di Eugenio Roscini Vitali

Il 12 novembre 2003, alle 10:40 (le 08:40 in Italia) il quartier generale dei carabinieri a Nassiriya venne devastato da un attentato suicida: morirono 19 italiani (12 carabinieri, 5 militari dell’esercito e 2 civili), 9 cittadini iracheni e altre 140 persone rimasero ferite. Una strage che poteva però essere evitata: l’ha stabilito la Corte di Cassazione nelle motivazioni con le quali spiega perché lo scorso 20 gennaio ha dato il via libera ai risarcimenti per i familiari delle vittime.

La Suprema Corte ha accolto il ricorso dei parenti degli italiani morti nell’attacco suicida alla base Maestrale e le richieste avanzate lo scorso 30 novembre dal  procuratore militare Francesco Gentile e ha annullato con rinvio la sentenza d’appello con la quale erano stati negati i risarcimenti ed erano stati definitivamente assolti il generali Bruno Stano, comandante del contingente italiano a Nassiriya, e Vincenzo Lops, primo comandante di Antica Babilonia e suo predecessore.

Dato che la Procura non ha impugnato l’assoluzione in Appello dei due generali, la decisione dei giudici vale soltanto ai fini civili; ma, come ha dichiarato alla lettura del dispositivo l’avvocato Francesca Conte, rappresentante legale della stragrande maggioranza dei familiari, «si tratta di una grande vittoria morale, perchè le famiglie non hanno mai chiesto denaro ma soltanto l'accertamento della verità, nemmeno quando siamo stati soli e il governo ha fatto leggi contro di noi».

In primo grado il generale Bruno Stano (sul quale dovrà essere fatto rivalere il risarcimento ai familiari delle vittime) era stato condannato con il rito abbreviato dal Gup del Tribunale militare di Roma, Giorgio Rolando: due anni di reclusione per distruzione colposa di opere militari e per non aver aumentato la protezione della base nonostante le notizie «crescenti, dettagliate e diffuse» d’imminenti attentati, nonché per aver sottovalutato «il livello di rischio connesso alla minaccia concretamente esistente» di attacchi armati contro le forze del contingente italiano da attuare con mezzi carichi di esplosivo.

In quella sede all’ufficiale, per il quale il pubblico ministero aveva chiesto 12 mesi di reclusione, erano stati concessi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. Il giudice aveva inoltre condannato il generale Stano al risarcimento del danno alle parti civili rimettendo le parti davanti al giudice civile; assolto invece «perché il fatto non sussiste» il generale Vincenzo Lops, per il quale era sta richiesta una condanna a 10 mesi, e rinviato a giudizio con rito ordinario il colonnello dei carabinieri Georg Di Pauli, comandante del contingente dell'Arma ai tempi dell’attentato.

La sentenza con cui il 24 novembre 2009 la Corte militare d’Appello di Roma  aveva assolto i due alti ufficiali e le motivazioni con le quali, nel maggio successivo, il tribunale militare di Roma aveva prosciolto il colonnello Di Pauli - perché il fatto non costituisce reato - avevano lasciato spazio ad un ipotesi d’innocenza che aveva indignato non poco i familiari delle vittime.

L’avvocato Conte aveva commentato la sentenza Di Pauli come una sorta di “pacificazione” sociale che non avrebbe comunque fermato chi, in nome della verità, sarebbe andato avanti: «Un mese e mezzo fa abbiamo ricevuto una lettera del ministro della Difesa, La Russa, che invitava tutte la parti civili o offese ad accordarsi su un risarcimento per chiudere la vicenda. Noi abbiamo rifiutato perché non sono i soldi che ci interessano, vogliamo solo la verità; andremo in sede civile per chiedere che vengano riconosciute le responsabilità del ministero della Difesa. Del resto già nella sentenza d'appello nei confronti degli altri imputati si dice che questi non hanno colpe perché hanno obbedito a ordini superiori. E le famiglie delle vittime vogliono sapere chi ha dato questi ordini, di chi sono le responsabilità, perché questa strage si poteva evitare».

