di mazzetta

Sono passati due anni da quando la crisi, a lungo annunciata, ha cominciato a far sentire i suoi effetti devastanti, deprimendo l'economia e minacciando l'implosione della finanza mondiale. Fin da subito è stato chiaro, anche a molti di quanti fino ad allora non avevano creduto alle Cassandre, che il sistema crollava perché era insostenibile. Si parlò di schema-Ponzi e non ci si riferiva solo alle truffe di Madof o di altri suoi emuli, ma al peculiare assetto della finanza internazionale che era evidentemente sostenibile solo in costanza di una geometrica crescita del capitale circolante e delle scommesse finanziarie; proprio come uno schema piramidale, che funziona solo in fase d'espansione e poi implode alla minima inversione di tendenza.

Nonostante l'evidenza, i media accettarono di buon grado di inquadrare la questione secondo i desideri della grande finanza e, inizialmente, puntarono il dito contro i mutuatari americani più deboli, quelli che avevano sottoscritto i famigerati mutui sub-prime senza poterseli permettere. Per un po' funzionò, a dispetto dell'evidenza statistica per la quale i “poveri” contraenti dei sub-prime avevano tassi d'inadempienza dei loro impegni più bassi di quelli degli altri mutuatari prime. I poveri pagavano meglio, ma non importava, come non importava che molti dei sub-prime andati in malora fossero stati in realtà concessi a società o a individui che speculavano sul mercato immobiliare senza avere sufficienti garanzie da offrire alle banche.

Non fu casuale questo puntare il dito sui sub-prime, perché consentiva all'amministrazione americana di scaricare la colpa sull'amministrazione Clinton (che aveva favorito e innescato il fenomeno) e alla grande finanza di scaricare le responsabilità su una delle poche decisioni politiche che non avevano lo stigma evidente di essere a favore dell'élite finanziaria (anche se lo era) e, infine, sui poveri. Il disastro non era quindi colpa dell'amministrazione USA e nemmeno di Wall Street. Dal loro punta di vista non si poteva sperare di meglio nell'occasione e fu uno scherzo farsi seguire su questa strada dai media mainstream, anch'essi complici omertosi del disastro e spesso controllati dagli stessi soggetti che portavano la responsabilità della crisi.

Inquadrata così, la crisi provocata dalle élite finanziarie e dalla loro avidità ha assunto un altro aspetto e a perfezionare l'operazione ha provveduto la confusione sui prodotti derivati, chiamati in causa quando è stato evidente che la crisi eccedeva di gran lunga la massa dei sub-prime e che quindi, il framing, (l'inquadrare il dibattito) entro limiti favorevoli, rischiava di andare in pezzi. I sub-prime sono però rimasti ad aleggiare sullo sfondo, indicati come elemento detonante di una crisi provocata dall'eccessiva creazione di prodotti derivati e dall'uso spregiudicato della leva finanziaria.

Puntare l'indice contro i derivati è stato conveniente per diversi motivi: sia perché sono strumenti complessi, in larga parte incomprensibili al grande pubblico (al quale ben pochi hanno cercato di spiegarli), che per la loro natura di scommesse tra operatori professionali. Chi ha sottoscritto tali scommesse, infatti, è (o avrebbe dovuto essere) un operatore professionale, per lo più assistito da professionisti del ramo, sia nel caso di grandi aziende o di istituzioni pubbliche. Tutta gente che, pur scottata da vere e proprie truffe, non pensa minimamente a mettere in discussione il sistema o ad accusare le controparti con le quali spesso ha cointeressenze o intrecci relazionali molto robusti, per non dire di quanto la politica sia stata sempre più influenzata dalla finanza negli ultimi decenni.

Che poi insieme agli operatori professionali siano stati trascinati nella polvere anche i pensionati e i piccoli risparmiatori con le loro modeste rendite legate alla borsa, non è sembrato assumere grande rilevanza: molta più enfasi è stata riservata ai problemi del sistema (quindi dell'élite) e alla necessità di salvarlo, pena una fine peggiore per tutti.

È bene ricordare che, fin dall'inizio della crisi, ogni tentativo di framing ha contribuito a costruire un vero e proprio muro che ha nascosto al dibattito un suo carattere fondamentale: quello di essere prima di tutto una crisi statunitense. Sono infatti statunitensi le grandi banche e le grandi finanziarie fallite (o salvate da un fallimento inevitabile) e sono d'origine statunitense sia l'impostazione del sistema finanziario che si è andata delineando dopo la caduta del muro di Berlino, che il brutale impulso che ha spinto il mondo verso l'adozione del modello ultra-liberista.

