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di Cinzia Frassi
La maggioranza al Senato ha approvato l’emendamento che abroga le norme necessarie alla realizzazione di centrali nucleari sul territorio nazionale. “I cittadini sarebbero stati chiamati a scegliere fra poche settimane fra un programma di fatto superato o una rinuncia definitiva sull'onda d'emozione assolutamente legittima ma senza motivi di chiarezza”. E’ con queste parole che il ministro dello sviluppo economico, Paolo Romani, intervenendo al Senato nella discussione sul decreto omnibus, spiega la decisione di inserire un emendamento, approvato con 133 si, 104 no e 14 astenuti ieri pomeriggio, cui si mette temporaneamente in soffitta la localizzazione e la realizzazione di nuove centrali nucleari.
Quello che solo pochi giorni fa era un’emergenza del paese, nonché sinonimo di sicurezza, innovazione e modernità - il nucleare appunto - oggi è “un programma di fatto superato”. Il ministro sostiene anche che una vittoria degli antinuclearisti poteva tradursi nell’esclusione “dell'Italia dalla possibilità di intervenire con autorevolezza nel dibattito europeo sull'evoluzione della strategia per l'atomo”.
E’quindi il governo a decidere cosa sia chiaro o meno per i cittadini e cosa non è giusto fare sull’onda emotiva post Fukushima. Democratico no? Va da se che il nocciolo della questione non è il nucleare. Cosa poteva fare il caimano per evitare l’unica sfida che poteva vederlo sconfitto alle urne? Perché sarebbe il prossimo appuntamento referendario, a tradursi in una un sconfitta “elettorale”. I sondaggi parlavano chiaro nei giorni scorsi e delineavano uno scenario vicino al plebiscito contro il capo del Governo grazie all’effetto Fukushima. Le percentuali, infatti, sono pesanti: secondo il recente sondaggio Ipsos i cittadini contrari alla costruzione di centrali arriva al 78%, tra gli elettori del Pd addirittura al 90% mentre si attesta al 66% tra quelli dello stesso Pdl.
Ma questo effetto, che per tutti si traduce in una maggiore propensione al voto referendario per dire “No” al ritorno del nucleare in Italia, per il presidente del Consiglio significa la possibilità che il quesito referendario per l’abrogazione di quel che rimane del legittimo impedimento raggiunga il quorum. E’ la politica del governo tutto: i processi di Berlusconi.
Che fare? Bisogna correre subito ai ripari. Così, dopo la moratoria di un mese fa circa, relativa alla sospensione della localizzazione delle quattro centrali in previsione nella politica energetica del governo, ecco che si pensa ad un colpo gobbo. Perché la moratoria non basta e se ne sono resi conto. Ci voleva qualcosa di più efficace, come per esempio vanificare il referendum. Non si voleva rischiare. Il trucco di fissare le date dei referendum a giugno spendendo milioni di euro, che si potevano risparmiare votando con le amministrative di maggio, poteva non bastare.
E’ troppo importante quel quesito sul legittimo impedimento. I cittadini avrebbero potuto votare per abrogarlo, nel convincimento che la legge è uguale per tutti, anche per il presidente del Consiglio. E questo non va bene. L’imputato B. non può permettersi di non incassare sul legittimo impedimento, proprio no. Intanto le associazioni e i comitati promotori insorgono, segnalando come questo sia un modo per il governo di indurre i cittadini a disertare le urne.
A dare manforte alle argomentazioni del ministro Romani, il ministro Tremonti alla commissione Affari costituzionali del Parlamento europeo ha argomentato contro il nucleare facendo proprie quelle critiche che fino a poche ore fa provenivano proprio dalle opposizioni: "E’ stata fatta davvero una contabilità del nucleare? Sono stati contabilizzati i costi del decommissioning (lo smantellamento delle centrali)? Esiste il calcolo del rischio radioattivo? La proposta di Tremonti alla Commissione consiste in un Piano europeo per la ricerca di energie da fonti rinnovabili, finanziato anche dagli Eurobond, che tanto gli piacciono.
