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di Ilvio Pannullo
In un momento in cui al bilancio dello Stato viene imposto un dimagrimento forzoso di 25 miliardi di euro come richiesto dall’Europa, la stabilità del governo è appesa ad un filo. Secondo voci lasciate serpeggiare fuori dai palazzi del potere, infatti, la prossima tornata di decreti attuativi sul federalismo fiscale, dopo quello demaniale approvato prima di Natale, è attesa proprio per il mese di giugno. Mancano i soldi per la sanità, per la scuola, per la cultura, ma per evitare la caduta del governo si dovranno trovare quelli necessari per sopportare il costo della rivoluzione che interesserà il nostro sistema istituzionale.
La resa dei conti dovrà comunque arrivare prima della pausa estiva. Un'accelerazione imposta e ottenuta da Umberto Bossi e da tutta la Lega Nord, in cambio del via libera ai provvedimenti sulla Giustizia, tanto cari al Popolo della Libertà. L’unità della Repubblica in cambio della certezza del diritto: un equo scambio per un’Italia troppo ignorante e plebea per ricordarsi della propria storia e della propria Costituzione.
A sorvegliare sull’andamento e sulla fattibilità dello scambio non c’è di certo il PD, che con i sui responsabili per le riforme istituzionali e sulla giustizia, rispettivamente Luciano Violante e quell’Andrea Orlando tanto caro al Foglio di Giuliano Ferrara, lancia continuamente segnali di ammiccamento al partito dell’amore. Accade così l’impensabile: a tenere testa ai disegni eversivi del governo l’unica voce che si alza forte e chiara dal chiacchiericcio politichese è quella del Presidente della Camera Gianfranco Fini.
"Il federalismo non può essere un destino ineluttabile se per realizzarlo si mette a repentaglio la coesione nazionale". Queste le parole dell’ex fascista, ex missino ed ora Presidente della Camera dei Deputati, Gianfranco Fini, alla presentazione del libro "100 anni d’imprese. Storia della Confindustria 1910-2010". Consapevole dei problemi economici che potrebbero derivare da un’attuazione all’italiana del federalismo politico, fiscale e demaniale, la terza carica dello Stato ha poi infilato il dito nella piega delle preoccupazioni leghiste ribadendo la necessità che siano ben chiari i costi della riforma.
La vera svolta sarà, infatti, la definizione dei famosi "costi standard"o LEA, livelli essenziali di assistenza. Per garantire l’autonomia di entrate e spese a Regioni ed Enti Locali e decidere i livelli di perequazione, si passerà in maniera progressiva dal criterio della spesa storica a quello del costo standard, per garantire che i servizi fondamentali costino e siano erogati in maniera uniforme sul territorio nazionale. Il costo standard consentirà di determinare, per ciascun livello di governo, il fabbisogno di cui necessita un’amministrazione e quindi l’eventuale trasferimento perequativo cui avrà diritto in caso di entrate fiscali insufficienti a garantire i servizi. Ma non finisce qui.
Si punta a un calo complessivo della pressione fiscale. Con i decreti attuativi dovrà essere "garantita la determinazione periodica del limite massimo della pressione fiscale, nonché del suo riparto tra i vari livelli di governo". Il governo si è impegnato a fare in modo che con i decreti attuativi non si superi il livello massimo di pressione fiscale fissato nel Dpef e che entro i due anni successivi alla data in vigore dei decreti legislativi questa non superi il 42% e il 40% nei tre anni che seguiranno il primo periodo. Insomma, il federalismo fiscale sta per entrare nel vivo.
Visto che Bossi parla di federalismo da almeno 20 anni, ci eravamo abituati a considerarla una parola-mantra, di quelle che non hanno un significato ma solo un suono evocativo. Lascia quindi un po’ stupefatti vedere il federalismo concretizzarsi in documenti legislativi dall’evidente valore politico. Dopo il parere favorevole della Bicamerale, che ha visto l’astensione del Pd e il voto favorevole dell’Italia dei Valori, il Consiglio dei Ministri ha da poco approvato il cosiddetto “federalismo demaniale”, che prevede il trasferimento del patrimonio pubblico agli enti locali, che potranno eventualmente valorizzarlo, gestirlo e persino vendere ma solo per ridurre il debito e non per finanziare la spesa corrente.
