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di Michele Paris
Il 14 aprile scorso il cittadino italiano di origine marocchina Abou ElKassim Britel è stato liberato da un carcere nel suo paese natale in seguito ad un provvedimento di grazia firmato dal sovrano Mohamed VI nell’ambito dei movimenti di protesta che stanno attraversando il mondo arabo. “Kassim” era in carcere da quasi otto anni, pur non avendo commesso alcun reato. Nel corso di un viaggio in Pakistan nel marzo del 2002, si era ritrovato coinvolto nell’isteria del post-11 settembre, finendo sotto custodia dei servizi segreti locali, per poi subire una “extraordinary rendition” ad opera della CIA e approdare in Marocco qualche settimana più tardi.
Nonostante la recente scarcerazione e il ritorno in Italia, le ingiustizie patite in questi anni hanno segnato profondamente Kassim e la sua famiglia. Assieme a sua moglie, Anna Khadija Pighizzini, la quale fin dall’inizio ha cercato di ottenere giustizia per il marito, abbiamo ripercorso gli eventi accaduti a Kassim prima della liberazione e che hanno sconvolto la loro vita e i loro progetti.
La vicenda di Kassim inizia nel 2001 con un viaggio che doveva includere diversi paesi islamici. Ci può raccontare come suo marito è finito nelle mani dei servizi di sicurezza pakistani?
Mio marito era partito da Bergamo nel giugno del 2001 con l’intenzione di andare alla ricerca di finanziamenti per un sito web da noi creato (web.tiscali.it/islamiqra), sul quale stavamo iniziando a pubblicare traduzioni di opere relative all’Islam non disponibili in lingua italiana. Kassim raggiunse inizialmente l’Iran e, nel momento in cui avvennero gli attentati dell’11 settembre, si trovava in Pakistan. Nel marzo del 2002, mio marito venne fermato ad un posto di blocco nella città di Lahore mentre viaggiava a bordo di un taxi. Quando gli agenti videro il passaporto italiano lo trasferirono immediatamente in una stazione di polizia. Più tardi Kassim venne trasferito presso una sede dei servizi segreti pakistani a Islamabad, dove sarebbero iniziati i pestaggi e le torture. Legato e bendato, da questa struttura venne trasportato quattro volte presso un’abitazione per essere interrogato da agenti americani. Nonostante avesse chiesto più volte di incontrare l’ambasciatore italiano fin dal giorno del suo fermo, sia i pakistani che gli americani gli negarono qualsiasi contatto con i diplomatici del nostro paese; gli dissero anzi che l’ambasciatore non voleva vederlo perché era un terrorista.
Qual’è stata la posizione ufficiale dell’ambasciata italiana in Pakistan sulla vicenda di suo marito?
L’ambasciata italiana a Islamabad ha sempre sostenuto di non avere avuto alcuna notizia della presenza di mio marito in Pakistan. Tuttavia, gli agenti USA avevano interrogato Kassim su molti episodi della sua vita in Italia, mostrando di conoscere precisi dettagli, sui quali solo gli italiani potevano aver messo al corrente gli americani.
Dopo quanto tempo suo marito è stato vittima di “extraordinary rendition” verso il Marocco?
Poco più di due mesi dopo il fermo, il 24 maggio 2002, mio marito fu consegnato agli agenti della CIA che lo misero su un aereo per il Marocco. A Rabat gli americani lo consegnarono a loro volta ai servizi segreti marocchini [DST] che lo trasferirono presso la loro sede di Témara.
Per quanto tempo lei e la famiglia di Kassim siete rimasti all’oscuro della sua sorte?
Per ben undici mesi non ho avuto notizie di mio marito, dal 10 marzo 2002 all’11 febbraio 2003, quando è stato liberato in Marocco. Le autorità marocchine non avevano infatti comunicato alcuna informazione né a me né alla sua famiglia. Io mi ero mossa per cercare Kassim ma non avevo alcun indizio. Per quanto ne sapevo doveva essere ancora in Pakistan. L’11 febbraio successivo, senza nessuna accusa formale a suo carico, Kassim venne liberato e portato presso l’abitazione della madre. Appena lo rilasciarono, partii per il Marocco dove lo rividi dopo venti mesi.
Qualche mese dopo il rilascio, nel maggio del 2003, Kassim venne fermato alla frontiera mentre cercava di rientrare il Italia. Ci può raccontare come avvenne questo secondo arresto?