Nel dettaglio, le motivazione della sentenza emessa dalla Cassazione rilevano che nel giudizio devono essere attribuiti comportamenti imprudenti e negligenti e «non vi è dubbio che si tratti di profili classici di vera e propria colpa». Diversamente da quanto valutato per il generale Vincenzo Lops, che «ebbe comunque a rappresentare la problematica al successore, compresa la prospettiva di un cambio di collocazione della base», per il generale Stano la Suprema corte conclude che «non può non essere ribadito il vero e proprio preavviso di pericolo concreto contro le basi italiane in Nassiriya, che seguiva un crescendo di allarmi, secondo cui un gruppo di terroristi di nazionalità siriana e yemenita si sarebbe trasferito a Nassiriya, risultato ex post tragicamente veridico».

Per quanto riguarda la morte e il ferimento dei soldati investiti dall’esplosione della “riservetta” posta davanti alla base Maestrale, piazza Cavour non può non mettere in risalto quanto assurda sia stata la collocazione di quel deposito di munizioni, che secondo le norme di sicurezza doveva essere posto al riparo da eventuali attacchi.

 

di Rosa Ana De Santis

A dire che l’Italia è il fanalino d’Europa non sono le solite agenzie di rating, fallaci quanto interessate, ma l’Istituto centrale di statistica, che nella presentazione dei dati riguardanti il biennio 2008-2009, ha spiegato meglio di qualunque discorso il danno che la destra sta recando al sistema Italia. A cadere sotto i colpi dell’incompetenza del governo sono i due perni sui quali il sistema italiano si reggeva: risparmio e welfare.

A forza di picconare politicamente e legislativamente il lavoro e lo stato sociale, l’Italia è diventata la parente povera d’Europa. E se la riserva storica del nostro paese è sempre stata la relazione di solidarietà interfamiliare, con le generazioni che si venivano reciprocamente in aiuto, a formare una sorta di ammortizzatore sociale permanente, l’analisi dei numeri proposti dall’Istat evidenzia come ormai anche questo filo stia spezzandosi, causa un sovraccarico che non più in grado di sopportare.

I numeri dell’ISTAT raccontano soprattutto, dietro alla crisi dei numeri e delle statistiche, il modo in cui il sistema Italia ha affrontato la crisi economica. L’Italia del risparmio e delle case di proprietà ha protetto le nuove generazioni da un impoverimento che avrebbe avuto nell’immediato un impatto ben più violento di quello che ha effettivamente avuto. Ma tutto questo non basta più.

I numeri della politica economica di questo governo sono ben rappresentati da questi dati: la crescita italiana è in media dello 0,2, contro l’1,3 della media Ue. La produzione industriale è diminuita del 19% rispetto al 2007 e il tasso di disoccupazione reale è attorno al 15%. Il livello di ricchezza del paese è tornato indietro di dieci anni, la mortalità scolastica è al 18% (la media europea è al 14). Ottocentomila sono le donne che, a causa della loro gravidanza, hanno perduto il lavoro e 2 milioni e centomila giovani sono senza lavoro e senza nessuna prospettiva di trovarlo, dal momento che non accedono a nessuna possibile formazione. Ben 15 milioni di italiani (circa il 25% della popolazione) sono a rischio esclusione sociale e 7,5 milioni di individui sono a rischio di povertà cronica; di questi, 1,7 milioni sono già in condizione di grave deprivazione.

Un italiano su quattro, insomma, rischia di lasciare l’universo della cittadinanza per entrare nell’inferno dei senza diritti. E siccome anche nella crisi c’è chi la paga più degli altri, si registra che nelle regioni del Sud il 57% delle persone vive a rischio di povertà: nel biennio 2008-2009 più della metà delle persone che hanno perso il lavoro (532.000 di cui 501.000 giovani sotto i 29 anni) erano residenti al sud, dove l’occupazione si è ridotta di 280.000 unità. E, più poveri tra i poveri, i lavoratori extracomunitari, dove pure assunti regolarmente, segnano una retribuzione inferiore del 24% rispetto a quelli degli italiani.