Mentre si segnala cautamente che il patrimonio pubblico demaniale è la garanzia reale del debito pubblico, sottoscritto dallo Stato e non certo dagli enti locali, si scopre che il nostro federalismo incuriosisce anche all’estero: anche tra i burocrati del Parlamento europeo a Bruxelles, c’è chi vuole saperne di più e seguire l’evolvere della situazione, non ultimo per vedere di cosa sono capaci gli italiani. Ed è qui il punto: siamo davvero capaci di tutto.
Alla luce dell'esperienza maturata nelle ultime due legislature, sarebbe comunque da ritenere altamente raccomandabile deporre la concezione eroica della riforma costituzionale - il riferimento è ovviamente alla pretesa di intervenire con una grande riforma di tipo palingenetico - per abbracciare la prospettiva, forse non appassionante ma certamente più costruttiva, della manutenzione della Costituzione.
Che è, in genere, la prospettiva coltivata negli altri Stati europei. Tale mutamento di approccio avrebbe il grande merito di deideologizzare il dibattito sulle riforme, spostando l'attenzione dai modelli generali, alle misure concretamente attuabili: dagli slogan alle esigenze da soddisfare, dagli spasmi populistici agli strumenti tecnici all'occasione utilizzabili.
Un rischio, che, in presenza di un quadro politico estremamente frammentato come quello italiano, è proporzionale all'ambizione dei progetti di riforma ed alla loro estensione. Non deve, infine, dimenticarsi che le grandi riforme costituzionali vanificano la funzione del referendum confermativo di cui all'articolo 138 primo comma, coartando la volontà del corpo elettorale.
È infatti evidente che, posto di fronte a decisioni eterogenee - se non addirittura in reciproca tensione - l'elettore non può distinguere i contenuti cui eventualmente va il proprio favore da quelli che disapprova. Ed è quindi fatalmente sospinto a decidere seguendo logiche di schieramento. Il che priva il suo intervento della funzione che dovrebbe rivestire e quindi di un'apprezzabile valore aggiunto.
Semplificando ed esemplificando le considerazioni di cui sopra, è da ritenere opportuno che, in questa fase, si separi il tema della forma di Stato, di stampo regionalista o federalista, da quello della forma di governo, oggi una Repubblica Parlamentare domani chissà. In primo luogo, perché l'intreccio tra le due tematiche appesantirebbe il tavolo, accrescendo la probabilità di compromessi al ribasso. Inoltre, per ragioni che, mentre il tema della forma di Stato può considerarsi relativamente maturo, essendosi consolidata una riflessione abbastanza condivisa sugli interventi migliorativi necessari, sulla forma di governo si fronteggiano ancora diagnosi e terapie fortemente differenziati. Opinioni che attraversano entrambi gli schieramenti politici trasversalmente.
Non ci rimane dunque che aspettare. Dopotutto siamo così noi italiani: stiamo fermi per anni nell’immobilità più soffocante, pare sempre che giriamo a vuoto, poi all’improvviso partono accelerazioni inaspettate e la locomotiva si mette a correre, certe volte producendo anche cose originali. E così che si spiega il fatto che pur sembrando un paese sempre alla canna del gas, siamo sempre lì a giocarcela, come accade un po’ anche alla nostra Nazionale.
Siamo capaci tanto di vincere un mondiale e quanto di trasformare squadre come la Svizzera in corazzate inespugnabili. In questo contesto non ci si meraviglia neanche davanti alla miracolosa intesa tra maggioranza e opposizione, tanto che - come si è visto - non ci si scandalizza neanche se il polenta-Calderoli indice una conferenza stampa congiunta con il terrone-Di Pietro. Cose da pazzi. Cose da italiani.