Il segretario del Pd Bersani invece etichetta il dietro front del governo come “una vittoria nostra” aggiungendo che semmai non basta l’addio al nucleare ma è necessario “aiutare lo sviluppo delle rinnovabili”. Chi più tuona contro il colpo gobbo del governo è Antonio Di Pietro, che ha dichiarato in proposito: “Il governo tenta con un colpo di mano per truffare gli italiani”. L'emendamento che è stato presentato, secondo Di Pietro, “non abroga l'impostazione nucleare ma posticipa solamente la localizzazione degli impianti". Anche per il Presidente dei Verdi, Angelo Bonelli, è chiaro che il governo non ha cambiato idea, “è un trucco per far saltare il quorum ai referendum e poi ripresentare in un secondo momento il decreto per le centrali".
E’ quello che in effetti si desume dallo stesso emendamento che finalizza la temporanea sospensione per “acquisire ulteriori evidenze scientifiche sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione Europea”.
Ora la palla passa all’Ufficio centrale della Cassazione, che deve decidere se l’emendamento assorba totalmente il contenuto del quesito referendario. Il presidente emerito della Consulta, Piero Alberto Capotosti, chiarisce infatti che la Suprema Corte dovrà appunto stabilire se l'abrogazione delle norme sulla realizzazione di nuove centrali sia “sufficiente nel senso richiesto dai promotori del referendum”. Del resto, come si può facilmente capire dalla sua lettura, il quesito referendario è piuttosto articolato (http://it.wikipedia.org/wiki/Referendum_abrogativi_del_2011_in_Italia) e saremmo davvero nella periferia del diritto qualora una boutade del governo potesse decidere sull’effettività di una garanzia costituzionale come il referendum.
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di Mariavittoria Orsolato
Per festeggiare degnamente il terzo compleanno del terzo governo Berlusconi, caduto proprio il 13 aprile, la maggioranza ha approvato alla Camera l’urgentissimo testo sulla prescrizione breve: con 314 voti a favore il Governo è finalmente riuscito nell’impresa di sbilanciare la giustizia a favore del primus habens, ovvero il premier. Un regalo confezionato ad arte e che ha visto l’intera squadra di governo prodigarsi, unita e compatta, per non perdere nemmeno uno dei preziosissimi voti utili a fare numero.
In quella che a rigor di logica dovrebbe essere la sua ora più buia, con scandali sessuali in pieno svolgimento e prestigio internazionale se è possibile ancor più in caduta libera, Berlusconi, come Freddie Krueger, riesce comunque a tornare illeso dagli inferi e a imporci nuovi incubi. In questo caso giudiziari. Per lui e molti altri - come i dirigenti Tyssenkrupp imputati a Torino o i colletti bianchi del Crac Parmalat - la riduzione dei tempi della prescrizione é letteralmente manna dal cielo e nel caso venisse confermata anche al Senato riuscirebbe ad obliterare processi in cui la colpevolezza degli imputati è palese (come nel processo Mills) o quasi.
Le “Disposizioni in materia di spese di giustizia, danno erariale, prescrizione e durata del processo”, questo il nome dato al provvedimento all'ultimo minuto grazie a un emendamento del peon Maurizio Paniz, non sono infatti altro che il testo riveduto e corretto del decreto sul processo breve archiviato nello scorso settembre. Se nella bozza portata avanti dal 2009 la strategia puntava ad uno spartiacque cronologico fin troppo ad personam - ne beneficiavano solo gli imputati per reati commessi prima del maggio 2006 - nel testo in visione al Senato tutti gli incensurati che si sottoporranno a giudizio per reati che esulino dalla “pericolosità sociale”, potranno automaticamente avere uno sconto da un quinto a un sesto di tempi di prescrizione.
Un’ecatombe giudiziaria che, secondo il presidente dell’Anm Luca Palmara, rischia di estinguere con un nulla di fatto almeno 15000 processi. Tra i reati considerati socialmente pericolosi rientrano esclusivamente quelli riguardanti mafia e terrorismo, perciò tutte le altre categorie penali - dall’omicidio ai reati finanziari - entrano a pieno titolo in questa amnistia preterinzionale. Se quindi il testo dovesse passare anche a Palazzo Madama si riuscirebbe a dare un poderoso colpo di spugna alla domanda di giustizia dei parenti delle vittime dell’Aquila, o a quelli di Viareggio o, comunque, a tutti quelli che sono in attesa di veder condannare qualcuno per omicidio colposo.