Le famiglie italiane, un tempo al primo posto in Europa per quota di risparmio, hanno ormai eroso le risorse accumulate. Lo scorso anno la propensione al ribasso è stata del 9,1, il valore più basso dal 1990. Cresce ogni anno il numero delle famiglie che non sono in grado di pagare le utenze domestiche (11,1), che non riescono ad affrontare spese impreviste di 800 euro (33,4), che non possono permettersi di pagare un riscaldamento adeguato per le case nelle quali abitano (11,5), che non possono permettersi nemmeno una settimana di ferie all’anno (39,7) e neanche un pasto adeguato ogni due giorni (6,9).

Sono cifre, queste, che raccontano il declino di un paese che resta tra i primi dieci del mondo per Pil, ma che vede accumularsi la sua ricchezza in fasce sempre più ristrette di famiglie a scanso di una povertà crescente che investe ormai, come si vede, almeno il 30% della popolazione, con una tendenza sempre crescente nella divaricazione della forbice sociale.

E l’assoluta mancanza di qualunque politica si sostegno allo sviluppo segnerà pesantemente anche il prossimo periodo. Finiti i risparmi, se nessuno avrà pensato alla crescita, il lavoro seguirà il trend dell’assoluta precarietà e di una produzione delocalizzata, ovvero low cost, non prima di aver reso superflua ogni traccia di diritto del lavoro, e si abbatterà una nuova emergenza non più solo sui giovani, ma anche sugli over 50. Una disoccupazione senza welfare che si tradurrà in nuova, cronica povertà. Solo che questa volta non avremo nemmeno più la casa di proprietà. E Termini Imerese non sarà un caso, così come non sarà più solo Marchionne il nuovo fenomeno dell’imprenditoria italiana.

Quello che manca è un disegno sul futuro, manovre per uscire dalla depressione che è rimasta dopo la crisi del biennio appena passato, una politica per la crescita che persino per ammissione di Tremonti non è buona. Ovviamente il Ministro non ci sta all’analisi del rapporto ISTAT e continua a parlare di un paese ricco, il cui bilancio ha tenuto (anche se omette di spiegare il come). Non dice il ministro che la ricchezza di alcuni è speculare all’impoverimento di tanti altri (ceto medio in modo particolare) e che la media del benessere non dice sulla distribuzione dello stesso, con l’aggravante, tutta moderna, per cui chi esce dal circuito virtuoso della società non ha più alcuna mobilità in ingresso. Si è mobili per la disoccupazione, ma non per tornare ad essere occupati. La storia delle industrie storiche del paese lo conferma.

Tremonti sostiene che i numeri vanno interpretati e questo è vero: prima ancora che interpretati, però, vanno letti oggettivamente e quello che raccontano, in fondo, sono la rappresentazione di uno scenario che tutto il paese conosce.

Ad aggravare ulteriormente il quadro, è arrivata la relazione della magistratura contabile dello Stato. La Corte dei Conti, infatti, sull’onda dei numeri ISTAT, annuncia altri anni di rigore (intervento del 3% l’anno per rientrare del debito, come imposto dall’Europa) che renderanno impossibile qualunque riduzione della pressione fiscale. Una manovra da 46 miliardi ci attende all’orizzonte e l’ironia del Ministro Tremonti ci invita ad affrontarla con un approccio a metà tra la “sopravvivenza” e il “tiriamo a campare”. Per la crescita c’è tempo dice il governo, dimenticandosi di Confindustria, e ricordando alla chetichella di non poter ridurre la pressione fiscale. O meglio di non poterla ridurre a tutti, perché rimane al posto di sempre la vergogna dell’evasione, alfa e omega di tutta l’iniquità del sistema economico italiano per il quale questo, come altri governi, non hanno saputo e voluto fare granché.

Il Paese, sfugge ai buontemponi di Palazzo Chigi, è già impoverito. E’ l’esodo dei nostri cervelli a dirlo, è l’abbandono scolastico in crescita a confermarlo. Ed è proprio l’inerzia dei nostri amministratori davanti a tutto questo a dirci che i numeri dell’ISTAT suscitano un legittimo allarme per tutto quello che non ci dicono di domani, più che per quello che raccontano di oggi. 