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di Mariavittoria Orsolato
Delle tante bordate alla concorrenza televisiva, dall’aumento dell’iva a Sky alla sottrazione del bouquet satellitare Rai, quella degli incentivi statali all’acquisto del decoder per il digitale terrestre fu sicuramente la madre. Correva l’anno 2004, la legge Gasparri superava il secondo assalto al Quirinale e introduceva un bonus di 150 per tutti coloro i quali avessero scelto lo scatolotto DVB-T anziché la parabola; la mossa si ripeteva poi nella finanziaria dell’anno successivo con un importo però ridotto a 70 euro.
In molti allora storsero il naso - primo fra tutti l’ex capo di Stato Carlo Azeglio Ciampi - soprattutto perché lo scatolotto a marca Amstrad, promosso con sì tanta solerzia dall’esecutivo, altro non era che un prodotto importato in esclusiva della Solari.com, una società a responsabilità limitata controllata al 51% da Paolo Berlusconi e dalla figlia di primo letto Alessia, attraverso la finanziaria Paolo Berlusconi financing (Pbf). Il palese conflitto d’interesse restò però impunito e i 220 milioni di euro (110 all’anno) preventivati della finanziaria, vennero regolarmente indirizzati nelle tasche del Berlusconi che solitamente va in prigione.
Allora i “maligni” affermarono che la clausola presente nella Gasparri era una sorta di risarcimento al fratello minore ed un sicuro sgambetto alla nemesi catodica Rupert Murdoch. Oggi, sei anni dopo, sono i giudici della Corte di Giustizia europea a dare nuovamente ragione di queste voci, sentenziando in primo grado che “gli auti di Stato sono stati erogati in modo illegittimo dal Governo” e comminando una multa a Mediaset pari all’importo tolto al bilancio statale, interessi esclusi ovviamente. La sentenza conferma quella emessa nel 2007 dalla Commissione Ue, pronunciamento contro cui Mediaset aveva ricorso appellandosi al fatto che del digitale terrestre il Biscione non è l’unico usufruttuario.
Il ricorso è stato però respinto in quanto nella pratica della sovvenzione statale sono assenti i requisiti di neutralità espressamente richiesti: gli incentivi statali andavano infatti a favorire solo una parte degli operatori televisivi (quelli che appunto hanno scelto la piattaforma digitale, imbarcandosi sul carro di quello che allora pareva il vincitore) ledendo al contrario i soggetti assestati sulle trasmissioni satellitari che, in quanto fruitori di una tecnologia diversa, non hanno avuto diritto agli aiuti.
Mancando di neutralità, il provvedimento varato dal secondo governo Berlusconi, inficiava le regole del mercato comune e della legittima concorrenza: un privato che fosse stato nel dubbio sulla scelta della nuova tecnologia da acquistare per il proprio televisore, avrebbe giustamente proteso per quella incentivata, anziché spendere una cifra superiore per quella a prezzo pieno.
Recita in proposito la sentenza: “Gli aiuti pubblici hanno incitato i consumatori a passare dal sistema analogico a quello digitale terrestre, limitando al tempo stesso i costi che le emittenti televisive digitali terrestri avrebbero dovuto sopportare e, dall’altro, ha consentito alle emittenti medesime di consolidare, rispetto ai nuovi concorrenti, la loro posizione sul mercato”.
Da Cologno Monzese annunciano però un secondo ricorso, dal momento che i contributi sull’acquisto sono stati erogati direttamente ai consumatori “mentre la rete non ha avuto nessun vantaggio materiale”, cosa che però ben due sentenze europee smentiscono categoricamente. Dal Ministero per lo Sviluppo Economico, retto ora ad interim dallo stesso Premier e oggetto dell’ennesimo conflitto d’interesse, una nota fa sapere che “in base alla decisione della Commissione europea sull'aiuto di Stato C52/2005 relativo al contributo per l'acquisto di decoder digitali (…) in data 4 febbraio 2009 la società Rti ha adempiuto a tale richiesta versando allo Stato italiano l'importo di euro 6.013.855,49”. Ne mancherebbero ancora 140 di milioni e, a quanto statuisce la Corte di Giustizia europea, ora lo Stato ha solo due mesi di tempo per adempiere alla sentenza e recuperare il maltolto dalle tasche degli italiani, soprattutto dei molti che del decoder di casa Berlusconi non ne hanno nemmeno voluto sentir parlare.