Durante le dichiarazioni di voto, trasmesse in diretta da Rai3 e seguite dai Tg serali, gli interventi dell’opposizione hanno sottolineato questo rischio ma è ben poco probabile che stavolta l’ennesima legge salva premier venga accantonata per le contestazioni di piazza, come accadde appena 7 mesi fa. Allora il testo era troppo spudorato per poter passare indenne il vaglio del Quirinale e i processi sembravano ancora troppo lontani dall’epilogo. Ora che i tempi processuali stringono, non è più possibile indugiare in balletti pseudo-democratici e la norma materializzatasi dal cilindro dell’onorevole ghostwriter Ghedini deve essere ratificata il più in fretta possibile.
Grazie alla prescrizione breve, il processo in cui il premier è imputato per corruzione in atti giudiziari si chiuderebbe entro l’estate, anticipando i tempi di circa sette mesi e rendendo impossibile l’emissione della sentenza in primo grado, prevista per i primissimi mesi del 2012. Anche il processo sui presunti fondi neri creati da Mediaset in cui Berlusconi risponde per frode fiscale, vedrebbe accelerata la sua fine: in teoria, si prescriverebbe alla fine del 2013, con la nuova legge sei mesi prima. Il nostro primus habens, nonostante negli ultimi trent’anni sia stato inquisito per reati di vario genere e sorta, è infatti paradossalmente incensurato e poco importa che questo status l’abbia guadagnato a suon di leggi ad personam e di corruzioni più o meno manifeste. Per il casellario giudiziario il cittadino B. ha la fedina penale intonsa.
Oltre al dono dell’impunità Berlusconi, allo scadere del suo terzo anno di governo, si ritrova in tasca anche una personalissima vittoria parlamentare. Se a dicembre la maggioranza boccheggiava sull’aritmetica, offrendo non precisati vantaggi a chiunque avesse deciso di voltare gabbana, mercoledì ha invece retto benissimo ed anzi ha guadagnato 10 voti - 316 rispetto i 306 necessari all’approvazione - nel corso del voto segreto sull’articolo 3. Un degno anniversario quindi quello che si è celebrato a Montecitorio, che ingigantisce, semmai ce ne fosse ancora bisogno, la distanza che c’è tra le “pubbliche nudità” del sovrano e il paese reale.
La speranza che un tale scempio dell’idea di giustizia non venga perpetrato, è riposta come sempre nelle mani del Presidente della Repubblica, che da Praga ha annunciato la volontà di valutare il testo “quando saremo vicini all’approvazione definitiva in Parlamento”. Si preannuncia dunque uno scontro col Colle, che Berlusconi spera di poter evitare con l’invio di Angelino Alfano che prossimamente dovrebbe raggiungere Napolitano per illustrargli i capisaldi della legge. Date le poche risorse intellettuali a disposizione del ministro della Giustizia, ci auguriamo che il Quirinale respinga la prescrizione breve ma, se la storia ci insegna qualcosa, Berlusconi tornerà comunque alla carica con altri lodi, leggi ad personam e trucchi da azzeccagarbugli, così come ci ha abituato nei suoi complessivi 10 anni di governo.
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di Giovanni Gnazzi
L’Europa sarebbe insensibile al grido d’aiuto che viene dall’Italia? E perché dovrebbe accoglierlo? Siamo uno degli otto paesi economicamente più forti del mondo. Non c’è consesso internazionale, tra quelli che formalmente contano, che non ci vede come paese membro. Possibile mai che un paese ricco, con sessanta milioni di abitanti, non sappia come gestire 15.000, massimo 50.000 immigrati? Ma stando a Maroni, l’Europa è insensibile e non si capisce cosa ci stiamo a fare nella Ue.
