di Carlo Musilli

Che l'Italia abbia venduto ai ribelli libici le armi per la rivoluzione è probabilmente una calunnia del rais Gheddafi. Che l'Italia abbia venduto al rais Gheddafi molte delle armi con cui l'esercito sta massacrando i ribelli libici, invece, è un dato di fatto. Veicoli terrestri e aeromobili, siluri, missili, razzi e bombe di ogni sorta: per Tripoli il nostro Paese è come un Babbo Natale con la sacca piena di bei giocattoli. Nessuno in Europa ha rifornito l'arsenale del regime più di noi.

Soltanto nel biennio 2008-2009, stando ai dati pubblicati dalla Ong Unimondo, le ditte Italiane hanno spedito in Libia armamenti per oltre 205 milioni di euro. Una cifra astronomica che ci fa salire spediti sul gradino più alto del podio. Al secondo posto la Francia, superata per distacco, con le sue misere esportazioni da 143 milioni di euro.

Complessivamente, la Libia è l'undicesimo miglior acquirente di armi italiane e riceve circa il 2% delle nostre esportazioni. Eppure, l'armeria italiana non è sempre stata così munifica con i suoi figli nordafricani. La vera cuccagna è iniziata solo nel 2004, quando l'Unione Europea ha revocato l'embargo totale sulla Libia. Ancora nel 2006, il giro d'affari non arrivava ai 15 milioni di euro, ma già l'anno successivo i conti sono schizzati fino a sfiorare i 57 milioni.

Dopo di che a Berlusconi e Gheddafi è parso opportuno unire i due paesi in regolare matrimonio con il "Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione fra Italia e Libia", firmato a Bengasi nell'agosto 2008. All'articolo 20, il documento che sancisce la nostra "amicizia" col regime di Tripoli, prevede "un forte ed ampio partenariato industriale nel settore della Difesa e delle industrie militari" e perfino un'ampia "collaborazione nel settore della Difesa tra le rispettive Forze Armate".  Arriviamo così ad esportare armamenti per quasi 112 milioni di euro del 2009. In tre anni, un incremento del 746%.

Tanto calorose sono state le nostre dimostrazioni di fratellanza, che non poteva mancare una contropartita. Abbiamo ottenuto materie prime e un occhio di riguardo per le nostre maggiori imprese attive in Libia: Eni, Anas, Impregilo e, soprattutto, Finmeccanica. Quest'ultima è una holding con 328 società controllate, specializzata prevalentemente nel settore della difesa e della tecnologia aerospaziale. Quanto alla proprietà, il 32,5% di Finmeccanica è del ministero dell'Economia.

Il secondo azionista, guarda un po', è la Lybian Investment Authority, che ha in tasca il 2,01%. Si tratta di un fondo sovrano, cioè un veicolo d’investimento pubblico, per quanto la definizione abbia senso in un regime dittatoriale.

Il laccio che lega la realtà italiana a quella libica è diventato indissolubile nel luglio 2009, quando Finmeccanica e Lybian Investment Authority hanno creato una joint-venture da 270 milioni di euro per gestire gli investimenti industriali e commerciali in Libia e in altri paesi africani.

Tutto questo la dice lunga sul comportamento del nostro ministro degli Esteri, Franco Frattini. Mentre i suoi colleghi europei interrompevano i rifornimenti di armi a Gheddafi, lui è rimasto in silenzio. E quando ha aperto bocca lo ha fatto per dire ai microfoni dei giornalisti europei frasi come questa: "Non dobbiamo dare l'impressione sbagliata di voler interferire, di voler esportare la nostra democrazia.

Dobbiamo aiutare, dobbiamo sostenere la riconciliazione pacifica: questa è la strada". Evidentemente qualcuno a Bruxelles deve avergli fatto presente che al momento in Libia c'è la guerra civile, perché, subito dopo la riunione comunitaria di alcuni giorni fa, Frattini si è convinto ad essere un tantino più incisivo, condannando "la repressione in corso contro i manifestanti" e chiedendo “l'immediata fine dell'uso della forza".