Dopo che l’ambasciata italiana a Rabat, nonostante la nostra insistenza, si era rifiutata di fornirci un accompagnatore fino all’imbarco del volo per l’Italia, Kassim decise di passare la frontiera da solo via terra, a Melilla. Ripensandoci in seguito, fu un errore lasciare che Kassim partisse da solo. In quel momento, tuttavia, non eravamo in grado di comprendere la gravità della situazione, anche perché i famosi attentati suicidi di Casablanca - che scatenarono il panico in Marocco e un’ondata di arresti - sarebbero stati compiuti proprio la sera successiva all’arresto di mio marito. Kassim rimase tre giorni nei pressi della frontiera per cercare di capire se lo avrebbero lasciato uscire dal paese. Il penultimo giorno mi disse che aveva conosciuto qualcuno che forse lo avrebbe aiutato a lasciare il Marocco. Il 16 maggio 2003, così, si presentò alla frontiera ma la persona che aveva sostenuto di volerlo aiutare, finì per consegnarlo alle autorità. Dopo sei ore in stato di fermo presso la polizia di frontiera, giunse un’auto dei servizi di sicurezza che lo trasportò di nuovo a Témara, dove era stato rinchiuso segretamente fino al febbraio precedente.
Qualche mese dopo l’arresto si tenne il processo di primo grado. Ci può descrivere come si svolse il dibattimento?
Il processo di primo grado si svolse in un solo giorno nell’ottobre 2003, dopo che per quattro mesi avevo chiesto senza successo alle autorità marocchine di conoscere la sorte di mio marito. Gli interrogatori furono molto brevi con domande che riguardavano più che altro le generalità degli imputati. Il nostro difensore aveva presentato alcuni documenti a discarico di Kassim, ma i tre giudici li sfogliarono rapidamente per poi metterli da parte e respingerli. La pubblica accusa si limitò a dire che la confessione firmata da mio marito era compatibile con le accuse che gli venivano mosse.
Qual’era il contenuto della dichiarazione che fu fatta firmare a Kassim?
La dichiarazione di colpevolezza gli fu fatta firmare, senza poterla nemmeno leggere, ben prima del secondo arresto, cioè durante la prima detenzione segreta seguita alla “rendition” dal Pakistan. Con essa, sostanzialmente, Kassim si auto-accusava di aver partecipato a riunioni non autorizzate e di aver fatto parte di un’associazione sovversiva nell’ambito di un progetto eversivo contro lo stato.
Si tratta di un’imputazione standard che viene formulata per i cosiddetti “islamisti” e per gli altri detenuti politici dopo che gli è stata fatta firmare una confessione sotto costrizione. Tengo a ricordare che la confessione imposta a mio marito non aveva però nulla a che vedere con gli attentati di Casablanca del maggio 2003.
Tornando al processo di primo grado, quale fu la sentenza per Kassim?
Gli furono dati quindici anni, anche se non c’era nulla di concreto contro Kassim. Mio marito non metteva piede in Marocco da sette anni - prima che ce lo avessero portato gli americani - quindi come poteva aver fatto parte di un’associazione sovversiva? Nel corso del processo, inoltre, non fu mai fatto il nome dell’organizzazione di cui Kassim era accusato di aver fatto parte. Al processo d’appello, il 7 gennaio 2004, la pena per Kassim è stata ridotta a nove anni. Il nostro ricorso presso la Corte Suprema marocchina venne invece respinto il 27 ottobre di quello stesso anno.
Quale risposta aveva avuto dai governi italiani al caso di suo marito?
Tutti i governi italiani succedutisi in questi anni non hanno fatto nulla di concreto per il nostro caso. Ciò è molto grave, perché le pressioni per la liberazione dei detenuti ingiustamente accusati di terrorismo avevano portato a risultati positivi in molte occasioni. Basti pensare alla Gran Bretagna, che ha ottenuto la liberazione di tutti i propri cittadini rinchiusi a Guantanamo dopo aver insistito con il governo americano. Qualche forza politica si era interessata al caso senza però trovare un seguito significativo. Anche a livello locale, poi, hanno prevalso l’indifferenza e l’ostilità. Il governo italiano ha tenuto questo atteggiamento anche nei confronti della Commissione del Parlamento europeo che ha indagato sui voli speciali della CIA, quando nel suo rapporto finale chiese al nostro paese di “fare passi concreti per la liberazione del cittadino italiano Britel”.