Uno sfondone, come gli capita spesso quando posa il sax e tenta di parlare di politica. Ma Bruxelles non è Ponte di legno e glielo spiega il ministro degli Interni tedesco Hans-Peter Friedrich: "L'Italia sta infrangendo lo spirito dell'accordo di Schengen. In Europa tutti abbiamo un problema d’immigrazione e l'Italia non può reclamare la solidarietà degli altri Paesi se non c'è un problema d’immigrazione di massa. La solidarietà in Europa deve essere applicata quando un Paese è veramente colpito da un fenomeno d’immigrazione di massa. Questo non è il caso dell'Italia in questo momento", ha concluso il ministro tedesco.
Difficile dargli torto. Non è quindi vero che l’Europa rifiuti ogni collaborazione con l’Italia per la gestione del flusso migratorio proveniente dal Maghreb e non è vero nemmeno che il rifiuto di accettare le posizioni italiane sia indice d’indifferenza generale verso il problema o anche la spia di come un Unione fondata solo sul mercato e sul denaro sia tutt’altro che un blocco politico continentale.
L’identità europea è certamente tema delicato, ma non è questo all’ordine del giorno. I contrasti tra Roma e Bruxelles sono molteplici, soprattutto in politica estera ed economica ed era impensabile prevedere accoglienza benevola, ma nel merito si tratta d’altro. Se vogliamo cercare una risposta al perché del rifiuto europeo a sostenere le pretese italiane sui flussi migratori, possiamo invece cominciare a cercarla proprio nella politica che l’Italia ha scelto nella gestione dell’immigrazione dal sud del mondo.
L’incidenza dell’immigrazione sulla nostra dimensione demografica è lungamente inferiore alla media europea. L’incapacità di farvi fronte non è determinata dalla mancanza di strutture territoriali adeguate, bensì il contrario: non ci sono le strutture perché non averle è una scelta politica. Solo in Italia, si deve ricordare, il clandestino è considerato un reo invece che una vittima.
Solo in Italia i cosiddetti Centri di accoglienza temporanea sono luoghi definitivi di detenzione e solo in Italia si arriva a dare in outsourcing il respingimento degli immigrati (vedi accordi con Gheddafi prima e Tunisia ora), cercando di appaltare all’esterno il lavoro sporco. Solo in Italia politici di varia e mutevole collocazione hanno proposto di sparare sugli scafi contenenti dei civili. Solo in Italia i respingimenti in mare sono divenuti oggetto d’azione militare e solo in Italia l’appartenenza etnica ha prodotto provvedimenti legislativi ad hoc. E ancora, solo in Italia le campagne elettorali vengono condotte sull’incitazione alla xenofobia.
Che in tutta Europa, soprattutto nell’Est, le formazioni xenofobe e neonaziste siano in crescita è vero e che il tema dell’immigrazione sia passato da questione amministrativa e gestionale a questione politica lo è altrettanto; ma a decidere cosa fare non ci sono i piccoli partitini gemelli della Lega, bensì le Istituzioni europee. Difficile che il “fora di ball” possa convincere: come si può pensare che l’Europa possa assecondare le pulsioni italiane?
L’Italia, per via delle sue famigerate leggi liberticide contro l’immigrazione, viene considerata in tutta Europa un Paese xenofobo e anacronistico, che rifiuta di farsi carico della sua inevitabile quota di flussi migratori che gli spetterebbero in ragione della sua collocazione geografica, del suo peso economico, della sua densità popolativa e della sua estensione territoriale. Insomma l’Europa non assegna nessuna credibilità agli allarmi italiani sulla presenta invasione di migranti che subirebbe.
E’ proprio qui il problema. La credibilità del governo italiano in Europa è talmente scarsa che non solo non la si consulta nemmeno per le operazioni internazionali di guerra che la vedono direttamente protagonista, ma non vengono considerati credibili i suoi report politici, le sue richieste d’aiuto, in quanto ritenute costruite sul sentimento xenofobo del governo e non su circostanze reali. Del ricatto che la Lega esercita su Berlusconi, all’Europa non interessa, ancor meno delle esigenze lumbard per le elezioni amministrative, che si annunciano devastanti per le truppe guidate dal trota.
