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di Mario Braconi
Dopo il vergognoso "aiutino" ad evasori fiscali e cultori dell'abuso edilizio, nel teatrino horror-kitsch di un governo berlusconiano non poteva mancare il tradizionale "numero" di assalto ai diritti dei lavoratori dipendenti: è di scena in questi giorni l'attacco alle pensioni. Sempre che il bavaglio confezionato dall'esecutivo lo consenta, il governo Berlusconi si fa notare quasi quotidianamente per il suo atteggiamento disinvolto nei confronti del malaffare (il caso Scajola sembra in effetti la punta di un iceberg); inoltre, al di là dei proclami populistici, pare proprio che il confuso opportunismo finanziario e la conclamata debolezza morale che lo contraddistinguono non possano esprimere molto più che provvedimenti il cui vero obiettivo è favorire i disonesti.
Con queste premesse, appare incongrua, per non dire sospetta, la solerzia con la quale Sacconi, ministro del Welfare della nostra Repubblica, si dà un gran da fare per ripristinare l'onore dell'Italia, infangato dalla procedura di infrazione elevata dalla Corte Europea a causa della mancata equiparazione dell'età pensionabile tra dipendenti pubblici maschi e femmine: oggi, infatti, è previsto che i primi possano andare in pensione a 65 anni, cinque anni più tardi delle loro colleghe. Ora, tutto si può dire fuorché l'Italia si tiri indietro se si tratta di violare le regole comunitarie: non a caso di infrazioni ne ha collezionate oltre un centinaio. Eppure non tutte appaiono ugualmente preoccupanti agli occhi degli esecutivi nazionali.
Vediamo il caso sorto attorno alla delibera CIP6 del 29 aprile 1992, con la quale sono stati stabiliti i prezzi incentivati dell'energia prodotta da fonti rinnovabili o "assimilate": poiché gli incentivi ai produttori "virtuosi" si riflettono in un carico per l'utente/contribuente, si tratta di un balzello, anche se, almeno inizialmente, destinato ad una giusta causa. Poiché secondo la legge italiana tra le energie rinnovabili si trova anche la "trasformazione dei rifiuti organici ed inorganici" (!), da decenni gli italiani involontariamente (e spesso inconsapevolmente) pagano un sussidio obbligatorio a favore di chi produce e gestisce inceneritori di rifiuti.
Si tratta di impianti che, a dispetto del suggestivo nome con il quale si è deciso di ribattezzarli - "termovalorizzatori" - sparano nell'atmosfera diossina ed altre porcherie tossiche. In sintesi, con la bolletta della luce gli Italiani da decenni subiscono un prelievo forzato che lo stato utilizza per aiutare famiglie amiche (Garrone, Moratti, Marcegaglia) a gestire il loro business inquinante.
Un vero capolavoro, il cui fulgore perverso è appena appannato dalla contestazione, nel corso degli anni, di ben quattro procedure di infrazione europee (2004/43/46, 2005/50/61, 2005/40/51 e 2005/23/29). Dopo 18 anni di allegro rapinare, alla fine del 2009 l'apparente salto quantico: come nota il sito del Ministero per lo Sviluppo Economico, grazie al decreto firmato il 2 dicembre 2009 dal ministro Scajola, gli incentivi "finiranno a cominciare dal 2010 con effetti benefici per i consumatori" (si noti per inciso il banditesco uso dell'Italiano).
Peccato che, come spiega la nota esplicativa del decreto, le "convenzioni CIP 6/92 aventi ad oggetto gli impianti alimentati da fonti rinnovabili e da rifiuti (altra tipologia prevista dalla normativa in essere) non sono oggetto di questo decreto e sono rinviate a eventuale provvedimento successivo". Il che vuol dire che, benché i procedimenti a carico dell'Italia risultino in qualche modo chiusi, gli incentivi per i termovalorizzatori continuano a sopravvivere e prosperare a dispetto del diritto e del buonsenso.
Tutto ciò per dire che non tutte le infrazioni europee sono uguali e che, quando un amico si fa avanti, la soluzione si trova sempre. Se invece si tratta di prendere posizioni muscolari nei confronti dei lavoratori, la musica cambia. Ed è così che il ministro Sacconi, indimenticabile protagonista di un'imbarazzante battaglia moralista sul corpo di Eluana Englaro, esce mortificato da un incandescente rendez-vouz con una Commissaria Viviane Reding versione sado-maso: stringendosi nelle spalle riconosce che l'adeguamento graduale dell'età pensionabile traguardato al 2018 non soddisfa la rigorosa cristiano-sociale lussemburghese. Si dovrà quindi innalzare in tutta fretta l'età pensionabile delle dipendenti pubbliche italiane di 5 anni, possibilmente in un'unica soluzione, nel 2012.