I motivi d’imbarazzo non sono mancati neanche durante il vertice. L'Italia ha infatti appoggiato la proposta del ministro maltese di inserire nel comunicato Ue una frase per riconoscere "i diritti sovrani della Libia e la sua integrità territoriale". Fortunatamente, i rappresentanti di altri paesi hanno intuito che un'affermazione del genere poteva suonare come una legittimazione della mattanza in corso e li hanno convinti a lasciar perdere. Ma c'è un ultimo dettaglio da notare. Nella speciale classifica degli esportatori di armi in Libia, che ci vede gloriosamente in testa, chi troviamo al terzo posto? Proprio Malta. Ma guarda..

di Rosa Ana De Santis

Il Sindaco Alemanno annuncia gli Stati Generali della Capitale al pari di un debutto. Va in scena il piano strategico di sviluppo di Roma, la pianificazione di un progetto socio-economico generale anche in vista delle Olimpiadi del 2020. Le parole d’ordine della Giunta Capitolina sono competitività, solidarietà e sostenibilità. A guastare la festa, la concomitanza, poco gradevole, di arrivare a quest’appuntameno con una giunta rimpastata da poco e con gli scandali di parentopoli sulle municipalizzate che ancora scottano. Per non parlare degli ultimi stupri in pieno centro storico e dell’incendio costato la vita a quattro bambini nomadi.

La seduta al Palazzo dei Congressi dell’Eur è iniziata con l’allontanamento da parte delle forze dell’ordine dei presidenti dei Municipi di centro-sinistra che distribuivano volantini di protesta. L’avvenimento, giustificato con la mancata autorizzazione al sit in, rappresenta invece la quintessenza di come Sindaco e giunta abbiano governato la città negli ultimi tre anni.

Accentramento, scollamento tra Campidoglio e territorio, superfinanziamenti destinati allo staff del Sindaco e alla sua squadra sovradimensionata di addetti alla comunicazione. Il tutto in una cornice di gradimento popolare sempre più basso, di cui la sconfitta della Polverini su Roma alle ultime regionali ne era già stata una prova evidente.

I numeri del piano strategico di sviluppo rimandano a una sfida complessa che avrà bisogno del massimo impegno e della più rigorosa responsabilità da parte delle Istituzioni capitoline. Questo il messaggio arrivato dal presidente della Repubblica. Parliamo, infatti, di progetti per 21,9 miliardi, di cui 3,5 già attivati per quanto riguarda il pubblico e 240 milioni per quanto riguarda il privato. Tutti da spendere per salvaguardare il passato di Roma e preparare al meglio la città per tutti i traguardi futuri.

Quindi si parlerà di una Roma Internazionale e della necessità di costruire un melting pot per gli stranieri, di un’Agenzia per lo sviluppo utile ad ottimizzare gli sforzi degli imprenditori romani che hanno contribuito a svecchiare Roma e a reggere benissimo l’urto della crisi economica. Infine le Olimpiadi: occasione di business e anche di tonnellate di cemento. Speriamo almeno non con lo stesso epilogo delle strutture incomplete e lasciate a metà per gli ultimi Mondiali di nuoto.

Non c’è dubbio che un effetto d’immagine immediato questa parata di Istituzioni, Accademie e Industriali lo abbia ottenuto, rimandando Alemanno in prima pagina non più per gli scandali delle assunzioni all’Ama e all’Atac e tacendo tutti i problemi irrisolti. Non si è infatti accennato, nella kermesse elettoralistica del sindaco, alle perle che lo hanno etichettato ormai come Ale-danno: la sicurezza, lo smantellamento dei grandi campi rom abusivi, il rimpallo con la Regione sul sito di Malagrotta e la politica dei rifiuti; quindi la gestione a singhiozzo della raccolta differenziata, l’alto indice di disoccupazione giovanile, la mancata riqualificazione di tante aree non solo periferiche che versano nel peggior degrado.

Su questi “dettagli” hanno provato a rinfrescare la memoria al sindaco i Municipi esiliati dalla parata istituzionale e identificati in piena atmosfera di regime. Alemanno risponde con il progetto di Tor Bella Monaca di Leon Krier, con l’idea di fare della periferia un altro Eur e con un super ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino.

Insomma Alemanno racconta, nella sontuosità di questi stati generali, un’altra Roma. Diversa da quella che vede ogni giorno la gente comune. Il Sindaco annuncia una città in vita, ricca di opportunità e di slanci, di modernità, con una fittissima agenda davanti a sé. Per ora manca anche solo una parola per i cittadini, per i disoccupati, per le famiglie in difficoltà e per gli stranieri. Ma gli Stati Generali non sono per loro e nemmeno per i romani. Servono tanto invece a questa Giunta, alla sua politica arrotolata su se stessa, allo sfarzo del grande vertice che nasconderà per un attimo le nefandezze su cui sta indagando la magistratura.

