appositamente creati per tutelare la divisione dei poteri e garantire i diritti che unanimemente si immaginano vigenti, questo basterebbe per creare un’emergenza nazionale. I telegiornali aprirebbero ogni notiziario con gli ultimi sviluppi, le procure lavorerebbero a ritmi serrati con il pieno appoggio del potere politico e la popolazione intera vivrebbe con ansia l’evolversi della vicenda. In un altro paese, forse; in Italia certamente no.


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