 

 

di Cinzia Frassi

Ad una manciata di giorni dai ballottaggi a Milano e a Napoli, la politica continua il suo percorso e da un'aggiustatina alla strategia elettorale. A Milano Letizia Moratti cerca di dare un tono diverso alla campagna elettorale molto aggressiva del primo turno, che l'ha portata ad una percentuale di 7 punti sotto al rivale Pisapia. Dopo la trovata geniale, risoltasi in un autogol senza precedenti, del faccia a faccia su Sky, Letizia offre candidamente le sue scuse, condizionate però ad un confronto politico con l'ex condannato, poi ammnistiato quindi assolto Pisapia.

Questi, giustamente, gliele rimanda indietro e la lascia ancora con la mano tesa, come a fine trasmissione su Sky, dicendo che "di solito chi chiede scusa, ancorchè dopo otto giorni e una sconfitta elettorale, non pone condizioni se pensa sinceramente di aver sbagliato". Il momento del confronto, aggiunge Pisapia, sarà necessariamente domenica 29 e lunedì 30 maggio.

Ma Letizia Moratti non si dà per vinta e mentre incassa i fischi al presidio promosso dalle associazioni dei disabili per denunciare i tagli decisi dal governo, davanti a striscioni che paventano il pericolo della sinistra estremista alla guida della città, ecco che inizia a snocciolare qualche promessa. Cioè qualche regalino, un piccolo premio in cambio del voto: abolizione dell'Ecopass, sosta libera per i residenti anche sulle strisce blu nel loro quartiere, sconti sui parcheggi per i negozianti e allargamento degli orari per il carico e scarico delle merci. Accanto alle promesse elettorali dell'ultimo momento, c'è la solita vecchia retorica che paventa il nemico rosso. Ecco, questa è la strategia targata Moratti per vincere il ballottaggio contro il suo avversario: il terrorismo alla Bossi, qualche comparsata del cavaliere e le promesse elettorali dei momenti di saldo.

Proprio oggi Berlusconi alza ancora i toni: con Pisapia zingari e comunisti, Milano non sarà in mano a comunisti e centri sociali. E ancora: “Pisapia vuole Milano come Stalingrado”. Nelle sue numerose (e rigorosamente senza contradditorio) comparizioni televisive dice di voler spiegare ai milanesi “il programma di un sindaco sostenuto dalla sinistra estrema e integralista, un programma incompatibile non solo con l'Expo 2015 ma dannoso per famiglie ed imprese, perché prevede più tasse, un grande centro islamico, il voto amministrativo agli immigrati, il blocco degli sgomberi dei rom e il riconoscimento agli zingari della possibilità di autocostruzione. A Milano, la sinistra vuole fare la Stalingrado d'Italia".

Intanto Carlo Verna, segretario dell'Usigrai, riguardo proprio allo spazio tv concesso al capo del governo, dichiara che “i giornalisti della Rai hanno una loro dignità e si dissociano apertamente da quest’uso spregiudicato e folle di una risorsa di tutti, il servizio pubblico, che dovrebbe quindi garantire tutti". Dal canto suo Pisapia sembra intenzionato a voler consolidare i consensi e il vantaggio del primo turno ma anche lui alza i toni.

Soprattutto non risparmia risposte puntuali alle provocazioni dello staff elettorale del sindaco uscente e di tutto l'entourage al completo venuto su per darle man forte. Le fila del governo per il ballottaggio di Milano trascinano il dibattito su argomenti che stuzzicano quegli elettori che hanno disertato le urne e i famosi indecisi intercettati a quanto pare da Pisapia. Soprattutto puntano a impressionare le tasche dei milanesi e mandano avanti lo stereotipo dello straniero che ruba il lavoro. Tutti temi da Lega nord. Così, tra le righe delle battute del cavaliere si scorge chiaramente il suggeritore Bossi che non ci sta a perdere proprio nel profondo nord, dove solo tre anni fa aveva portato a casa un incontestabile incremento dei consensi.