Modello che si è poi rivelato in grado di garantire solo la libertà delle élite finanziarie di drenare risorse dall'economia reale, per poi bruciarle ai tavoli del grande casinò finanziario di Wall Street, del quale negli anni gli stessi operatori hanno assunto il controllo quasi totale e, con esso, la possibilità di truccarne le carte e i conti. Statunitensi sono le grandi banche d'affari e anche la più grande impresa d'assicurazione al mondo, quell'AIG che, forte dei premi e dei capitali dei suoi assicurati, aveva assunto la funzione di garante di qualsiasi prodotto finanziario messo sul mercato, anche il più scellerato e ben oltre le sue capacità di onorare tali impegni.

Per mantenere questo assetto è stato necessario nascondere fino all'ultimo la verità, emarginare ogni voce critica, ogni invito alla prudenza e alla chiarezza dei conti. Così che Alan Greenspan, già nel 2004, decise di mantenere segreti i rapporti e le relazioni che avrebbero dovuto allarmare il governo americano e i mercati sul montare di una bolla immobiliare già allora matura, con il pretesto che il sistema era “troppo complesso” per permettere alle opinioni pubbliche di venirne a conoscenza nei dettagli e quindi di poter formarsi ed esprimere un'opinione che avrebbe potuto “davvero” mettere a rischio il sistema e far saltare il banco, comunque destinato a saltare con il tempo. Una realtà certificata dai numeri e dai rapporti in possesso di Greenspan, tenuta gelosamente riservata per ben quattro anni e venuta alla luce solo la settimana scorsa.

Allo scoppiare della crisi i giocatori, gli arbitri e i cronisti di questa grande partita erano ormai indistinguibili gli uni dagli altri, legati da intrecci inestricabili, da una malriposta pretesa superiorità di classe e al di sopra delle leggi, che pure li avrebbero visti falliti o condannati. Lo sono ancora, se possibile oggi ancora di più. I grandi attori economici sono usciti dalla prima fase della crisi ancora più grandi a seguito di un riassetto del sistema operato salvando gli uni e poi vendendo loro gli altri che si era deciso di bollare come vittime sacrificali, tenendo in vita il tutto con enormi iniezioni di denaro pubblico. Anche le società di revisione contabile e le agenzie di rating hanno subito lo stesso destino e oggi le “too big to fail”, le corporation troppo grandi per poter fallire senza provocare la distruzione generale, sono ancora più grandi e il sistema è ancora meno governabile e trasparente di quanto non fosse all'inizio della crisi.

Se all'alba della crisi Bush, Obama e gli altri leader internazionali annunciarono la necessità e il pronto varo di regole nuove, queste però non si sono viste. Alle grandi società finanziarie americane in fallimento fu assicurata la garanzia governativa per i titoli tossici, nuove regole “creative” con le quali truccare i bilanci e una mostruosa iniezione di denaro per coprire i buchi. Un errore marchiano, perché con quei soldi il sistema finanziario non ha riempito i buchi (nascosti provvisoriamente grazie alle regole contabili creative) e nemmeno ha finanziato l'economia reale, che non si riprende perché i capitali necessari agli investimenti sono dirottati altrove.

Quei soldi sono stati “reinvestiti” nel casinò, come se nulla fosse successo, ma non senza ragione, dato che in costanza di condizioni quella destinazione offre l'aspettativa di maggiori e più rapidi guadagni. La cosa ha determinato l'ovvia risalita dei corsi azionari e grossi guadagni per quegli stessi dirigenti che avevano portato al fallimento le loro aziende e l'economia statunitense. Così si è verificata la “ripresa senza occupazione”, perché a riprendersi è stata solo la giostra delle borse, ormai avulsa dall'economia reale, che invece ha continuato a macinare disoccupati, fallimenti personali e sfratti a passo di carica. In una situazione del genere, negli Stati Uniti si sono sentiti anche fior di analisti e politici esprimersi contro la concessione di sussidi ai disoccupati (una goccia rispetto a quanto dato alle banche) con il pretesto che una volta “assistiti” con quattro soldi al mese avrebbero perso la voglia di lavorare.