Su Kassim ha indagato anche la giustizia italiana. Come si è chiusa l’inchiesta durata sei anni?
L’inchiesta su mio marito in Italia è stata chiusa definitivamente solo in seguito all’iniziativa del Parlamento europeo. L’archiviazione dell’indagine giunse nell’ottobre del 2006, nemmeno in tempo per poter presentare gli atti all’audizione del Parlamento europeo a cui avevamo partecipato nel mese di settembre. Dalle carte è emerso chiaramente che le autorità italiane sono sempre state al corrente della sorte di Kassim e, di fatto, sono state complici di ciò che gli è successo.
Cosa è emerso dalla lettura delle carte dell’inchiesta?
Secondo quanto scrisse la DIGOS basandosi sui tabulati delle intercettazioni telefoniche iniziate nel febbraio 2001, un cittadino tunisino legato agli ambienti integralisti islamici avrebbe soggiornato nel bergamasco nel novembre del 2000. In questo periodo, costui sarebbe entrato in contatto con cittadini stranieri residenti in Italia, tra cui mio marito. La DIGOS scrisse negli atti d’indagine che nonostante dai tabulati non risultavano “relazioni telefoniche di apparente interesse”, Kassim veniva considerato a capo di una cellula terroristica locale e solo la sua “scaltrezza” gli aveva permesso di “eludere gli accertamenti da parte delle forze dell'ordine”. Ugualmente sconcertanti furono i documenti relativi al 2003. Il giorno precedente al rilascio di Kassim dal carcere di Témara, avvenuto il 10 febbraio 2003, la DIGOS scrisse al magistrato che mio marito era “a disposizione delle autorità estere” e che a partire dall’11 febbraio avrebbe potuto tornare a casa. Il suo possibile ritorno in Italia, si voleva mettere in guardia, avrebbe potuto “costituire occasione per se e i suoi familiari di generare una serie di contatti telefonici con possibili soggetti legati ad ambienti del terrorismo islamico radicati in Italia”. Ciò dimostra come la Polizia italiana sapeva dove si trovava Kassim dopo la “rendition” dal Pakistan, mentre la sua famiglia non aveva alcuna notizia e cercava di conoscere la sua sorte. Tutto questo, a mio parere, prova la complicità delle autorità italiane.
Kassim aveva mai avuto problemi con la Polizia italiana prima della sua partenza nel 2001?
Nessuno. Mio marito era ed è incensurato, anche se già allora era stato aperto un fascicolo su di lui a nostra insaputa.
C’erano stati contatti di qualsiasi genere con persone successivamente sospettate di essere affiliate a cellule terroristiche?
No. Nelle carte della Polizia, l’indagine venne giustificata da un contatto con una persona che conoscevamo e che frequentava la moschea, il quale aveva avuto una conversazione telefonica con un terzo uomo, a sua volta in contatto con un condannato dalla giustizia italiana. Questo era in sostanza il legame che collegava Kassim ai presunti terroristi.
Come spiega il comportamento tenuto dell’Italia nel caso di suo marito?
La vicenda di Kassim era stata strumentalizzata inizialmente per tenere alto l’allarme terrorismo. Successivamente - come dimostra il fatto che ci è stato rifiutato ogni aiuto - far tornare in Italia Kassim avrebbe significato portare all’attenzione dell’opinione pubblica la questione delle “rendition” e le responsabilità italiane, tanto più che l’indagine della Polizia non aveva indicato alcuna responsabilità da parte di mio marito. Non bisogna poi dimenticare che, in quanto musulmano, Kassim non viene considerato un cittadino italiano con pieni diritti come gli altri. Il peso della politica estera italiana, infine, è ormai irrilevante e si risolve in una totale sudditanza verso gli Stati Uniti.
Come l’hanno cambiata i fatti accaduti a suo marito?
La sofferenza di questi anni - mia, di mio marito e delle nostre famiglie - resta un fatto intimo. Questa esperienza mi ha comunque segnata profondamente. Come tutti, sono cresciuta credendo di vivere in un paese democratico, nel quale i diritti civili sono garantiti a tutti i cittadini. La mia convinzione era quella di godere veramente di questi diritti, ma mi sono resa conto che le cose non stanno in questo modo. Oggi io e mio marito ci sentiamo cittadini di serie B, senza diritti. Entrambi abbiamo faticato a credere che l’Italia fosse implicata nei fatti accaduti a Kassim, ma l’evidenza era tale da spazzare via ogni dubbio. In definitiva, dopo tutto quello che è successo, oggi sono molto più disincantata verso le istituzioni rispetto a dieci anni fa.