Quelle che fanno saltare i nervi al sindaco ad ogni intervista con fin troppa evidenza. Ma oggi è il giorno del futuro e della speranza, le polemiche sono quasi di cattivo gusto. La nuova Roma sarà non soltanto fucina d’idee, ma anche grande cantiere e quindi lavoro per tanti. Speriamo non per altri mille figli e amanti degli amici.

di Rosa Ana De Santis

C'é voluto un decreto per dire che l'Unità d'Italia é una festa. E ci siamo dovuti anche sorbire le proteste della Lega secessionista. Riuscire a trasformare una data simbolica così importante per il nostro Paese in un’opera buffa, irriverente e grottesca, non era un’impresa semplice; eppure questo è quello che accadeva da diversi giorni. Lo show della Lega, la Gelmini che vorrebbe tutte le scuole aperte, la Marcegaglia che striglia gli operai e poi La Russa, imbarazzato cantore obbligato del Risorgimento e della Bandiera. Un Arlecchino in commedia come degno ritratto di un paese frammentato, che non ha fatto molta strada dal tempo dei principati e dei piccoli Stati.

Anche Giuliano Amato, presidente del Comitato dei Garanti per le celebrazioni dei 150 anni dell'Unita' d'Italia, ha suggerito di non pensare il 17 marzo come una giornata obbligata di vacanza, ma piuttosto come un momento di ricordo e di memoria dei valori del Risorgimento. Un giorno tutto da pensare: educazione civica per i giovanotti, lavoro per ricordare i sacrifici che ci chiede la crisi, quasi l’enfasi di un sacrificio collettivo per la nostra Patria in alto mare.

Nemmeno i versi più gonfi dell’enfasi poetica risorgimentale avrebbero intonato l’amor di patria con tanta retorica. Ci pensa invece questo governo allo sbaraglio, senza vocazione politica, privo di credibilità e promotore di un assalto alla dignità delle Istituzioni a dare lezioni. Soprattutto ci pensa la Lega, la madre di tutti i sentimenti di divisione, di pericoloso secessionismo, di avversione al tricolore, al buon senso e alla cultura, a dare le linee della ricorrenza. Una beffa, mal celata dalla necessità che persino il Ministro Gelmini sente di denunciare la sua iniziativa come autonoma e non appiattita alle volontà di Calderoli e dintorni.

L’idea che dare la vacanza di un giorno agli italiani sia un lusso che la nostra economia non può permettersi, suona poco credibile a chiunque abbia un po’ di buon senso. Chi vede la minaccia di una vacanza è invece chi pensa e legge la crisi guardando solo al portafoglio delle imprese, quando è piuttosto condiviso il dato che non sia stata la sofferenza della produzione a causare la crisi endemica che sta tagliando le teste,  soprattutto delle nuove generazioni.

Se si volessero commemorare sul serio i padri del Risorgimento si dovrebbe pensare a reintrodurre una materia tanto svilita come l’educazione civica. Si dovrebbe difendere la religione della Carta costituzionale sempre, oltre che volentieri. Non serve tanto ingegno a capire che è in atto un boicottaggio leghista della Festa che celebra l’Unita d’Italia e che il governo, incollato per sopravvivere alle camice verdi e lanciato nell’impresa di fare poltiglia dei principi fondanti della Repubblica e del sistema di pesi e contrappesi che la protegge, segue l’onda lunga di un conveniente suicidio della Patria.

Perché la storia è un fastidio, la Costituzione anche. E’ questo ciò che documenta la cronaca del peggior Parlamento della storia italiana. Dobbiamo togliere tutte le ricorrenze costose e poco adeguate al rigore etico che ci impone crisi. Questo è il monito della polemica delle ultime ore?

Se proprio la necessità di non interrompere la produzione dev'essere la priorità (e fa ridere di per sè) nei festeggiamenti delle ricorrenze, potremmo iniziare da quelle religiose che non appartengono a tutti, ad esempio. L’Immacolata Concezione dell’8 dicembre e l’Assunta in cielo del 15 agosto, tanto per cominciare.