Poi sono venuti gli attacchi all'Euro e alle economie più deboli dell'Unione Europea. Un gioco facile, poiché gli stessi speculatori erano quelli che avevano contribuito ad inflazionarne i bilanci, quando non erano stati direttamente complici degli stati nel truccare i conti, come nel caso della Grecia e   del suo rapporto con Goldman Sachs. Un gioco facile almeno fino a quando l'UE non ha trovato un briciolo d'unità politica e fatto muro contro l'attacco. Niente di particolarmente difficile, rappresentando i paesi più in difficoltà solo una frazione dell'economia europea (la Grecia ne vale circa il 2%), ma ancora una volta l'occasione è stata colta per proseguire sulla strada sbagliata: nel pagare i debiti delle banche, delle istituzioni finanziarie e dei governi collusi si è riaffermata la stessa ricetta fallimentare.

Tagli ai servizi sociali, alla sanità, all'istruzione, alle pensioni: la proposta corre proprio nel senso della demolizione di quello che ancora fa la differenza tra il sistema americano e quello europeo e la crisi delle banche. In Europa, come negli Stati Uniti, il fallimento degli dei della finanza lo devono pagare i cittadini, lavorando per salari ancora più bassi, rinunciando a diritti acquisiti e facendo ogni economia per ripagare i debiti altrui, con il miraggio che una volta ripartita la giostra andrà bene per tutti.

Non sarà così. Gli stessi ministri europei ed americani hanno più volte ripetuto che la crisi è sistemica e non si riferivano certo ai sistemi statali e agli stati che si sono dovuti svenare ed indebitare per pagare i fallimenti delle banche, come già è toccato agli americani e agli islandesi e un po' a tutti nel mondo. Una truffa auto-evidente, ma non basta questa evidenza a superare la narrazione falsa e tranquillizzante diffusa dai media e da “ottimisti” come Berlusconi. È il sistema finanziario globale che è in crisi, che è evidentemente rotto e incapace di funzionare secondo le non-regole in vigore, che favoriscono solo l'arroganza e la spregiudicatezza del più forte, incapaci di sanzioni anche a fronte dell'evidenza di comportamenti criminali e professionalmente inadatti.

Se la crisi è sistemica significa che il sistema, così com'è, è condannato a ripetere gli stessi errori. Di più, significa che nascondendo la verità dei conti e dando alla finanza americana il denaro per tornare a giocare, si sono poste le premesse per la definitiva implosione del sistema, perché dall'anno prossimo le grandi corporation americane dovranno rimborsare quantità sempre più elevate di debiti e nessuno è in grado di spiegare come faranno.

E’ invece chiarissimo che nemmeno gli Stati Uniti si potranno permettere un altro bailout, ancor meno in costanza di tre guerre che dissanguano i bilanci. Affermare che i militari americani sono troppo pagati e che si spende troppo per assicurare loro la copertura sanitaria, non serve a molto; anche in questo caso si tratta di miserie se paragonate al buco nei conti della finanza. Buco che, come già spiegato all'alba della crisi, è abbastanza grande da inghiottire l'intera economia mondiale e di scatenare una depressione tale da far impallidire quella del '29.

Non rendono quindi un buon servizio ai cittadini Tremonti e i suoi colleghi europei quando decidono di affrontare una crisi che definiscono sistemica senza ipotizzare alcuna modifica al sistema. E lo stesso Obama e il Congresso americano si confermano così tanto parte del sistema da non poter far nulla per riformarlo.

Non si tratterebbe di un'impresa titanica, perché i problemi di oggi sono gli stessi che l'economia affrontò ai tempi dei Robber Barons, così simili agli autoproclamati “dei” di Wall Street. Rompere i monopoli e i cartelli, ridurre le dimensioni delle corporation, reintrodurre la separazione tra i diversi business finanziari, introdurre regole, vigilanza e sanzioni efficaci, aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie e le tasse di successione per i grandi patrimoni. Niente di particolarmente astruso o bolscevico, sono anzi provvedimenti che darebbero maggiore “libertà” operativa agli operatori economici, non più schiacciati da un'elite che si scrive le regole e si autoassolve quando le infrange, e finalmente in grado di competere ad armi pari in una ambiente più sano, competitivo e onesto.

Niente di rivoluzionario, ma abbastanza da mettere sulla difensiva il sistema e i suoi protagonisti, che non sono per niente disposti a pagare il prezzo delle loro colpe e che preferiscono continuare il blame game (il dare la colpa ad altri all'infinito senza mai arrivare al riconoscimento di alcuna responsabilità) fino a che non avranno messo al sicuro i loro guadagni o fino a quando il sistema non imploderà definitivamente, lasciando il cerino in mano ad altri che bruceranno nel rogo, mentre i soliti noti s'arricchiranno ulteriormente comprando a prezzo di saldo.