Sulla carta l’operazione sembra facile, ma dal momento che il risarcitore è formalmente a capo del soggetto da risarcire, viene spontaneo chiedersi se la gerachia delle fonti giudiarie, qui in Italia, abbia ancora un senso di fronte ad un conflitto d’interessi che assomiglia sempre di più ad una metastasi per il nostro sventurato Paese.
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di Fabrizio Casari
La proposta Marchionne non è un’ipotesi di lavoro, è una minaccia. Anzi, ad essere più precisi, è una dichiarazione di guerra: la guerra del capitale contro il lavoro. Le tesi di Marchionne, infatti, nella loro volgarità, contengono un’evidenza sistemica che va ben oltre il contenuto contingente della minaccia. Perché quando si propone uno scambio tra lavoro e diritti, si afferma implicitamente un’idea del sistema sociale ed economico che reputa, sic et simpliciter, i diritti individuali e collettivi come incompatibili - o comunque in contrasto - con lo sviluppo del modello sociale ed economico del capitalismo, versione light o turbo poco importa.
E quando ci si presenta alla trattativa con governo e sindacati con un out-out tra ritorno al diciannovesimo secolo dei diritti del mondo del lavoro per ipotizzare un ventunesimo secolo dello sviluppo economico, si evidenzia palesemente un’idea delle relazioni industriali non più come asse dialettico su cui costruire sviluppo economico e possibile modernizzazione di un paese, che risponda quindi ad una crescente inclusione sociale, ad un modello di società avanzata, capace di crescere e progredire.
Ci si presenta, al contrario, con un’idea dell’organizzazione del mercato del lavoro che è paradigmatica dell’idea più generale di società. L’agenda prevede di sedersi al tavolo dichiarando lo scontro inconciliabile tra le classi; l’idea dell’economia al servizio della società è ormai dichiarata morta e viene sostituita da quella di una società al servizio dell’impresa. Si dichiara, né più né meno, l’inconciliabilità storica tra diritti e profitti e, indi, tra il profitto e il ruolo sociale dell’impresa stessa.
Tremonti sostiene che la proposta di Marchionne sia la vittoria dei riformisti: i riformisti veri si staranno rivoltando nella tomba. Ha voglia il Ministro dell'Economia a sostenere che si deve guardare all’economia sociale di mercato: è proprio la funzione sociale dell’economia, pur inserita nel contesto del mercato, che viene meno con la minaccia della Fiat. Trattasi, per il padronato italiano, di una scelta strategica: la produzione di beni e servizi riscuote profitti inferiori e più lenti della speculazione finanziaria. Ciononostante non si può smettere di produrre, il core business resta comunque la produzione di beni e servizi. Cosa fare? Il costo del lavoro e la sindacalizzazione dei lavoratori sono i principali problemi: il primo va quindi ricercato al livello più basso, non importa dove; la seconda va ridotta, pezzo dopo pezzo, nel disegno di un gigantesco puzzle di stampo ottocentesco.
La chiamano delocalizzazione, ma si pronuncia esportazione di capitali e allocazione all’estero di risorse, mentre si continuano a prelevare, in patria, solo i generosi aiuti economici di Stato e una normativa fiscale ridicola sui capitali speculativi. Si privatizzano i profitti e si socializzano le perdite, pagate dalla fiscalità generale con cassa integrazioni e aiuti di Stato. E anche andare a cercare oltre frontiera il costo del lavoro al livello più basso non è sempre così semplice e, soprattutto, non sempre così conveniente in termini di qualità del prodotto. Se si vuole fare sistema, se si vuole cioè continuare ad essere elemento chiave del potere economico ( e quindi politico) in Italia, in Italia si deve tenere la centralità della produzione.