L’Europa è altra cosa. La Germania, alla fine dell’ottantanove, si trovò ad affrontare contemporaneamente due eventi epocali: un’immigrazione dalla Turchia di dimensioni enormi e, contemporaneamente, un flusso interno dall’Est verso l’Ovest seguito alla caduta del muro di Berlino. Ebbene, non si sognò mai di mettere in piedi un dispositivo repressivo che impedisse le due migrazioni, interna ed eterna. Riuscì, nonostante il contraccolpo economico pesantissimo derivante in particolare dai costi della riunificazione, a concepire una politica di assorbimento graduale ma continuo dell’emergenza, promuovendo politiche d’integrazione compatibili con le risorse a disposizione. E, va detto, ha accolto 400.000 immigrati dalla ex Jugoslavia. Tutto il contrario di quello che il governo italiano ha scelto e sceglie. E anche la Francia si è fatta carico di una quota d’immigrazione altissima, come del resto la stessa Gran Bretagna e la Spagna. L’hanno fatto senza chiedere all’Italia di cooperare.
Perché la lettura dei grandi scenari internazionali, dell’emergenza demografica internazionale, delle modificazioni profonde sull’organizzazione internazionale del mercato del lavoro, ha obbligato tutti coloro che sono dotati della capacità di delineare orizzonti politici a medio e lungo termine, a comprendere come la circolazione degli uomini non possa essere considerata un elemento momentaneo e l’integrazione è il prezzo dovuto alla nuova globalizzazione.
E’ tutto da vedere come l’entrata di nuove nazioni nel gotha dell’economia internazionale altereranno o modificheranno nel concreto il quadro attuale, ma pensare di affrontare il tema dei flussi migratori con le armi è idiota prima che criminale.
E’ vero, quella che abbiamo non è certo l’Europa disegnata da Spinelli nel Manifesto di Ventotene, tutt’altro. Continua a somigliare troppo alla definizione di quanti la ritengono un gigante economico, un nano politico e un verme militare. E anche sullo scenario internazionale l’Ue non ha dimostrato respiro e prospettiva politica tali da disegnare un progetto continentale, un modello sociale, giuridico, politico ed economico alternativo. Insomma nessuna nuova strada è stata presa e Bruxelles continua ad essere, nella sostanza, l’euroburocrazia che ha solo scalfito e superato le burocrazie nazionali. Ma non sono certo questi gli aspetti che spingono i balubba di governo a chiedere l’uscita dall’Unione; l’idea folgorante viene dalla lettura dei sondaggi sull’operato del governo del sultano.
L’Unione Europea è, e resta, comunque, l’unica strada possibile per sopravvivere alla crisi finanziaria globale (senza l’arrivo dell’Euro saremmo già andati nel default finanziario da anni). Resta comunque l’unico possibile veicolo per costruire un’identità continentale, un polo economico e sociale diverso, un’alternativa multipolare all’unipolarismo statunitense, un interlocutore credibile per il sud del mondo. Almeno se si crede che il prezzo della libertà transfrontaliera del denaro non possa essere pagato incarcerando gli esseri umani. Piuttosto che uscire dall’Europa, sarebbe il caso decidessimo di entrarci una volta per tutte. E questo, tra l’altro, passa anche per dotarci di un personale politico assolutamente distinto e distante da Maroni e Calderoli.
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di Rosa Ana De Santis
Le 48 ore annunciate sono passate e non solo gli sbarchi continuano, ma la soluzione politica si fa sempre più nebulosa all’orizzonte. In 12 ore sono arrivati quasi mille disperati a bordo delle solite carrette del mare. Nessuno sgombero dell’isola quindi, ma altri 7 sbarchi. Questa volta lo spot del premier dura ancor meno di quanto non sia accaduto per i rifiuti di Napoli e, forse per la prima volta in modo così plateale, l’onda di questa emergenza ha iniziato a far scricchiolare la maggioranza.