Per questo siamo ancora esattamente dove eravamo quando è scoppiata la crisi, con i ministri, i presidenti e i media che ci dicono che il sistema è rotto, ma che da allora evitano accuratamente qualsiasi proposta di riforma del sistema che non sia la semplice cosmesi dei conti o la continuazione della rapina ai danni della massa dei cittadini. Le conseguenze di un tale stato di cose dovrebbero a questo punto risultare evidenti: la crisi continuerà a peggiorare inevitabilmente e il suo costo aumenterà ogni giorno che passa, senza alcuna speranza di un esito diverso.

 

 

 

 

 

 

 

 

di Rosa Ana de Santis

La domanda é: sono delinquenti perché clandestini o clandestini perché delinquenti? La risposta forse l'ha fornita il Sindaco di Milano, Letizia Moratti, con le dichiarazioni xenofobe rilasciate al convegno "Per un'integrazione possibile”. Le parole della Moratti interpretano bene gli umori nazionali e, a sprezzo di tanta cronaca che pure avrebbe dovuto indicare diversi percorsi d’interpretazione del fenomeno, insistono come un’ossessione sul tema del reato di clandestinità. L’espulsione immediata di quanti sono irregolari e l’equazione di fondo tra irregolarità e delinquenza non tiene conto di alcuna attenta osservazione su quanto accade nel nostro Paese.

Chissà se la Moratti, quando parla di delinquenti stranieri in quanto clandestini, pensa alle domestiche che quasi tutte le famiglie hanno in casa, o non stia piuttosto pensando agli schiavi di Rosarno, o magari agli operai nordafricani arrampicati nel vuoto delle gru delle imprese edili del bresciano.

La clandestinità diventerebbe così il reato per eccellenza e l’espulsione immediata la panacea dei nostri mali. Nessuna valutazione degli effetti che questo avrebbe sull’economia italiana che ha imparato in fretta a guadagnare anche da questo sommerso venuto dal mare; soprattutto nessuna lettura sistemica di un fenomeno che va oltre i confini nazionali e che non potrà mai essere risolto in modo unilaterale e soltanto coercitivo da un paese lanciatosi, in modo schizofrenico,  tra l’avventura europeista e la rivendicazione autarchica dei confini.

L’immigrazione è uno dei risultati delle politiche economiche planetarie che hanno acuito tremendamente il già eccessivo divario tra Nord e Sud del mondo. Se il 20% del pianeta consuma l’80% delle risorse la colpa non può essere delle vittime di questo sconcio che cercano solo di sopravvivere. Il problema degli stranieri c’è come c’è in tutti i paesi che sono diventati mete di questo esodo continuo di poveri. In Italia, aldilà del terrorismo padano, non siamo ancora al caso delle banlieu parigine, teatri delle rivolte degli stranieri.

Non siamo ancora alla coincidenza esplosiva tra degrado e immigrazione, alla consacrazione ufficiale dei ghetti e delle gang e, proprio per questo, la politica dovrebbe lavorare alla prevenzione di questi fenomeni degeneranti che andranno ad aggravare la situazione delle periferie urbane, già impastate di malavita e ulteriormente fiaccate dalla povertà dell’ultima crisi.

Ma gli stranieri in Italia lavorano. A nero, precari e sfruttati, ma in larga parte hanno un accesso al lavoro. La seconda generazione d’immigrati, inoltre, non è ancora così numerosa e l’integrazione potrebbe avvenire sotto minor pressione sociale che non in altri paesi europei.  Il quadro del paese non è, ad oggi e numeri alla mano, quello dell’assedio permanente che denuncia la destra o la Lega Nord.

L’incognita del futuro ha certamente bisogno di misure politiche preventive forti e non della rimozione e della cancellazione dei migranti come elemento di fastidio o di disturbo. L’impresa, peraltro fallimentare, di cancellare i migranti, andrebbe piuttosto gestita dalla politica e non chiusa in carcere dalla polizia. Solo questo permetterà di cavalcare l’emergenza assecondando quella che sarà nella storia un’inevitabile e necessaria metamorfosi del nostro paese e della nostra stessa categoria di nazionalità.

A questo ci si prepara, a partire dai banchi scuola, invece di partorire la ghettizzazione delle classi ponte. Non togliendo il diritto di cura agli stranieri con la minaccia della denuncia. A questo ci si prepara con la comprensione che la clandestinità è una condizione speciale della cittadinanza e non la perdita dello status di cittadinanza o, addirittura, il pretesto per la cessazione dei diritti individuali come qualche fattaccio tricolore ha dimostrato. Le parole di qualche solerte sindaco leghista, l’assassinio di Abdul a Milano, i vigili di Parma e le botte a Emmanuel. Per tutti clandestini, senza che nemmeno lo fossero.