E ancora, gli innumerevoli patroni cittadini, così scomodi per le aziende che hanno sedi in diverse città; e quel 6 gennaio dell’Epifania, così troppo italiano e legato alla storia delle streghe terrone del beneventano. E poi concludere mettendo le mani su tutte quelle del calendario civile. Di questo passo il Parlamento di Arcore proporrà di azzerare il 25 Aprile, che sebbene sia la giornata che celebra la ritrovata dignità nazionale, la cacciata dell'invasore straniero e dei fascisti suoi alleati, per alcuni è la ricorrenza di una liberazione che puzza un po’ di comunismo; e poi quel 2 giugno inutile, che forse racconta anche di una vittoria elettorale dubbia.

Iniziamo con questo 17 marzo, che proprio non possiamo permetterci nemmeno per un anno, perché quel giorno bisogna produrre rigorosamente in nome dell’Italia. Come se questo servisse alle sorti dei cassintegrati, dei precari cronici e dei disoccupati. Menzogne che riempiono di battibecchi il Consiglio dei Ministri, che dovrà prendere una decisione definitiva (immaginiamo la fervente discussione!!), e che occultano le reali ragioni della palude in cui stagna questo Paese. Delle soluzioni non c’è traccia, tantomeno in casa dell’opposizione che, chiusa in preghiera in attesa del papa (straniero?) non tira fuori mezza parola se non per divertirsi dello spettacolo di un governo che riesce a dividersi perfino su questo.

Se le scuole rimarranno aperte, sarà bene che la Gelmini preveda una lezione speciale per quelli che il tricolore lo bruciano e lo vilipendono quando lo vedono pendere sulle adunate del Carroccio. E sarebbe ancora meglio se questa si tenesse in Parlamento alla presenza di tutti gli onorevoli deputati, tra una votazione e l’altra. Mentre le fabbriche producono e gli uffici sono aperti. Forse l’emiciclo non sarebbe stipato, osiamo immaginare.

Questa festa la sua funzione l’ha comunque pienamente assolta. Non solo quella di mostrare le differenze e le divisioni che caratterizzano la nostra democrazia e che ne segnano tutta la debolezza, ma quella di ricordare che senza un processo calcolato e non spontaneo, dall’alto e similmassonico, gli italiani l’Italia unita non l’avrebbero fatta mai.

Togliendo ogni slancio di fiducia al programma di Cavour, oggi possiamo esser certi che mentre l’Italia c’è e rimarrà, gli italiani non esisteranno mai. Le fratture di cultura, di clima, di geografia e di psicologia e un comune tratto di facile affascinamento al padrone, sono condizioni che configurano il nostro come lo strano caso di un paese senza popolo.

Una massa che si lascia schiaffeggiare, depauperare, togliere ogni storia; che ammette ogni abuso delle Istituzioni senza avvertire la nausea di un oltrepassamento senza ritorno, irreparabile e pericoloso. Massa che si destreggia tra un tiranno e una liberazione importata. Con poche, pochissime eccezioni di eroismo patriottico, le cui ultime pagine vennero scritte nelle strade di Genova nel Luglio del ‘60.

Un paese condannato a non conoscere mai il gusto di una rivoluzione. Magari intendeva questo il mai troppo rimpianto Giorgio Gaber quando cantava di non sentirsi italiano. “Ma - concludeva - per fortuna o purtroppo lo sono”.

 

di Rosa Ana De Santis

Un pallido e patetico ricordo la cornacchiante manifestazione della Santanchè contro i giudici. Così come tutte le sue oratorie in mondovisione da donna del governo. O da donna degli uomini di governo. Impossibile qualsiasi tentativo di parallelismo e confronto, tranne per la Gelmini, che dice di aver visto in piazza le solite radical chic. Oggi invece la matematica ammette solo obiezioni intelligenti. Un fiume di donne, un’invasione composta e massiccia ha invaso le città d’Italia ed é arrivata persino fuori i confini nazionali, con un tam tam che ha convinto tanti, tantissimi ad uscire da casa.

Oltre un milione l’adesione dei cittadini all’appello “Se non ora quando?”. Studentesse, mamme, donne mature, bambini al seguito e tanti uomini, tutti a sfogare lo sdegno e lo sprezzo per un paese ridotto a bordello, per l’azzeramento della dignità della politica e di una patria intera. Il bersaglio non è solo il Cavaliere, come titola Il Giornale in basso nella home page a poche ore dalla manifestazione: il nemico vero è l’età berlusconiana. Gli sfarzi e i sollazzi di un impero in decadenza, una scena irriverente che ha contaminato ogni angolo del Palazzo trasformando la contestazione politica in una necessaria difesa delle categorie morali.