L’ipotesi avanzata dai buoni consiglieri del premier, e accettata dopo polemiche e resistenze dalla Lega, è quella di ricorrere per i migranti ad un permesso temporaneo di 6 mesi per l’area Shengen. Questa soluzione permetterebbe, come rivendicato dagli stessi stranieri in fuga, di utilizzare il nostro paese solo come area di transito e di vedere spostamenti in altri paesi europei: Francia, Germania ed altri. Una soluzione che farebbe calare anche i rischi di tensioni e proteste da parte di chi si ritrova nei fatti bloccato in tendopoli sparse, senza alcune informazione sulla propria futura collocazione e con una evidente limitazione della libertà individuale.
Intanto l’accordo di cui Berlusconi parlava da giorni con la Tunisia non esisteva e l’incontro con il premier tunisino Beji Kaid Essebsi ha semplicemente affermato una volontà di collaborazione che per ora non ha lasciato carte scritte. Una commissione di tecnici è rimasta al lavoro, ma Maroni non ha alcun accordo in tasca. Del resto la Tunisia, dopo la rivoluzione dei gelsomini e la deposizione di Ben Ali, è un paese in piena ricostruzione con problemi enormi da affrontare, impensabile vederlo come partner ideale, dotato degli strumenti idonei, per intervenire in una crisi politica internazionale di questa portata. Anche la Commissione Europea, dopo aver riconosciuto alle autorità nazionali il potere di concedere permessi temporanei, ha ipotizzato, in caso di aumento dei flussi, soggiorni di un anno per i paesi comunitari.
L’onda dei profughi e dei rifugiati ha obbligato persino la politica di casa nostra, stereotipata su retorica mista a xenofobia, di ricorrere a strumenti politici e legislativi di accoglienza intelligente e condivisa con il resto dell’Europa. Per necessità si è dovuti andare oltre alle richieste di Bossi e dei suoi compari che volevano che i migranti non disturbassero i Comuni del Nord. Inizia però ora un’altra partita, più insidiosa, che sarà affidata alle amministrazioni locali e alla società civile, regione per regione; e sarà lì che il matrimonio con la Lega, che le fonti Pdl ancora danno per granitico e blindato, affronterà la sua sfida più ardua.
I voti dati agli sbandieratori del razzismo e della Padania, faranno fatica a riconoscersi in un governo che non ha voluto né potuto organizzare i rimpatri di massa, gridati nei comizi. Il primo a insistere su questa spaccatura è proprio il Ministro degli Interni, Maroni, che va a Tunisi con l’obiettivo principale di bloccare gli sbarchi, mentre Palazzo Grazioli da il via al permesso di soggiorno. Ci sono insomma due sensibilità politiche che, ora più che mai, escono allo scoperto e vedono proprio il premier in una posizione più sofferta e meno idillica con il Carroccio. Da un lato le soluzioni politiche di lungo respiro e l’Europa, che Berlusconi non può disattendere, dall’altro il carattere populistico e anti europeo della Lega.
Un veleno che rischia di far pagare prezzi altissimi a chi è in fuga dalle macerie del Nord Africa e forse anche a questa maggioranza che, senza spot e personalismi, torna a contare i propri voti e a svelare i numeri che il Cavaliere non ha. La sensazione è che invitare Bossi nella nuova reggia di Lampedusa per un accordo in casa, questa volta proprio non sarebbe una valida mossa, né sortirebbe gli stessi felici esiti di Arcore.
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di Mariavittoria Orsolato
Scene da far west hanno mostrato all’Italia l’immagine di quella che dovrebbe essere una delle più importanti istituzioni italiane. Una Camera che sembrava una Suburra: La Russa che manda platealmente a quel paese - per usare un eufemismo - il presidente Fini, ministri che corrono per votare all’ultimo minuto e lanciano con sprezzo le loro schede, parlamentari che si tirano oggetti e dialogano a cori manco si trovassero nella curva sud di uno stadio.
Il motivo scatenante è, al solito, il Presidente del Consiglio e le sue beghe personali, che cerca di risolvere con provvedimenti ad personam: prima la discussione sul conflitto di attribuzione per il processo Ruby e poi lo slittamento dell’esame del testo sul processo breve. Su entrambe le questioni la maggioranza ne è uscita sconfitta.