Ma su tutti il caso paradigmatico è quello di Rosarno. Venduto ai giornali come la rivolta di stranieri violenti non era altro che la protesta di nuovi schiavi, manovalanza del noto e tradizionale male italiano: gli affari della mafia e la loro convivenza pacifica con la società civile e con le istituzioni.  Di questo si trattava e non di neri o di stranieri facinorosi.

L’immigrazione esaspera mali già presenti. Acuisce ferite che già abbiamo addosso. Non è certamente soltanto esotismo e curiosità culturale. L’integrazione è un travaglio sociale. Ma l’opposizione ad essa è la garanzia scientifica di un paese che non avrà futuro. Iniziare a parlare dello Ius soli (diritto per nascita) e della fine dello status di cittadinanza legato al sangue, significa aprire la mente a un nuovo mondo di pensare l’Italia e gli Italiani. Dove l’inclusione diventi il cardine della nuova cittadinanza. Questo salverà la legge e impedirà che la condanna quasi mistica alla condizione dell’illegalità diventi il simbolo di un marchio antropologico sulla condizione di vita degli stranieri.

Stranieri come a voler dire fuori dalla società. E’ questo esonero e questa vacanza in una condizione indefinita del diritto, il marchio che trasforma la condizione dello straniero nella vita di un paria che per nascita rimane fuori dalla sistema sociale. Le banlieu iniziano così. Il degrado imposto e interiorizzato diventa nel tempo una pericolosa alleanza di condivisione. Terre senza Stato per nessuno, squallide e dimenticate, attaccate alle porte delle case dorate.

di Nicola Lillo

Sono ancora tante le sorprese che la “cricca” di Bertolaso e soci continuano ad offrire. Il nome di un altro ministro dell'attuale governo è infatti nelle nuove carte dell'inchiesta sugli appalti dei Grandi Eventi. Stiamo parlando di Sandro Bondi, ministro dei Beni Culturali. Gli atti della Procura di Firenze rivelano legami tra società, dubbie nomine ministeriali e, inoltre, possibili collegamenti con Cosa Nostra.

Ma andiamo con ordine. Nella ricostruzione della vicenda da parte del Corriere della Sera e La Repubblica emerge che nel dicembre del 2009 “Salvo Nastasi, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, comunica ad Angelo Balducci la distribuzione degli incarichi per l'appalto del lavoro di restauro dei Nuovi Uffizi”. Incarichi distribuiti con il placet del ministro Bondi: Mauro Della Giovampaola “soggetto attuatore”, Enrico Bentivoglio “responsabile unico del procedimento”, Riccardo Miccichè “direttore dei lavori”. Secondo il ministero è una “buona squadra”. Di diversa opinione invece De Santis, il quale parla al telefono con Bentivoglio. Inizialmente si lamenta di Della Giovampaola, per poi parlare di Miccichè.

Bentivoglio: “tu lo sai chi hanno nominato direttore dei lavori? Il siciliano”
De Santis: “Miccichè? Non ci posso credere!”
Bentivoglio: “si... “di comprovata esperienza e professionalità”..lui è lui”.
De Santis: “quando lo vedo gli dico: siamo proprio dei cazzari guarda, siete proprio dei cazzari..andate in giro a rompere il c...”
Bentivoglio: “ma ti rendi conto? Quando siamo andati che ci stava pure Bondi..abbiamo fatto la riunione l'altro giorno..siamo tornati in treno..c'era pure Salvo (Nastasi, ndr) allora stavamo un attimo da soli e ho fatto “Salvo ma siamo sicuri di coso, qua del siciliano?” “sì non ti preoccupare..poi io c'ho un fatto personale che tu non c'hai”. Dico: “Tutto il rispetto perchè è una persona in gambissima, ma gestire un lavoro del genere”.
De Santis: è un bordello aho!

In effetti Miccichè non sembra essere munito di particolare esperienza in quel settore. Ma chi è Riccardo Miccichè? Ingegnere agrigentino, con competenza nel ramo del management di aziende specializzate nella “preparazione dei terreni per erbe e piante officinali” e nella “attività di parrucchiere per donna, uomo, bambino, di manicure e pedicure”, è stato uno degli amministratori della società Erbe Medicinali Sicilia, e socio della Modu's Atelier, che si occupa proprio di parrucchieri e manicure. Di sicuro un soggetto non di “elevata e comprovata esperienza”, ma al quale è stato comunque affidato un appalto di 29 milioni e mezzo di Euro.