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di Mariavittoria Orsolato
Precarietà, cassa integrazione, ma soprattutto mancanza generalizzata di diritti e tanti, troppi doveri: per questo tanti hanno scioperato ieri. La giornata di mobilitazione generale indetta quattro mesi fa dalla Cgil, la prima per la segretaria Susanna Camusso, non ha avuto il classico mega-corteo romano ma ha voluto organizzare cortei in diverse regioni italiane per sottolineare la generalità della crisi e, forse, per sfuggire all’eterno balletto delle cifre.
Una querelle che però è immancabile e che nelle affermazioni divide gli stessi sindacati. Secondo la CGIL, l'adesione allo sciopero generale indetto dal sindacato per protestare contro la politica economica e occupazionale del governo è stata del 58%, per il presidente di Federmeccanica, Pier Luigi Ceccardi "la partecipazione dei lavoratori metalmeccanici allo sciopero generale risulta in media pari a circa il 16%”.
Cifre, numeri e percentuali che però perdono inevitabilmente di vista la valenza sociale - e anche politica - di quella che avrebbe dovuto essere una giornata di mobilitazione generale ma che, non essendo stata pubblicizzata a dovere, anche a causa degli stessi organizzatori, non ha forse raggiunto le quote sperate. Dai dipendenti delle cooperative sociali al popolo delle partite IVA - spesso dipendenti a tutti gli effetti - passando per i lavoratori stranieri, totalmente esclusi dal welfare e ai pensionati che protestano contro pensioni da fame. A migliaia sono scesi in piazza, affiancati come sempre da studenti e lavoratori della scuola pubblica alla disperata ricerca di tutele, per tentare di dare un segnale forte ad un governo sempre più sul punto dell’implosione.
Impatanato nei processi del premier e oberato dalle richieste dei sedicenti “responsabili”, il governo ha cristallizzato la politica economica sui tagli finendo per sclerotizzare gli affanni di quella che fu la classe media. Quella che ha la casa di proprietà, che per le ferie si fa sempre un viaggio e che vizia i suoi figli: quella fetta di società è in via di estinzione nonostante dagli anni ’60 abbia costituito la vera base produttiva dell’Italia e nessuno sembra accorgersene. L’austerità imposta dall’esecutivo non trova riscontro nei portafogli di chi quest’austerità l’ha imposta e la guerra ingaggiata contro la Libia è l’ennesimo sacrificio non richiesto. Ma i governanti liquidano la giornata così: “Una protesta per allungare il weekend - ha chiosato il ministro della Funzione Pubblica Renato Brunetta - la scarsissima adesione dei dipendenti pubblici allo sciopero certifica il fallimento di un'iniziativa di cui non si capiscono gli obiettivi e della quale i cittadini non sentivano certo l'esigenza".
Brunetta di certo non ha il polso del paese e la gente è sicuramente al colmo: i più sfortunati preda di situazioni limite, come alcuni lavoratori delle Assicurazioni Generali che con il contratto Ania a tempo indeterminato, avvallato paradossalmente dalla stessa Cgil, non riescono a portare a casa più di 500 euro al mese per otto ore di lavoro al giorno. Anche i sindacati hanno infatti di che fare un esame di coscienza. Con un paragone azzardato, potremmo affermare che la Cgil sta ai sindacati come la Lega sta alla maggioranza: entrambe sono in grado di spostare numeri importanti e l’impressione è che ieri forse si sarebbe potuto fare di più.
Il giorno prima dello sciopero la segretaria Camusso si è schierata apertamente con la Rsu contro la Fiom sulla vicenda dell’ex Bertone - dove il si ha vinto più per i sei anni di cassa integrazione che per altro - e il suo intervento ha finito per avviare la giornata di ieri su una querelle in contrasto con lo spirito della mobilitazione generale.
Anche le richieste ufficiali del maggiore sindacato italiano sono state in fondo assai generiche. La piattaforma rivendicativa dello sciopero si è occupata di alcune cose certamente importanti ma che lasciano intatto ed irrisolto il focus della protesta di chi è sceso in piazza. Si chiedono investimenti e un piano di sviluppo industriale, l'attuazione dei referendum e un piano energetico nazionale, si parla dell’emigrazione e dei conti pubblici dello Stato. Si chiede l'imposizione di una patrimoniale sul 5% dei contribuenti più ricchi del Paese che darebbe 18 miliardi di euro da impiegare utilmente a sostegno della occupazione.