Pisapia dal canto suo cerca di smontare quelle stesse argomentazioni, parlando di promesse elettorali del governo al ricatto della Lega e mostra le contraddizioni e le strumentalizzazioni del suo programma. Per esempio chiarisce che mentre fino a un mese fa la Moratti era favorevole ai referendum ambientali di giugno, ora si pronuncia così sull'Ecopass. A proposito della moschea chiarisce che “Bossi e tanti elettori della Lega non sanno che il centro multiculturale è già previsto dal piano di governo del territorio approvato dal centrodestra”. Pensa di riuscire così a vincere il secondo turno.

Ancora più alti, se possibile, i toni tra De Magistris e Lettieri a Napoli. Anche qui Berlusconi punta sull'argomento di sempre, quello sul quale tutti guadagnano e che nessuno intende quindi risolvere: a'monnezz'. Direttamente dal Tg2 il capo del governo urla che "la tragedia dei rifiuti l'avevamo risolta in soli 58 giorni. La sinistra dovrebbe chiedere scusa a Napoli e invece ha la sfrontatezza di chiedere il voto e per di più sotto mentite spoglie, quelle di un magistrato d'assalto che non ha alcuna esprienza amministrativa e gestionale".

Il 38% di Lettieri, imprenditore, ex presidente della sezione napoletana di Confindustria, non è stato sufficiente per evitare il ballottaggio con l'ex magistrato candidato nelle fila dell'Italia dei Valori, Luigi De Magistris, che si ferma a poco più del 27%. I confronti televisivi tra i due sono scontri aperti, ricchi di secchi insulti. Nessuno tuttavia ha una ricetta vera e propria sul tema di punta dei rifiuti. Da un lato Lettieri punta sul business degli inceneritori mentre il suo sfidante è contrario.

Di traffico di rifiuti tossici, sversamenti abusivi, bonifiche, nessuna idea di rilievo, così come assenti sono le analisi circa i motivi per cui ciò che nel resto del paese è cosa gestibile, sotto al vulcano diventa cosa impossibile. Qui il confronto sembra quasi si stia consumando grazie all'accordo tra il candidato del Pd e quello che sembrava non essere il candidato del Pd, De Magistris. In questo modo il centrosinistra ha finito con il sottrarre, paradossalmente, i voti di Morcone, riuscendo ad andare al ballottaggio sostendendo proprio l'ex magistrato.

Per chi si domanda quale sia la strategia migliore per vincere i ballottaggi, come picchettare gazebo, parlare con le gente, escogitare un programma vincente, Roberto Calderoli risponde: “Non è con i comizi che si attirano i voti o meno, ma la settimana prossima ci sarà una grossa sorpresa di Berlusconi e Bossi che cambierà l'atteggiamento dei milanesi per il ballottaggio". Così si vincono ballottaggi ed elezioni, con boutade e colpi da manuale. Parola di ministro per la Semplificazione.

di Rosa Ana De Santis

Si chiama John Demjanjuk ed era il guardiano del campo di sterminio di Sobibor. E’ stato condannato a Monaco di Baviera a 5 anni di reclusione: poco più di uno straccio di pena simbolica e di un’elemosina morale per le vittime e per i familiari. Come se non bastasse, mentre la difesa si prepara all’appello, il Boia di Sobibor è già in libertà. Rilasciato, perché troppo anziano, se n’è tornato a casa con i suoi 91 anni di colpe e di orrori. La sentenza, infatti, lo ha riconosciuto parte integrante di quella macchina del male che ha portato allo sterminio di 27.900 persone.

Una lunga vicenda giudiziaria, iniziata in Israele con una condanna a morte scampata, e arrivata in Germania dopo l’estradizione concessa dagli Stati Uniti, si è sviluppata in 93 udienze e attraverso l’esame di 70 mila documenti. Nessuno dei superstiti l’ha riconosciuto (anche per l’impossibilità di un confronto diretto) ma Demjanjiuk era un guardiano e, come tale, aveva un ruolo tutt’altro che marginale nelle violenze e nelle torture che regolavano la macabra vita del lager e dei suoi prigionieri e che per banali ragioni di efficienza non potevano essere appaltate alle sole SS, che in quel campo erano 20 contro i 150 guardiani (trawniki).