La scommessa diventa quindi un’altra: ripristinare in Italia le condizioni (costo del lavoro e sindacalizzazione) che si trovano all’estero, nei cosiddetti “paesi emergenti”, cioè quelli nei quali il turbo capitalismo rappresenta l’alfa e l’omega del modello sociale. In questo modo, invece di esportare solo la produzione, si possono importare i modelli di organizzazione del lavoro. Risulta così secondario indicare le falle evidenti del progetto di rilancio industriale presentato dall’ad di una Fiat vittima dei suoi errori, figlia prediletta di un capitalismo assistito che l’ha vista, anno dopo anno, avvitarsi sulla sua crisi ben oltre di quanto la crisi del mercato dell’auto inducesse.
La Fiat è un’azienda che non ha né i numeri, né le competenze manageriali, né la solidità finanziaria per realizzare anche solo un terzo di quanto prevede Marchionne. Prevedere, infatti, un milione e mezzo di vetture in più nel solo mercato italiano (che è già sceso del 15% con la fine delle rottamazioni) è pura fuffa. Solo una sostanziale riconversione industriale potrebbe tenerla ai vertici europei. Ma servirebbe un management e un progetto di ampio respiro e non c'é niente di questo all'orizzonte.
La Fiat, però, se in quanto a progettazione e qualità della produzione ha sempre lasciato a desiderare, ha comunque rappresentato egregiamente la prima fila dell’arroganza padronale italiana. Proprio dalla Fiat, storicamente, sono arrivate le spallate più energiche ai diritti del lavoro, ogni volta ritenute necessarie al rilancio di un’azienda che ha fatto pagare ogni sua nuova linea di produzione con migliaia di licenziamenti e miliardi di soldi pubblici per le casse integrazioni. In questo senso è sempre stata l’azienda leader del padronato italiano che aspirava ad un sistema di relazioni industriali privo di obblighi e pieno di supremazia.
Per questo l’accordo su Pomigliano ha anche relativamente a che vedere con il futuro della Fiat e degli investimenti al sud. Il probabile sì al referendum tra i lavoratori, costretti a scegliere tra non lavorare e lavorare per Marchionne, sarebbe l’apripista di una nuova impostazione delle relazioni industriali. Sancirebbe la definitiva uscita di scena dello statuto dei lavoratori e della contrattazione sindacale; certificherebbe il definitivo svuotamento dei diritti costituzionali individuali e collettivi per i lavoratori e la fine di ogni vincolo costituzionale per le attività imprenditoriali.
Anche per questo governo e Confindustria, sostenuti dai media di famiglia, si sbracciano contro l’art. 41 della Carta. Gli risulta intollerabile che l’impresa debba avere un ruolo di responsabilità sociale, che debba essere una parte - e non il tutto - di un modello di società. La Costituzione, figlia della riscossa dell’Italia, è il frutto della mediazione tra interessi sociali diversi, perché contiene un’idea di società plurale e inclusiva. Tutto il contrario delle aspirazioni governative e confindustriali, che si rifanno agli agrari e ai padroni delle ferriere. Cercano di azzerare i diritti di tutti per far prevalere i loro profitti.
Se oggi Marchionne arriva con una proposta che gli rifiuterebbero in ogni altro paese del G-8, è perché nessun altro governo é pessimo come il nostro e nessun'altra opposizione fa ridere come la nostra. Le condizioni della sinistra italiana sono tragiche. E quelle dei sindacati ancor di più, con Cisl e Uil che ormai vivono da anni in assoluta sintonia con i governi di destra e sono scatenate solo nel ruolo di tenori di Confindustria. Fa benissimo la FIOM a dire no, e non importa se il referendum della pistola alla tempia vedrà l’avallo dell’accordo firmato dai sindacati gialli: resistere alla deriva è l’unico modo di piantare paletti che serviranno in futuro.