Richieste nobili, per carità, ma lontane anni luce dalle problematiche che affliggono porzioni sempre più ampie dello strato sociale, problematiche che necessitano un aumento generalizzato dei salari con l’introduzione di un salario minimo garantito - come avviene ad esempio in Germania - l’abrogazione della legge Biagi e il conseguente ridimensionamento della precarietà, nonché un drastico ripensamento del sistema di previdenza sociale. Questo è quello che chiedono i lavoratori e queste le rivendicazioni che il sindacato che li deve rappresentare dovrebbe portare avanti. Lo scollamento delle cosiddette istituzioni dalla cittadinanza rischia il punto di non ritorno.
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di Rosa Ana De Santis
La polemica tra Berlusconi contro i giudici non ha risparmiato nemmeno una legge tanto delicata come quella sulla fine della vita. Il pallido spirito liberale al quale il premier dichiara d’ispirarsi, ricorda che su una questione tanto intima ed esistenziale la mano dello Stato non sarebbe dovuta entrare, non fosse stato per il travalicare delle competenze dei tribunali sul Parlamento.
Questa la ricostruzione, evidentemente tendenziosa, con la quale il Presidente del Consiglio si rifà alla vicenda Englaro. Il fatto che questa ragazza versasse in uno stato vegetativo da 17 anni contro ogni sua volontà, a causa di un vuoto normativo, è un dato che passa sotto silenzio, cui la politica e questo governo in modo particolare proprio non vogliono riconoscere alcuna responsabilità.
La Camera ha approvato l’inversione dell’ordine del giorno per passare, notte tempo, all’esame del disegno di legge sul biotestamento. L’Udc non vedeva l’ora, mentre il Pd non ce l’ha fatta a far passare le due pregiudiziali costituzionali. La corsa al voto è comunque finita presto, perché il dibattito è stato sospeso per passare ad altro. L’annuncio di Berlusconi era pertanto un solito spot anti-tribunali che diventa ancora più disgustoso se utilizzato su un tema bioetico di così rilevante problematicità.
Il dibattito riprenderà dopo le amministrative e Cicchitto ha ribadito che non c’è alcuna volontà di forzare l’iter previsto, ma solo di dare una chiara direttrice alla legge che, secondo la maggioranza, così come è sarebbe sufficientemente trasversale. Questo almeno recita la letterina di Berlusconi inviata ai parlamentari della sua coalizione. Li invita a ricordare il valore della libertà su cui nasce la loro militanza politica e subito dopo a votare questa legge, che incarnerebbe un’altissima sintesi delle differenze di fede e di sensibilità.
Ma Berlusconi lo sa che questa legge impedisce e vieta, pena sanzioni, di interrompere uno stato vegetativo come quello di Eluana? Lo sa che questa idea della vita garantita per legge dallo Stato nasce da un’ispirazione che è tutt’altro che liberale e che è figlia di un approccio cristiano-creazionistico all’esistenza? E’ proprio lui a mettere in antitesi la libertà e la vita a favore della seconda, investendo lo Stato di una funzione etico-educativa.
Ma quale tradizione liberale è quella che assegna allo Stato questo ruolo invasivo nella vita dei cittadini? Eppure questo rigido liberalismo di costume viene invocato quando Berlusconi deve difendere la libertà di fare ciò che vuole nel proprio letto con prostitute, anche se minorenni. Allora bisogna decidersi. O Berlusconi si rifà a un ignoto liberalismo ad alternanza o semplicemente e strumentalmente il liberalismo vale solo per la casa del premier e non per quella dei normali cittadini.
Lo Stato etico che impedisce le coppie di fatto, le unioni tra omosessuali, la diagnosi pre-impianto di un embrione, la libertà di decidere come morire per chi non vuole essere un solo giorno una persona priva di coscienza alimentata a forza, sparisce quando deve comminare sanzioni, anche solo di riprovazione morale, ad un capo del governo che si circonda di prostitute al limite della maggiore età, che le utilizza per giochi erotici perversi e di gruppo e che le stipendia (anche, in alcuni casi, con i soldi dei contribuenti).