Come mai è stato chiamato proprio lui? Sicuramente ha amici che contano, come Mauro Della Giovampaola e Francesco Piermarini, il cognato di Bertolaso, con cui lavorò a La Maddalena come “rappresentante della struttura di missione”. Ebbe contatti anche con Diego Anemone. Ma c'è un aspetto inquietante che riguarda Miccichè: suo fratello. Fabrizio Miccichè è, infatti, il responsabile tecnico della ditta Giusylenia srl, che si occupa di appalti pubblici. Una impresa “sotto il controllo di esponenti di Cosa Nostra agrigentina”, accusati di aver favorito la latitanza di Giovanni Brusca. Il socio di maggioranza è Antonio De Francisci, lo stesso nominato in un dattiloscritto sequestrato durante l'arresto di Brusca nel 2006, in provincia di Agrigento. Brusca ha riferito di averlo ricevuto da Bernardo Provenzano, all'epoca latitante. Il testo diceva: “Lavoro De Francisci”. Ha affermato, inoltre, di riferirsi “a quello che ha fatto lavori nel paese di Corleone. Questo qua ha uscito la tangente e io per come sono stati, glieli ho fatti avere a Bagarella”.

La domanda sorge spontanea: per quale motivo è stato scelto un personaggio con questi rapporti e con competenze così diverse dal necessario, sia per il G8 sia per gli Uffizi? Con un comunicato, Sandro Bondi riferisce che “alcuni quotidiani danno il meglio di sé nell'esercizio di lordare anche la mia onestà. Io, appena ho avuto conoscenza delle indagini, ho revocato immediatamente il commissariamento per agevolare il lavoro della magistratura, proprio perché non ho nulla a che fare con faccende e faccendieri di cui si parla”. Bondi sembra abbia ammesso di non aver mai conosciuto né sentito nominare l'ingegnere-parrucchiere-fratello di un imprenditore con legami mafiosi. Sarà come dice il ministro, ma è chiaro che sia dovere di un ministro della Repubblica essere a conoscenza di ciò che avviene nel proprio ministero.

 

di Mariavittoria Orsolato

A quanto si è potuto apprendere dai fascicoli sui “grandi eventi”, ereditati dalla procura perugina, i tentacoli della cricca Anemone&co sono arrivati fin dentro il Cupolone. Quello che è già considerato il supertestimone, il tunisino naturalizzato italiano Laid Ben Fathi Hidri - handyman di Angelo Balducci e autista del costruttore romano - ha infatti esteso le sue testimonianze dalla politica al Vaticano, tirando in ballo “un importante monsignore” da cui spesso accompagnava Anemone. L’identità del prelato è stata svelata quasi subito: si tratta di Francesco Camaldo, cerimoniere del Papa e, per quindici anni, segretario particolare del vicario di Roma, cardinal Ugo Poletti.

Fino ad oggi gli unici legami di Diego Anemone con l’universo della Santa Sede stavano nel fatto che, atti alla mano, alcune compravendite di appartamenti passavano da enti religiosi come “Propaganda Fide”, di cui Angelo Balducci - l’ormai ex gentiluomo di Sua Santità, con il vizietto - era consigliere. Con le nuove dichiarazioni di Hidri, si è venuti invece a scoprire che i rapporti di Anemone con gli alti prelati erano molto più stretti e frequenti di quanto non si desse a intendere. Il momento di svolta, per la cricca che si è accaparrata la fetta più grossa degli appalti pubblici, pare collocarsi nel 2000, all’epoca del grande Giubileo romano, ma per adesso gli inquirenti stanno ancora vagliando le reali connessioni.

Le interdipendenze che legano il palazzinaro romano e soci a San Pietro, si possono però intuire collocando gli uomini nei tempi e negli spazi che le cronache ci hanno fornito. Sappiamo, infatti, che Angelo Balducci è stato nominato consigliere della Congregazione per l'Evangelizzazione dei Popoli dal potente cardinale Crescenzio Sepe, dopo che questi l’aveva visto all’opera in veste di provveditore alle opere pubbliche per la regione Lazio durante i giorni del Giubileo. Assumendo una carica all’interno di “Propaganda Fide” - presieduta prima da Sepe, oggi arcidiacono di Napoli, e poi dall’ex arcivescovo di Bombay Ivan Dias  - Balducci s’inserisce nel cuore del dicastero vaticano attinente alle attività missionarie.