Nel primo caso perché anche se si è riusciti a stabilire come data di discussione il 5 aprile, il processo per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile avrà comunque inizio il giorno seguente; nel secondo perché il rinvio rappresenta una retromarcia forzata per l’Esecutivo, che sperava di chiudere in fretta ma si ritroverà la prossima settimana il ddl all'ultimo punto dell'ordine del giorno.
Una beffa di quelle che solo la politica italiana può offrire, dal momento che ad accendere gli animi di Montecitorio e della piazza, lo scorso giovedì, era stato proprio il blitz di Pdl e Lega per stravolgere l'ordine del giorno dei lavori e mettere al primo posto la discussione sulla legge tanto cara al Premier.
Lanci di monetine e contestazioni di massa che non si vedevano dai tempi di Tangentopoli hanno salutato l’involuzione definitiva dei politici italiani che, a destra come a sinistra dell’emiciclo, si sono dimostrati assolutamente inadatti a rappresentare un Paese che tra crisi economica infinita, crescita zero e guerra a un tiro di schioppo, tutto necessita fuorché l’obbrobrioso teatrino cui siamo stati costretti ad assistere negli ultimi due giorni. Lungi dal qualunquismo - che fascista era 70 anni fa e fascista rimane anche oggi - il giudizio sui nostri rappresentanti non può non essere impietoso.
Se quindi è bene ricordare l’inadeguatezza della maggioranza nel legiferare, è altrettanto salutare riconoscere che al Pd, parafrasando il tormentone del Gratta e Vinci, piace perdere facile. Lasciandosi andare a gesti degni di un primate (vedi il lancio di giornali, faldoni e quant’altro) la maggioranza ha dato sfogo alla frustrazione di non essere riuscita nel realizzare il diktat del premier, mentre l’opposizione ha dato (se ancora ce ne fosse bisogno) l’ennesima prova della sua totale inutilità, mostrando due evergreen della nomenclatura (Massimo D’Alema e Rosy Bindi) battibeccare sulla possibilità o meno di ritirarsi in un’aventiniana astensione.
Immobili e insulsi nelle loro retoriche bagatelle, i deputati della XVI legislatura si stanno infatti dimenticando del paese reale, svuotando di significato l’azione parlamentare ormai costretta a sottostare ai tempi giuridici di un premier pluri-imputato. Certo, il cittadino Berlusconi è sicuramente l’emblema del controverso, ma non è più umanamente accettabile che dopo 17 anni di convivenza istituzionale si faccia ancora a gara di insulti, ostentando una versione manichea della politica che nella prassi non esiste.
Maggioranza e opposizione possono ancora chiamarsi tali fin tanto che in ballo c’è Berlusconi. Poi, quando le questioni esulano dal personale arcoriano e abbracciano interessi potenzialmente collettivi, mettersi d’accordo è cosa assai semplice.
Lo vediamo ogni volta che si tratta di difendere i paletti che rendono l’attività politica una casta a tutti gli effetti o quando si tratta di impunità generalizzata, vedi l’indulto del 2006 che più che svuotare le carceri ha permesso di evitare le patrie galere ad amministratori di ogni colore politico.
Le speranze di sobrietà e di ritorno ad un vero dialogo istituzionale continuano ad essere riposte nel presidente della Repubblica, che nella serata di giovedì, con una iniziativa legittima quanto inusuale, ha deciso di convocare al Colle i capigruppo di Camera e Senato per quelle che appaiono come consultazioni informali sulla situazione politico-parlamentare, ma che hanno tutta l’aria di essere un ufficialissimo richiamo all’ordine.
Le conversazioni, a quanto si apprende, non si sarebbero concentrate esclusivamente sui fatti oggettivamente incresciosi di questi giorni ma avrebbero affrontato la situazione più in generale. Garantire la piena funzionalità del Parlamento, un confronto aperto e il rispetto delle regole e dei regolamenti: queste le raccomandazioni che Napolitano ripete ormai come un mantra. Parole al vento per quelli che la costituzione chiama deputati alla rappresentanza popolare ma che nella pratica politica si rivelano solo dei debosciati.