E’ per questo che vorremmo sentire il solito tuono di condanna della CEI. E’ qui che la Chiesa, quella che timidamente prendeva le distanze da questo signore della lussuria, dovrebbe fare il controcanto allo spot della vita cavalcato da una polemica elettorale anti-pm. La lezione sulla vita e sulla morale non può venire dallo stesso uomo. Il Pd non ci sta, ma conta da sempre le proprie defezioni. Quelle dei cattolici che proprio non ce la fanno a pensare una legge aconfessionale e liberale.
L’opposizione rimane quindi dentro al conflitto delle posizioni anche perché non ha, è ormai evidente, il cinismo del capo di governo che, sapendo di essere alla guida di un partito laico e assolutamente indifferente alle posizioni cattoliche (ma sensibilizzimo al ricatto incrociato con il Vaticano) decide di usare l’unica carta vincente che ha. Quella di trasformare la legge sul biotestamento in un altro braccio di ferro con i giudici e i tribunali. E’ così che vincerà. E’ rimasto solo Casini a crederci con il rosario in mano.
I malati terminali continueranno a morire come muoiono oggi, ciascuno come vuole e come ha scelto, anche con un testamento affidato ai sentimenti e alle relazioni dei propri cari. I ricchi continueranno a farlo meglio e nelle migliori cliniche. I poveri nelle case o nelle corsie con quel po’ di terapie del dolore che gli saranno concesse. Gli intrappolati come Eluana con qualche medico compiacente. E ancora una volta di questa legge liberticida rimarrà uno spauracchio vuoto di cui non sapremo che farci. Un po’ come la legge 40 e le emigrazioni di tante coppie verso la Spagna o l’Inghilterra.
Ci ricorderemo del biotestamento solo quando arriverà quel giorno in cui ad un comune cittadino sarà impedito quell’atto di pietà che dopo 17 anni è arrivato per Eluana. Quando un genitore, un marito, un figlio e un medico si ritroveranno sul banco degli imputati per aver rispettato la libertà di conoscenza di un proprio caro e per non aver avuto i mezzi di farlo di nascosto in qualche clinica oltre confine.
Perché lo Stato etico di questo governo si fonda sulle dichiarazioni dei redditi e si ferma ad Arcore. Berlusconi questo lo sa e lo dichiara persino. Usando un argomento elettorale per difendere una legge etica e ingannando i fedeli elettori con una scenografica pacca sulle spalle ai prelati.
Il Paese sarà democraticamente cattolico e monarchicamente liberale. E sarà vietata per legge l’umana pietà. Una mirabile operazione di marketing per le prossime elezioni, che ancora una volta pagheremo tutti. Questa volta non con le tasse, ma con la nostra vita.
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di Mariavittoria Orsolato
Massimo Ciancimino, rampollo del fu sindaco mafioso di Palermo don Vito, è stato arrestato dagli agenti della Dia lo scorso giovedì con l’accusa di calunnia aggravata ai danni dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Il super teste della presunta trattativa tra Stato e mafia si stava recando in Francia, presumibilmente per il ponte pasquale, ma la vacanza è terminata nel carcere di Parma, a poche celle di distanza da quelle dei boss Bernardo Provenzano e Filippo Graviano.
Stando a quanto affermano il pm Ingroia e i sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido, Ciancimino jr avrebbe falsificato un documento autografo del padre, aggiungendo di suo pugno il nome del direttore del Dis (dipartimento per le informazioni di sicurezza) accanto ai nomi di alcuni personaggi delle istituzioni che avrebbero avuto un ruolo nell’ormai nota trattativa.
Ad aggravare la posizione di Ciancimino, venerdì si è aggiunta la notizia del ritrovamento nella sua abitazione palermitana di tre candelotti di tritolo collegati a due detonatori attraverso altrettanti cavi. Ad informare gli inquirenti sarebbe stato lo stesso Massimo durante il primo interrogatorio nel carcere parmigiano: “Qualcuno - ha detto ai pm - nei giorni scorsi ha citofonato a casa mia e mi ha detto: c’e’ una cosa per lei che questa volta potrà aprire, la prossima volta forse no’’.
Lui si è spaventato, ha aspettato un po’ di tempo, poi è uscito e ha trovato un pacco nel portone. Non sapendo che fare, l’ha bagnato con il tubo per innaffiare e, siccome non voleva farlo vedere alla moglie per non farla preoccupare, l’ha lasciato nel suo giardino. L’omissione sarebbe quindi stata dettata dalla paura, ma il fatto che in passato Ciancimino fosse sempre stato prontissimo a denunciare qualsivoglia atto intimidatorio, adombra di ragionevoli dubbi una versione che sembra comunque far acqua da tutte le parti.