Alla decisione del rilascio sono seguite reazioni contrastanti. Da Israele arriva delusione e sconcerto, anche se Efraim Zuroff, direttore del centro Simon Wiesenthal, evidenzia il valore simbolico comunque educativo e importante della condanna. L’imputato, che durante il processo si è presentato su una sedia a rotelle mantenendo sempre un assoluto silenzio, si dichiara perseguitato dalla Germania e da tutti i paesi in cui ha scontato diversi anni di carcere, dovuti soprattutto all’inizio per esser stato confuso con il ricercato numero uno,il celebre“Ivan il Terribile”.

L’argomento dei poveri vecchi nazisti da lasciare in pace non è nuovo e la vicenda del guardiano di Sobibor è solo l’ultima dopo molte altre. Un improvviso moto di pietà dovrebbe evitare, questo pensano alcuni, a questi assassini che per molti anni sono stati latitanti, di pagare il fio dei crimini commessi.

Come se la pena, che finalmente arriva, avesse il sapore di un accanimento o, peggio ancora, per i tifosi del politically correct, di una vendetta. Come se lo sterminio scientifico e pianificato di milioni di esseri umani fosse un crimine paragonabile ad altri e non quell’assoluta personificazione del male che è stata. Come se la pena fosse inutile non tanto perché priva di alcuna sua parte di recupero, ma perché un prigioniero anziano meriterebbe di finire in altro modo la propria esistenza. Anche un nazista? Ma ne siamo propri sicuri?

Come la mettiamo con quell’assente pietà collettiva per tutti quei prigionieri che marciscono in carcere, malati, tossicodipendenti o stranieri, messi dentro per reati certamente mai assimilabili allo sterminio, anonimi come ombre per i quali si muove al massimo qualche associazione zelante, sull’onda di qualche fattaccio di cronaca?

Perché la loro punizione sembra accontentare tutti e non suscitare grandi dibattiti morali che poi tuonano invece in prima pagina per l’ultimo nazista rimasto in vita? Quell’ultimo fossile di male che ancora oggi non guarda in faccia i superstiti del lager da cui viene.

Forse per un viscerale rigurgito antisemita e filonazista mai estinto in questa Europa sede di banche e xenofobia, forse perché la rete di omertà e di complicità che per molti anni li ha protetti e li ha messi al sicuro può mettere in pericolo troppi poteri forti. A chi conviene ormai dopo tanto tempo, con i pochi superstiti ancori in vita e con le emozioni delle nuove generazioni ormai sopite?

Nel 2010 l’Australia non aveva estradato l’88enne Zentai per ragioni umanitarie dovute alla sua età. Numerose altre inchieste, tedesche come italiane, ad esempio sulla vicenda di Marzabotto, arrivate in ritardo dopo anni, ancora oggi sono impantanate a causa dell’età degli imputati. Come non pensare infine a casa nostra e al caso di Priebke, capo delle SS, anche lui mandato a casa ai domiciliari confortato da mille privilegi perché 85enne al momento della condanna. Un nazista che aveva ordinato la fucilazione alle Fosse Ardeatine che poteva passeggiare, scortato dai nostri poliziotti pagati dai nostri contributi, quasi come un cittadino perbene.

Sfugge alla memoria che Norimberga é stato un processo marziale, un atto costitutivo di civiltà dopo un precipizio di barbarie. Una rigenerazione che non poteva non passare attraverso l’abolizione esemplare di quella stagione umana di criminali. Non fu il momento del dibattito accademico e della pietà.

Fu un manifesto di giustizia umana, senza spazio per la pietà degli dei. Un’inutile attesa di risarcimento per le vittime, sapendo che alcun patibolo avrebbe condannato abbastanza gli aguzzini e la loro filosofia del male.