Dicastero che, in virtù degli immensi territori di missione, ha attribuite facoltà e funzioni normalmente esercitate da altre congregazioni e che, appunto, per la sua incisività sul mondo cattolico, fa chiamare ufficiosamente il suo prefetto, il Papa rosso. Balducci, in quanto membro del comitato che ha il compito di collocare l’ingentissimo patrimonio di “Propaganda Fide” - un patrimonio perlopiù fatto di immobili concentrati a Roma e all’estero - ha quindi in mano una moneta di scambio decisamente ghiotta per Anemone, almeno a quanto raccontano le cronache.

Sappiamo inoltre che il porporato chiamato in causa dall’autista tunisino era già stato “attenzionato” dalla magistratura. Nel 2006 viene infatti sentito a Potenza dal pm Henry John Woodcock, per una storiaccia dai contorni torbidi riguardante aficionados della massoneria e uomini dei Servizi Segreti. Nella testimonianza rilasciata alla procura, monsignor Camaldo avrebbe detto di aver chiesto un prestito di 280.000 Euro a Balducci in quanto assillato da un debito relativo all’acquisto di una villa ai Castelli Romani; somma che quest’ultimo, una volta interrogato, dichiarerà di aver messo a disposizione dell’alto prelato tramite un giroconto allo Ior. Non ci è dato sapere se il prestito autorizzato da Balducci sia mai rientrato.

Quella che però potrebbe essere la chiave di volta di questo immenso sistema fondato sul do ut des, porta il nome don Evaldo Biasini, economo e tesoriere della Congregazione missionaria del Preziosissimo Sangue - sottobranca della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli. L’ottantatreenne sacerdote romano, amico di lunga data della famiglia Anemone, avrebbe infatti custodito nella cassaforte missionaria svariate mazzette di contanti, pronti ad essere erogati al costruttore in caso di necessità. Interrogato a seguito della perquisizione dei Ros nell’Istituto, don Biasini avrebbe poi candidamente affermato di aver messo a disposizione di Anemone i conti intestati all’Ente, di fatto utili al deposito di assegni al prelievo di contanti puliti.

Questi gli antefatti che potrebbero portare gli inquirenti a chiarire le dinamiche degli scambi intercorsi tra Anemone e alcuni esponenti della Santa Sede. I quesiti che affollano le menti dei magistrati e dei cronisti potrebbero essere risolti con facilità dal costruttore romano, ormai ufficialmente al centro di quella che è già stata impropriamente ribattezzata “la nuova Tangentopoli”. Ma il silenzio che l’ha accompagnato in questi tre mesi di carcere è difficile che venga sciolto entro domenica, quando Diego Anemone sarà nuovamente un uomo libero.

 

 

di Nicola Lillo

Montagne di assegni circolari, soldi in nero, evasione fiscale e bugie di ministri della Repubblica. E non si sa cosa ci si possa aspettare ancora dallo scandalo nato dall'inchiesta sugli appalti per i Grandi Eventi, che ha preso quota lo scorso febbraio dalla Procura di Firenze. Tuttora in carcere i tre alti funzionari della presidenza del Consiglio, Angelo Balducci, Fabio De Santis e Mauro Della Giovamapaola. Arrestati insieme a Diego Anemone, il giovane imprenditorie con contatti e amicizie nelle più alte stanze del palazzo. Indagato insieme a loro, e a piede libero, Guido Bertolaso, coinvolto anche in uno scandalo di natura sessuale, con prestazioni offerte proprio da imprenditori, i quali avrebbero ricevuto in cambio, secondo l'accusa, grosse fette di appalti dal capo della Protezione Civile.

Negli ultimi giorni il tornado dell'inchiesta sui Grandi Eventi si sta abbattendo proprio sul Consiglio dei Ministri. In particolar modo su Claudio Scajola. Le indagini della Procura di Perugia, città dove l'inchiesta è stata spostata per competenza, rimbalzando prima da Firenze a Roma, poi dalla capitale a Perugia, si stanno interessando ad alcuni “strani” movimenti finanziari, a partire da quelli del ministro dello Sviluppo Economico (non indagato), il quale avrebbe acquistato una casa con vista sul Colosseo. Compravendita non del tutto chiara. Non tornano, difatti, diversi conti.

L'architetto Zampolini, già collaboratore di Anemone, afferma di aver ricercato per diverso tempo, su commissione proprio dell'imprenditore ora agli arresti, un immobile per il ministro. Trovato l'appartamento sono iniziati gli accordi sul prezzo di vendita. Le allora proprietarie, Beatrice e Barbara Papa, raccontano che il prezzo convenuto era di 1,7 milioni di Euro. Ma sarà Zampolini a predisporre gli assegni, che avrebbero poi coperto la parte in nero.