Un durissimo colpo per l’attendibilità di quello che è considerato uno dei pochi mortali a conoscenza di come andarono realmente le cose in quella sanguinosa estate del 1992. Manna dal cielo per il partito dell’amore, che da tempo accusa Ciancimino di essere solo una delle pedine dell’odiatissima magistratura nonché il santo laico della stampa sinistrorsa, Santoro in primis. Così se da un parte Maurizio Gasparri minaccia di presentare esposti contro la Rai e il giornalista “perché è stato permesso a Ciancimino di usare la Rai per i suoi scopi oscuri e avere un alone di impunità”, dall’altra le testate vicine a Berlusconi spendono fiumi d’inchiostro per dimostrare l’astio e la malafede di quello che a tutti gli effetti è soprattutto un collaboratore di giustizia.
A questo proposito anche la magistratura comincia ad avanzare i suoi dubbi e per la prima volta il pm di Palermo Ingroia ammette la possibilità che dietro al figlio dell’ex sindaco di Palermo possa effettivamente esserci un “puparo”. Un abile regista che manovrerebbe le testimonianze a proprio piacimento e che dunque Ciancimino si presterebbe a proteggere, non si sa a quale titolo. “È chiaro - precisa subito Ingroia - che una dichiarazione per calunnia non è acqua fresca. La credibilità di Ciancimino è minata, ma è anche vero che ci sono sue dichiarazioni che stanno in piedi a prescindere dalla sua attendibilità generica, perché riscontrate da elementi specifici”.
Sta di fatto che a seguito di questo arresto, due particolari verità sostenute da Ciancimino rischiano di sgretolarsi: la prima è quella riguardante la trattativa tra il Ros di Mario Mori e Bernardo Provenzano che, grazie alla complicità di don Vito avrebbero preso accordi a cavallo tra le stragi di Capaci e via d’Amelio; la seconda è quella ch invece tira in ballo Berlusconi, Dell’Utri e i loro effettivi rapporti con Cosa Nostra. Il manicheismo che invade le questioni di giustizia impedisce infatti di valutare ogni episodio come a sé stante e, per l’effetto della forza centripeta della politica, tutto finisce per mischiarsi nel calderone della polemica ad oltranza da cui, com’è ovvio, non può uscire nulla di sensato.
Così il capogruppo del Pdl alla Camere Cicchitto ne approfitta immediatamente per dichiarare che “la procura di Palermo vuole continuare a gestire Ciancimino in proprio”, seguito a ruota nello sproloquio dal senatore Idv Luigi Li Gotti per cui “capire per chi e per cosa Ciancimino abbia scientificamente mischiato falsità e menzogne rappresenta la risposta agli interrogativi sullo stragismo e sulla trattativa”. Quello che in gergo si definisce “parlare perché si ha la bocca” e che indubbiamente, a livello dell’opinione pubblica, contribuisce a irrigidire le posizioni impedendo di arrivare ad una valutazione obiettiva.
Probabilmente suo malgrado, Ciancimino negli ultimi due anni ha guadagnato una delle posizioni più controverse nella scena politica italiana, dividendo l’opinione pubblica sulla sua persona e sull’effettivo ruolo dei collaboratori di giustizia. Ora che quest’ultima si ritrova sempre più vilipesa - paragonata addirittura ad un’organizzazione terroristica - l’affaire Ciancimino rischia di delegittimare la figura del pentito e l’operato stesso della magistratura che gli da credito. Per non parlare della sinistra e di tutta quell’intellighenzia che da subito aveva avallato la buona fede del figlio di don Vito e che l’aveva eletto ad icona del ravvedimento.
Per questi e molti altri, la sicura convalida dell’arresto e il trasferimento di Ciancimino al carcere di Palermo, previsto dopo le festività pasquali, ha sapore d’amaro. Attendiamo sviluppi.
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di Rosa Ana De Santis
La Capitale mostra sempre più la propria inadeguatezza ad affrontare l’emergenza dei profughi e dei rom in modo concreto e non propagandistico. L’accusa viene da un comunicato di denuncia della Comunità di Sant’Egidio, che non vede politica, né strategia, nelle scelte dell’esecutivo capitolino. Sarà un po’ difficile far passare la contestazione alla chetichella come la solita retorica dei comunisti e dell’opposizione. Sant’Egidio, infatti, che è fatta soprattutto di persone di fede cristiana, le mani nella miseria e nel disagio sociale le mette davvero. Non si ferma ai pulpiti, tantomeno ai comizi. Dal nazionale all’internazionale porta a casa risultati e prove di efficiente gestione.