Dalla dignità del lavoro e dei lavoratori si può e si deve ripartire, se si vuole ricostruire un sistema di relazioni industriali che non venda diritti in cambio di minacce. C’è bisogno di un nuovo patto sociale e di una nuova prospettiva strategica per l’industria italiana che rischia di scomparire sotto globalizzazione ed incapacità manageriale. C’è bisogno di una nuova stagione nelle relazioni industriali. C’è bisogno di un sindacato che ricorsi il suo ruolo e c’è bisogno di imprenditori con idee. Di fuffa e propaganda, di servi e padroni, abbondiamo fin troppo.
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di Alessandro Iacuelli
Probabilmente non succederà niente, dopo le elezioni in Belgio che hanno visto la vittoria del partito separatista fiammingo nelle Fiandre: un po' difficile che un Paese in piena Unione Europea giunga alla disgregazione. Nonostante questo, nel nostro Paese c'è chi ne approfitta per aprire nuove latte di benzina da gettare intorno, con un effetto più ampio ed internazionale rispetto al Belgio stesso. A gettare la benzina ci ha pensato il solito Mario Borghezio, secondo il quale il voto nelle Fiandre "è un modello per noi". Niente male, come inizio.
L'europarlamentare leghista, uno dei volti del fascismo di oggi, l'uomo che disinfettava le carrozze dei treni dove viaggiavano ragazze africane, ma anche l'uomo che diede fuoco ad un ricovero per senzatetto rumeni sotto il Ponte Mosca a Torino, in una nota ha precisato che "il successo elettorale dei partiti secessionisti fiamminghi ha, per noi Padani, un significato ben preciso. L'Europa più moderna e liberale ci indica la via da seguire per raggiungere l'obiettivo dell'autodeterminazione". La via, prosegue l'eurodeputato, "è quella della fase confederale, da raggiungersi in via civile e pacifica, per poi arrivare all'indipendenza della Padania come delle Fiandre, in un'Europa dei popoli e delle regioni". Tutto il resto, conclude, "sono pie illusioni, o quanto meno perdite di tempo prezioso".
A parte ogni discorso sul tempo che perde lui, l'eurodeputato, c'è da notare come stia cercando di cogliere la palla al balzo per trasferire verso l'Italia settentrionale - peraltro in modo piuttosto grezzo e dilettantesco - la spaccatura belga dopo le elezioni politiche. Dopo la nota scritta, Borghezio ha anche rilasciato un'intervista al quotidiano online Affaritaliani, dichiarando: "Non si vede perché non si possa fare anche da noi...". A fargli eco è stato un altro personaggio colorito e folkloristico: quel Matteo Salvini che ha subito dichiarato che si tratta di "un segnale di speranza per tutti quelli che lavorano, producono e sono vittime di sprechi e di furbate da parte altrui. È un bel segnale, insomma. In Padania, a Barcellona, a Glasgow, in Bretagna e in Baviera la gente è molto contenta che altri cittadini possano parlare e votare".
Si tratta certamente di un'occasione per dare inutilmente fiato alle bocche. D'altronde, visti i precedenti ed anche l'attualità dell'attività politica di Borghezio, c'è da comprendere come lo stesso sia alla continua ricerca di elementi per poter tornare alla ribalta. Messo in disparte dal suo stesso partito, eliminato completamente dalla politica italiana, per non cadere nel dimenticatoio ha l'esigenza stringente di mettersi in mostra, anche rinunciando a buone occasioni per tacere, togliendo quindi ogni dubbio sulla sua intelligenza e la sua buona fede.
Così, l'anno scorso, in Francia, ad un convegno di una formazione dell'estrema destra di Nizza, credendosi a microfoni spenti, o forse sapendo bene che stessero funzionando, Borghezio disse ai suoi camerati neofascisti che "occorre insistere molto sul lato regionalista del movimento. È un buon modo per non essere considerati immediatamente fascisti nostalgici, bensì come una nuova forza regionalista, cattolica; ma, dietro tutto ciò, siamo sempre gli stessi". In Francia ne discussero TV e giornali e fu l'ennesima figuraccia. Figuraccia che però va benissimo per non finire lontano dal palcoscenico della politica e della notorietà.