Tutto questo dovrebbe persuaderci che nazista non è solo assassino, né solo criminale. E’ una deviazione maligna specifica dell’umanità, una categoria invertita dell’essere umano. Che un nazista è tale sempre, soprattutto se mai ha dato prova di espiazione. Che 5 anni sono uno schiaffo per le vittime del Boia di Sobibor. Che potrebbe rimanere chiuso in prigione, come tanti disgraziati, e che lì dovrebbe morire. Con l’obbligo di leggere fino all’ultimo dei suoi giorni la lunga lista dei morti del campo.

L’unica condanna davvero senza pietà per questo vecchio sarebbe quella di dover vivere fino alla fine per ricordarli tutti. Ogni giorno. Perché quella lunga lista di nomi, quelle persone estinte nel vento, tutto quello che è avvenuto nei lager, come scriveva Primo Levi prima di uccidersi, “è stato”. 

 

di Fabrizio Casari

Milano, Torino, Bologna, anche Napoli. Da nord a sud, che si leggano i risultati delle candidature a sindaco, o quelli delle liste elettorali, sono tanti i motivi di soddisfazione per il fronte progressista che emergono dal voto delle amministrative. Il primo riguarda ovviamente Milano, dove il candidato del centrosinistra Pisapia, alla vigilia accreditato al massimo per un eventuale ballottaggio, arriva sì al secondo turno, ma con sette punti di vantaggio sul sindaco uscente Moratti.

Pur con tutte le incognite del caso e senza voler minimamente sottovalutare le capacità di ripresa del centrodestra, Pisapia é, per la legge dei numeri e per la logica della politica, ragionevolmente candidato alla vittoria nel secondo turno tra quindici giorni, tenendo conto anche del 5 per cento circa raccolto dal movimento cinque stelle di Beppe Grillo. Se invece di candidare il narcisismo del comico genovese si fosse scelta la strada dello scontro con la destra, già da ieri Pisapia sarebbe entrato a Palazzo Marino.

Ma la vittoria al primo turno di Giuliano Pisapia non è solo una bella notizia, ma anche una discreta dispensa d’indicazioni politiche. Perché, a rendere più evidente la sconfitta personale di Berlusconi, arriva ancor più netto il voto di lista (che vede il PDL perdere sette punti percentuali) e il consenso personale al cavaliere (candidato capolista) fermo solo al 50% delle preferenze di cui la volta precedente disponeva. Inoltre, il PD di Bersani arriva allo stesso risultato del PDL in quella che, una volta ormai, par di capire, era la patria del berlusconismo.

E’ probabile che l’insipienza governativa del sindaco uscente, la sua metamorfosi aggressiva sotto l’egida di Sallustri e della Santanché abbia decisamente alzato il livello di volgarità ed ignoranza che, storicamente, ai milanesi va indigesto. Dal metodo Boffo alle prostitute - maggiorenni e non - dalla compravendita dei parlamentari fino all’aggressione ai magistrati e a quella riservata ad ogni istituzione della Repubblica, il berlusconismo appare ormai come la parte peggiore della destra europea.

Un aggregato onnivoro, ma politicamente rozzo ed incapace, che era riuscito però in questi anni, grazie al controllo totale sui mezzi di comunicazione, a raccontare la favola del buongoverno che copriva la realtà del malgoverno. Poi, com’è noto, per lungo che sia il sonno della ragione, le persone si svegliano e presentano il conto. Non a caso Famiglia Cristiana, in un editoriale della sua edizione online, ha commentato: “Si é esposto con brutale evidenza al giudizio popolare un primo ministro che vuole sottrarsi ai giudici, che svillaneggia la magistratura, che non si dissocia da cartelloni infami, che non accetta le esortazioni del Quirinale, che fino a poco fa passava le serate nel modo che conosciamo. Il giudizio c'é stato, severo".