Tante le lettere e le testimonianze. Molte rivolte proprie alle ancelle di Berlusconi. Alle sue prostitute private. Alla giovanissima Ruby. Non è l’atteggiamento privato che conta, non del tutto almeno, ma la benedizione pubblica alla compravendita dei corpi e del sesso come canale di ascesa, come viatico per una candidatura politica, o per una qualsiasi carriera professionale femminile. E’ quest’assoluzione pubblica per i più bassi istinti del ventre maschile che sta seppellendo anni di autocoscienza femminile e la dignità delle donne di oggi.

Questa la sostanza su cui Berlusconi ha costruito la sua vittoria politica negli anni: togliere la vergogna a quello di cui prima ci si vergognava. Assolvere se stesso per assolvere tutti quelli che fanno o vorrebbero fare come lui. Un livellamento al ribasso e in basso che sta smembrando, insieme alla stabilità politico-economica dell’Italia, i criteri morali dell’azione pubblica, i riferimenti sociali, la memoria della storia e la comprensione del senso del giusto. Che non è per niente la stessa cosa del piacere e del piacevole.

La piazza di oggi non è solo quella del giudizio sul bordello del premier, ma è quella che fa il bilancio a un consenso che ormai sta in piedi su una manciata di deputati prezzolati in Parlamento, e che dimostra l’urgenza del cambiamento. E’ una protesta che è dentro la politica del Paese, ma che la supera e va oltre. L’opposizione dovrà affrontare forse il rischio delle elezioni con una legge porcellum che

azzera qualsiasi barlume di rappresentanza democratica; sicuramente guardare a questa piazza in pacifico assedio per scongiurare l’abitudine delle repliche necrotiche cui ci ha abituati. Compreso l’ultima proposta di marmellata di bandiere di cui si è fatto promotore D’Alema. Questa piazza è pacifica, ma integralista, nel senso migliore del termine. Non è intollerante, ma è categorica.

Una domanda, in parte taciuta, sta sulle teste di questa protesta rosa. La curiosità di capire chi siano davvero Ruby, le vallette e le amiche di Lele Mora, Fede, Corona e Berlusconi. Prostitute per scelta come tante, come ce ne sono sempre state. Disperate a caccia di fortuna facile. Nulla che il femminismo storico non abbia persino rivendicato con furore reclamando totale e disinvolto dominio del proprio potenziale genitale e della sua amministrazione. Ma il veleno vero di questa epoca è l’estensione del mestiere più antico del mondo a un preciso modo di intendere la vita femminile.

La nobilitazione della vendita di sé a modello da copertina, famoso e di consenso, è qualcosa cui le donne, proprio le giovanissime figlie di quelle mamme emancipate, si sono prestate con disinvoltura. Nell’ossessione dello spettacolo, nei provini con familiari tifosi al seguito, nel riduzionismo della personalità all’estetica e alla reificazione della vita.

Questo straordinario fallimento generazionale le donne di oggi lo denunciano e lo combattono. Lo gridano quando chiedono una rappresentanza diversa, una società che le rispetti e le tuteli, un modo diverso di pensare la vita. Ma ancora non ne comprendono forse tutte le ragioni e tutte le proprie responsabilità. Il motivo per cui tante, tantissime figlie di oggi, anche istruite e talentuose, sognano di essere le preferite del drago.

 

di Rosa Ana De Santis

Sono morti domenica sera, sotto le scintille di un tizzone dimenticato dai genitori. Quattro bambini, fratellini gitani, hanno perso la vita nelle lamiere infuocate della loro baracca. Avevamo capito che l’impegno della Giunta Capitolina contro gli insediamenti abusivi sarebbe stato l’assoluta priorità. Questo avevano titolato i giornali sotto le foto delle ruspe che avevano iniziato ad ingoiarsi il Casilino 900.

Poi arriva l’ ennesima tragedia, il veloce vertice tra il sindaco Alemanno e l’assessore Belviso alle Politiche Sociali e l’annuncio dello sgombero immediato di questo insediamento sull’Appia Nuova. Il solito metodo, se così è possibile definirlo, dell’azione post emergenza e del ritardo con cui la nostra politica e le istituzioni preposte arrivano sulle grandi questioni che contraddistinguono la civiltà di un paese.