Quest'anno, invece, è toccato approfittare del voto belga per dar fiato alle esternazioni fuori luogo, decontestualizzate, e riportate tout court in una realtà, quella italiana, profondamente diversa da quella del Belgio. Nel Paese, infatti, il voto è regionale ed il Paese è federale: le elezioni hanno visto al nord, nelle Fiandre, la vittoria dei separatisti e al sud, in Vallonia, dei socialisti. Socialisti che diventano il primo partito del Belgio, tra l'altro.
Anche i partiti sono regionali, e non nazionali come da noi. Nel governo federale sono rappresentanti sia quelli espressione della comunità di lingua francese della Vallonia sia quelli di lingua fiamminga delle Fiandre. Solo nella regione di Bruxelles capitale gli elettori possono scegliere sia gli uni che gli altri. Pertanto, l'N-Va, il partito separatista delle Fiandre, mai uscirà dalle Fiandre stesse. Potrà negoziare qualcosa in parlamento, ma dovrà vedersela con un partito socialista che ha avuto una vittoria spettacolare e difficilmente riuscirà ad avere un ruolo in un futuro governo che sia pesante quanto quello che ha la Lega Nord in Italia. Pertanto, dovrebbero semmai essere i leghisti delle Fiandre, a vedere i leghisti nostrani come un esempio per loro, e non viceversa.
Borghezio questo lo sa, ma non fare le sue esternazioni sarebbe significato essere ancora assente dal mondo dei mass media che seguono la politica, e per un uomo che vive di apparizioni, non essere più chiamato da giornali e televisioni è la più grande sconfitta politica che ci possa essere. Per questo, alcuni giorni fa, interpellato dall'Adnkronos non sulla politica italiana, non su quella europea, ma solo sue preferenze calcistiche nei campionati mondiali di calcio, il poveraccio si era dovuto inventare una risposta delle sue: "Quando la Padania avrà l'autodeterminazione si potrà confrontare con le nazionali di altri paesi, però sono molto orgoglioso del fatto che la nazionale padana giochi il campionato della nazioni non riconosciute. Del resto, molte nazionali che prima non erano riconosciute, oggi partecipano ai campionati europei; quindi non penso che ci vorrà molto per vedere una nazionale padana, e allora tiferò ovviamente per quella".
E l'attività politica, per la quale è regolarmente stipendiato dall'Unione Euroea, cioè anche da noi? Borghezio è membro, come il cacio sui maccheroni, della commissione libertà civili ed immigrazione del Parlamento Europeo, ma il suo tempo da eurodeputato lo perde presentando improbabili richieste riguardanti i dischi volanti, gli extraterrestri, e in generale la desecretazione della documentazione sugli UFO.
Presentare al Parlamento Europeo una richiesta di desecretazione di documenti, di per sé non ha nulla di negativo: ma il fatto che riguardi degli extraterrestri e che Borghezio parla della sua richiesta come se si trattasse di problemi legati all’immigrazione, fa immediatamente cadere un velo di ridicolo su tutta la vicenda. Probabilmente teme un’invasione aliena, dopo quella degli africani? Difficile però, prendergli le impronte dei piedi..
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di Rosa Ana de Santis
Mentre il Paese degli azzurri appende i tricolori sui balconi per la Nazionale, torna ad essere protagonista il maltrattato inno nazionale. Solo qualche giorno fa, in occasione di Italia - Svizzera, ci aveva pensato il calciatore Marchisio - così pare dal suo labiale e dai sorrisi divertiti dei compagni di squadra - ad apostrofare “Roma Ladrona” nei versi risorgimentali di Mameli. Ora ci pensa Zaia, neo governatore della Regione Veneto, a creare il caso. All’inaugurazione di una nuova scuola elementare, nella provincia di Treviso, l’ex ministro avrebbe chiesto alla banda musicale di suonare Va pensiero al posto dell’Inno Nazionale o, in ogni caso, di non aver fatto suonare per primo - come vorrebbe il cerimoniale - Fratelli d’Italia. In una domenica soleggiata d’estate, questa notizia può diventare un caso e così è stato.