Pisapia ha vinto perché, prima di ogni altra considerazione politica, è una persona per bene e come tale viene percepito. Figlio della borghesia illuminata meneghina, ha avuto il merito di portare alle urne sia l’elettorato storico del centrosinistra, sia i moderati che, pur conservatori, ormai non tollerano più il berlusconismo, sia i giovani e la sinistra alternativa, che hanno trovato in una persona per bene e di sinistra motivi sufficienti per tornare a frequentare quelle urne elettorali che avevano abbandonato da diversi anni. La riprova di ciò sta nei dati del voto di città: il centrosinistra ha conquistato tutte le nove zone in cui é divisa Milano, compresa Zona 1, la zona centrale della città da sempre feudo del centrodestra. A dare un’idea dell’inversione di tendenza, basti ricordare che nel 2006 il centrodestra conquistò otto zone su nove.

A Torino Piero Fassino sfiora il 57 per cento ed è eletto al primo turno. Il buongoverno di Chiamparino ha certamente influito e lo spessore di Fassino ha messo il resto. Il candidato del PDL è intorno al 30%. Anche a Bologna si conferma che lo zoccolo duro del PD tiene. Ma avrà comunque bisogno di un buon calzolaio, perché la vittoria è sì netta ma non nelle percentuali bulgare storicamente raggiunte in Emilia. Questo però, non deve illudere il centrodestra, dal momento che i voti persi dal centrosinistra non sono confluiti sul candidato leghista. Ecologia e Libertà di Vendola ha ottenuto il 10% e altrettanto il movimento 5 stelle di Grillo. Il che indica nel 71 per cento dei voti complessivi l’indirizzo politico e culturale della città.

E persino Napoli non sorride alla destra: nonostante il malgoverno del clan Bassolino e l’impossibilità di raddrizzare gli errori da parte della Iervolino, la destra non riesce a vincere al primo turno. L’elettorato del centrosinistra, infatti, ha scelto in buona parte di sconfessare le camarille locali del PD, e Morcone si è fermato al 19%. Meglio, molto meglio di lui, Luigi De Magistris, candidato dell’IDV (ma fino a un certo punto, la sua autonomia da Di Pietro è conclamata) che sfiora il 30% e va al ballottaggio con Lettieri. Il PDL parte quindi in vantaggio al secondo turno, ma Lettieri ha già raccolto il massimo dei voti possibili a destra, mentre lo stesso non si può dire sul fronte opposto, dove il voto è stato frammentato su due o tre candidati. L’eventuale convergenza dei voti del PD e del resto della galassia antiberlusconiana su De Magistris al secondo turno (auspicata anche da Marco Follini del Terzo Polo), potrebbe quindi ribaltare la situazione a Napoli.

Infine, ma non certo alla fine, il voto straordinario al referendum sul nucleare in Sardegna, dove i contrari all’atomo sono 97 su cento. Il che, tra l’altro, aiuta ulteriormente a comprendere le manovre del governo per evitare il referendum sul nucleare e, soprattutto, l’affluenza che determinerebbe e che si spalmerebbe sul quesito sul legittimo impedimento per il Premier fuggitivo.

Si aprono ora i quindici giorni di campagna elettorale più duri, dove nessuno che abbia a cuore le sorti dell’Italia potrà risparmiarsi. Perché dalla vittoria del centrosinistra e dei suoi diversi candidati a Milano e Napoli in particolare, potrà iniziare una nuova stagione politica.

Il PDL si scopre da un giorno all’altro un partito che passa dall’onnipotenza all’impotenza, anche perché il malumore della Lega è forte e a Via Bellerio non si riesce a nasconderlo: diversi settori del Carroccio vedono il rischio che, di questo passo, Alberto da Giussano si trovi con la spada mozzata. La tentazione di staccare la spina al governo centrale vedrà quindi proprio nel ballottaggio una verifica importante.

Da via dell’Umiltà partono messaggi di diverso tono. I consensi persi li imputano a “errori di comunicazione”, preferiscono cercare di dare alternativamente la colpa o alla “eccessiva politicizzazione” o, all’opposto, alla “mancanza di politicizzazione”. Dipende da chi parla, da quanto conta e da dove è allocato nel mare in tempesta chiamato PDL. Ma i numeri hanno la testa dura e la lettura politica di questa tornata elettorale sembra oggettivamente una: la crisi del berlusconismo è cominciata.


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