Il Piano Nomadi, su cui sono piovuti tantissimi fondi e su cui si è concentrata la peggiore voce della propaganda di destra, ad oggi non ha portato alcun risultato difendibile. Di fronte alla tragedia degli innocenti c’è chi rivendica una linea ancora più dura, come se l’espulsione coatta dei rom, la chiusura dei campi senza alternative, la deportazione delle famiglie e dei bambini costretti a cambiare infinite volte scuole e comunità, avesse portato a scongiurare pagine vergognose di cronaca come quella di questo ultimo rogo.

Il giorno del lutto è soprattutto il giorno della responsabilità e dell’incapacità politica: la propaganda che ha parlato alla pancia della gente, accatastando voti, senza alcun programma strategico e senza alcun piano per il futuro, ha seminato altre vittime. Non c’è bisogno di andare troppo lontano per ispirarsi e modelli politici efficaci. Basterebbe prendere esempio da quanto accaduto in Emilia-Romagna, tra Bologna e altre città, in cui molti campi sono stati abbandonati per le case: l’unico modo per scongiurare le tragedie del fuoco o il mantenimento di tante altre condizioni disumane. Le famiglie beneficiarie pagano il 50% dell’affitto e per molte di queste si è innescato un vero e progressivo processo d’integrazione che ha giovato alla sicurezza di tutti.

Il dato più agghiacciante è quello che emerge dalla relazione annuale di Save The Children. Sono i bambini, i minori delle comunità rom, quelli che hanno pagato il prezzo più alto. L’estrema povertà in cui vivono, la schedatura delle loro impronte, i ripetuti sgomberi senza alcun piano di accoglienza, sono tutto quello che una città come Roma e la comunità che si ritiene civile gli ha riservato. Perdendo di vista diritti fondamentali in nome dell’emergenza e offrendo tesi che altro non sono se non rigurgiti di xenofobia. Se dalla baraccopoli passiamo alla tendopoli - sempre temporanee, come proposto dal sindaco - è difficili credere che si vada verso una gestione diversa del problema rom. E’ difficile soprattutto pensare che se queste comunità continueranno a galleggiare nel degrado e nel sommerso, consegnando i figli all’inferno dell’elemosina e dell’accattonaggio, senza alcuna istruzione e tutela, possano crearsi le premesse per un’integrazione e una convivenza meno problematica con queste comunità.

Pensare l’integrazione come un processo monodirezionale, solo a carico delle categorie sociali emarginate, in cui le istituzioni scansano ogni incombenza del lungo periodo e mettono tutti i soldi (o almeno così dicono appena passate le elezioni) nelle operazioni delle ruspe e della polizia, è ingenuo oltre che sbagliato concettualmente. Molti di questi rom sono italiani, per molti di loro non può valere neppure la più volgare propaganda contro gli stranieri. E chi paga per la morte di questi zingari italiani?

E’ l’Associazione 21 luglio, impegnata per i diritti dei bambini rom, a denunciare con i numeri alla mano la cattiva politica del Campidoglio, mentre sindaco e assessori piangono le vittime addobbati per l’occasione. Il piano degli sgomberi è costato più di quello che sarebbe costato un qualsiasi altro progetto di accoglienza e integrazione: almeno 2-3 milioni già spesi e altri fondi richiesti dal Sindaco per altre ruspe.

Più tutti i soldi mai contabilizzati per i vari ampliamenti (come quello del campo di Salone dove non sono state più pagate le utenze prima parzialmente pagate), poi per la sostituzione di videocamere pienamente funzionanti in nome della sicurezza, quindi per gli scavi archeologici fatti nella zona del campo di Ciampino: un campo sotto gli aerei e a bordo del raccordo anulare che è costato fiumi di soldi straordinari.

Tutte mosse giustificate dall’emergenza, dalle elezioni o, come in questo caso, dalla morte di quattro bambini. Un business a tappe che conviene moltissimo a tanti. L’emergenza è funzionale e necessaria, non è l’effetto collaterale. Su di essa é costruito ogni respiro della nostra politica e tutta la traballante giunta della Capitale, infestata da copiosi scandali (occultati davanti alle telecamere dai rimpasti dell’ultima ora) e in piena paralisi operativa. Vorremmo credere che questa morte in fasce di quattro piccoli zingari in mezzo alla grande metropoli romana bastasse a capire che è difficile stabilire il confine della civiltà e che è sempre più incredibile pensare che essa sia la tabula rasa di una ruspa, lo spostamento coatto delle famiglie e le prossime tende che vedremo sotto i ponti delle periferie.


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