Infatti, nell'atto vergato dal notaio Gianluca Napoleone, le parti dichiarano di vendere i 9,5 vani catastali a 610 mila Euro, meno della metà del prezzo convenuto. E il restante denaro? È proprio Zampolini, su incarico di Anemone, a fornire i contanti: 80 assegni per 900 mila euro. La legge prevede, infatti, che ciascun assegno non superi i 12,500 euro, per una funzione anti-elusiva. Ed è proprio questa la ragione dei numerosi assegni circolari che fanno insospettire gli inquirenti. I titoli sembrano provenire dal ministro, ma la provvista è fornita da Anemone.

Scajola non è indagato, ma certamente si aspetta una risposta e un chiarimento agli eventi incresciosi di cui si sta parlando su tutti i giornali. Numerose le interviste rilasciate sui maggiori quotidiani nazionali, dove comunque sembra che il ministro voglia far capire di essere innocente in quanto… innocente. Tautologia a parte, il Premier Berlusconi ha già rigettato le sue dimissioni. Sarebbero state le seconde, in seguito a quelle inviate dopo le polemiche per la scorta tolta a Marco Biagi, ucciso dalle Nuove Br, poiché definì il giuslavorista un “rompicoglioni”.

Anche su un altro uomo del Pdl - l’ex ministro e ora deputato Pietro Lunardi - si sono rivolte le attenzioni degli inquirenti. Un personaggio abituato a dichiarazioni sconcertanti, proprio come il suo compagno di partito e ora ministro, Scajola. “Lo Stato deve abituarsi a convivere con la mafia”, disse nel 2001, da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti. In questi giorni la Procura di Perugia sta indagando su alcune buste dal contenuto “sconosciuto” consegnate a “vari soggetti, alcuni dei quali ministri”, per conto di Angelo Balducci e di Diego Anemone. Ed è spuntato fuori proprio il nome di Lunardi.

Un nuovo testimone, infatti, il tunisino Laid Ben Hidri Fathi, già interrogato a Firenze il 25 marzo scorso, ha rivelato alcune informazione interessanti. L'uomo è stato in passato “l’autista tuttofare e uomo di fiducia di Angelo Balducci e di Diego Anemone e da loro aveva ottenuto deleghe bancarie per operare sui conti correnti”. Nel 2004 prese 200 mila euro e sparì dalla circolazione. Dopo due anni riuscì a riallacciare i contatti con i due, in seguito al suo pentimento.

Pochi giorni fa è stato riascoltato dai pm di Perugia. Il tunisino riferisce nuovamente del suo passato di “autista tuttofare” di Angelo Balducci e Diego Anemone, quest'ultimo conosciuto nel 2000 tramite lo stesso Balducci. In quel periodo si verifica una stretta collaborazione e lo stesso imprenditore Anemone lo avrebbe autorizzato a operare su alcuni conti delle società del Gruppo. In questa circostanza Fathi fa il nome di Angelo Zampolini.

Il tunisino rivela che è a lui che ha consegnato somme di denaro, in quanto l'architetto faceva operazioni immobiliari per conto di Balducci e Anemone. Riferisce poi che, ancora per conto dei due datori di lavoro, avrebbe intrattenuto rapporti con vari soggetti, tra cui ministri ai quali consegnava messaggi o buste di contenuto sconosciuto. Ed è qui che nomina Lunardi. Sono in corso verifiche per accertare le parole di Fathi e gli eventuali incontri.

Intanto gli inquirenti continuano a concentrasi sull’acquisto dell’appartamento per Claudio Scajola. Lo stesso Hidri Fathi avrebbe infatti dichiarato di aver consegnato lui stesso all’architetto una somma di 500.000 Euro in contanti. Somma che sarebbe servita all’acquisto di un immobile dietro il Colosseo. Per i magistrati non c'è alcun dubbio sul fatto che si tratti proprio della casa del ministro. Inoltre, nell'interrogatorio del 23 aprile scorso, è stato proprio Zampolini a confermare tutte le circostanze raccontate dal testimone, aggiungendo che “oltre a Fathi, anche altri autisti e la segretaria di Anemone si occupavano di consegnarmi i contanti”.

Sono ancora tante le zone d'ombra della ragnatela di intrecci economici e politici che aleggiano su questa inchiesta. Certamente quello che è emerso è sufficiente per qualche dimissione. Ma in questo Paese per arrivare a tanto cosa dobbiamo aspettarci ancora?

 


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