Roma Capitale ha invece risposto con l’azione, ormai arcinota, degli sgomberi. Dagli insediamenti più piccoli a quelli più grandi. Da Lungotevere San Paolo a via Severini, all'ex Mira Lanza, altre 270 persone a via del Flauto. La scenografia efficace delle ruspe e della tabula rasa sui veleni della xenofobia dell’elettorato romano fa presa, ma purtroppo non fa che spargere, esattamente come la geografia dello sgombero ci suggerisce, ciò che prima era concentrato in un punto. Nasconde e disperde, ma non entra dentro al problema.
Dopo la morte dei 4 bambini nel campo abusivo dell’Appia, il Comune è rimasto inerte. Ci saranno quindi altri roghi e altre morti. E’ inevitabile. Non è passato alcun piano di messa in sicurezza temporaneo: si era parlato di tendopoli e caserme e del Centro assistenza rifugiati, il Cara di Castelnuovo di Porto. La soluzione è stata invece quella di smembrare le famiglie, trasferire donne e bambini e lasciare gli uomini in strada.
Il risultato di tutto questo è stato quello di acuire conflitti e incomprensioni con la comunità rom, per la quale tra l’altro la famiglia è qualcosa di più del nucleo singolo genitori-figli. Sono stati tolti i bambini dalle scuole e, ad oggi, più di 600 persone vagabondano per la città con tanto di minori al seguito. Quelli che l’assessore alle politiche sociali, Sveva Belviso, voleva portar via ai genitori per il solo fatto di essere rom e magari perché vagabondi dopo gli sgomberi ordinati dal Comune.
Niente di diverso per gli immigrati e i profughi provenienti da Libia e Tunisia. Roma non li vuole, non li vuole soprattutto nei giorni dei pellegrini che arriveranno per la beatificazione di Giovanni Paolo II. Non c’è dubbio quindi che se da un lato la Capitale ha abdicato a qualsiasi ruolo di guida e di stimolo nella gestione di questa difficile pagina di cronaca, dall’altro - e la questione dei nomadi lo dimostra - non ci sono le capacità e le competenze per gestire l’emergenza, per allocare nel territorio strutture di accoglienza e per controllare ogni deriva di disordine sociale e d’illegalità che certamente una situazione di così grande impatto può generare.
Del resto, se il passaggio di due pullman nella zona di Grottarossa è bastato a scatenare allarmismo, rasentando il senso del ridicolo e, cosa ancor più irresponsabile, è stato utilizzato a pretesto dalle Istituzioni locali per invocare la chiusura di Roma ai profughi, è evidente che chi guida la città non saprebbe mai controllare, né gestire quella che in Italia è diventata una seconda invasione di barbari. In Italia, perché i numeri reali, come ben sappiamo, hanno fatto il solletico al buon senso degli altri paesi europei. Parliamo infatti di 20 mila persone su 21 regioni ed è evidente che il panico è la meritata conseguenza di un paese disorganizzato e di Istituzioni incompetenti.
La denuncia di Sant’Egidio non svela quanto non si fosse già visto nella parata caricaturale degli Stati Generali. Una città maltrattata, dagli stessi romani in primis, occultata nei lustrini di un’autentica sfilata stagionale con annessa una giunta incollata. Il nutrito staff di comunicazione che affianca il sindaco, su cui nemmeno un ministro conterebbe, avrà un bel da fare a rispondere ai punti che Sant’Egidio invoca per uscire dalla palude del vagabondaccio e della chiusura pregiudiziale ai profughi (molti con regolare permesso di soggiorno) con cui Roma ha risposto ai problemi.
Una chiusura peraltro vana perché gli stranieri invisi, quelli che affollano periferie, fabbriche e case, a quanto pare ci servono e anche molto. Certo Sant’Egidio invoca l’autorità morale, la guida spirituale, la maturità politica. Un alfabeto dell’azione collettiva che sfugge agli amministratori della città. Ora c’è da pensare a Wojtyla beato, che è un affare serio per lo spirito. E il Sindaco bandito con il tricolore, mentre stringe la mano alla pancia piena di Federalberghi, lo sa.