L’opposizione chiede al governatore leghista di fare chiarezza. Una distrazione, un equivoco o una regia anti-repubblicana meditata? La Russa, che utilizza la retorica patriottica solo quando deve scusare le morti dei nostri soldati in Afghanistan, questa volta non s’indigna e si dice sicuro che Zaia non abbia censurato l’Inno di Mameli, ma che, suo malgrado, ci sia stata una sottovalutazione nel cerimoniale d’inaugurazione.
La soluzione è un disegno di legge che regolamenterà in modo ufficiale l’uso obbligatorio dell’inno nazionale. Il grimaldello dell’imposizione in luogo del sentimento patriottico spontaneo è proprio la metafora di come l’Italia abbia costruito la propria unità: a freddo e dall’alto. Improvvisamente mansueto il Ministro delle Forze Armate, forse un po’ troppo anche per uno che ha preferito la Lega e il premier, alla vecchia scuola di AN.
Nel frattempo Zaia, a Sky Tg24, ribadisce che i cori sono stati due e che l’esecuzione dell’Inno c’ è stata. Che la Lega Nord, da tempo, persegua la battaglia contro l’inno che definisce la Patria “schiava di Roma” e che affonda le sue radici nella storia del Risorgimento, tanto indigeribile per la Padania, è noto. Fu proprio Bossi a proporre il Nabucco al posto di Mameli.
Quale che sia stato il programma dell’esecuzione, il problema politico non è certamente Zaia e la cronaca della scuola di turno, ma l’insidia della divisione e della secessione che il PDL coccola in grembo e che occulta, facendo finta di dimenticare che alla festa nazionale del 2 giugno fosse proprio la Lega l’unica forza politica assente. Anche questa una svista nell’agenda? Una spiegazione ufficiale non è mai arrivata.
A questo scenario pericoloso fa da controaltare un’assenza diffusa di autentico sentimento patriottico. Non quello che va di moda nell’estrema destra, ma quello sano dei nostri nonni, che la Patria l’hanno amata e difesa prima di cantarla ed esibirla. Quei testimoni che oggi, non a caso, nelle scuole vengono chiamati sempre meno. A dircelo è la cronaca di un’altra scuola: la Gioacchino Belli di Roma e la reazione della preside, irritata dal fuori programma dei suoi studenti che, nel corso di una manifestazione al Ministero dell’Istruzione, hanno intonato Bella ciao.
Forse perché i partigiani e la Resistenza non piacciono a questo governo e tra qualche anno non li troveremo più nei programmi di storia. E’ davvero l’amore per la patria che si vuole insegnare alle nuove generazioni o il timore del potere costituito? Perché non può esistere un autentico sentimento di amore per la propria patria senza il riconoscimento della storia che la riguarda e non c’è dubbio che di storia vissuta sulla pelle dell’Italia ce ne sia di più nello spontaneismo popolare del canto delle resistenza che non nel Nabucco.
Il Ministro della Difesa, La Russa, si dice sorpreso a vedere la sinistra tanto sdegnata dalla mancanza di attenzione per valori e simboli dell’unità d’Italia. Forse perché anni fa essere di sinistra significava, quasi necessariamente, non essere patriottici. Una dicotomia sbagliata nella dottrina e nella storia, soprattutto pensando che nell’amore di patria di un popolo coraggioso è contenuto il primo movente di un tirannicidio. Ma quest’orgoglio del tricolore è ormai muffa per gli archivi.
A noi rimane la bandiera delle tribune durante le parate militari o l’inno cantato dai calciatori. E’ così che tutti possono dire di sentirsi italiani. Tanto non costa né coraggio, né fatica.