Quanto rigore, nei confronti dell'Italia...Eppure, analizzando le norme che disciplinano il pensionamento dei dipendenti pubblici in Europa, si scopre che, su 24 Paesi, 13 non hanno regole diversificate per genere, mentre 11 distinguono tra uomini e donne - tra questi, oltre all'Italia, Polonia, Austria, Spagna e Regno Unito – ma si noti che quest'ultimo prevede l'equiparazione solo nel 2020. Si può dunque concludere che la ragione per la quale il governo Berlusconi ha iniziato la sua "campagna" di ridimensionamento del welfare è sostanzialmente di tipo politico: si tratta, infatti, di introdurre in modo graduale il concetto dell'ineluttabilità di un innalzamento, anche consistente, dell'età pensionabile - per tutti.
Oggi, è vero, si parla delle donne che lavorano nella pubblica amministrazione; domani toccherà anche a tutti altri. Non ci si lasci illudere dalla foglia di fico dell'Europa, un comodo alibi dietro cui il pavido ministro si nasconde. Né sorprende più di tanto apprendere che sulla scrivania di un giornalista di Repubblica sia stato fatto scivolare "per caso" un dossier dal quale si evince che i sacrifici (altrui) che ha in mente il nostro esecutivo sono più pesanti e persistenti di quanto si possa immaginare.
L'arrembaggio contro le dipendenti pubbliche nasconde un'offensiva di tipo (anche) culturale: via le certezze e niente pensione fino a 70 anni per i neoassunti dal 2010 in poi. Un modo come un altro per mutare il giusto malcontento delle nuove generazioni nel cinismo della disillusione.
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di Fabrizio Casari
La legge che prova ad abolire la libertà di stampa in Italia è passata al Senato. Dovrà ora tornare alla Camera per la sua ratifica definitiva o per eventuali - ancorché limitate - modifiche al testo licenziato da Palazzo Madama. Sarà dunque Montecitorio l’ultimo appuntamento legislativo per definire i dettagli dell’imbavagliamento mediatico. Poi toccherà al referendum sancirne la sorte che merita. Le norme contenute nella legge non hanno nulla a che vedere con il rispetto della privacy degli indagati, né hanno a che vedere con il rispetto rigoroso di ruoli e responsabilità dei diversi attori ascrivibili alla violazione del segreto istruttorio.
La legge ha, al centro del suo dispositivo, norme e minacce al lavoro degli investigatori e delle procure. Mira a rendere estremamente difficile la continuità delle inchieste e, di converso, a difendere le cricche e i politici che le sostengono e che da esse, nel contempo, sono foraggiati e sostenuti, dalla diffusione pubblica del loro operato e dei loro intrecci affaristici. La legge è questa e la parte riguardante il diritto di cronaca e, prima ancora, il diritto dei cittadini ad essere informati, sono due degli elementi che compongono la triade del nuovo Minculpop.
Il primo scopo della legge è impedire d’indagare; il secondo d’impedire che si sappia su chi e cosa s’indaga, il terzo di evitare che chi legge (e poi vota) giudichi. Si deve sapere che alcuni tra i reati più orrendi della storia di questo paese, siano essi di mafia e di stragi, o di peculato e truffe sulle tragedie, non sarebbero venuti alla luce se gli investigatori non avessero potuto utilizzare le intercettazioni. Non avremmo saputo, per esempio, di sciacalli festanti per il terremoto che pregustavano il business con i corpi sotto le macerie. Ed è proprio per questo che oggi diventa tutto più difficile per chi indaga: gli intrecci e le lotte di potere per il dominio politico-affaristico del paese hanno senso solo se nascoste, segrete ai cittadini ma chiare a chi deve capire. Un codice per addetti ai lavori, che ha bisogno di cittadini ed elettori ignoranti.
Questo sito non ha mai voluto pubblicare estratti e verbali di inchieste, meno che mai requisitorie di pm sotto forma di articoli: siamo convinti che la distanza tra verità dei fatti e verità processuale vada mantenuta in uno Stato di diritto, e che i giornali (diversamente dagli attori del processo) debbano essere affezionati alla prima più che alla seconda. Superluo dire che, comunque, non obbediremo a questa legge e ci adopereremo affinché venga cancellata il prima possibile. Crediamo anche che nessuno si opporrebbe a una legge che tutelasse maggiormente la privacy delle persone, regolarmente messe alla berlina sui settimanali e quotidiani gossipari riconducibili alla proprietà del Presidente del Consiglio.
Le liste di proscrizione in prima pagina, i pedinamenti dei giudici che indagano sulle cricche, i gossip peggiori sulle celebrità non affini politicamente, come il traffico di dossier tra Palazzo Grazioli e le redazioni dei suoi giornali, destinati a colpire gli avversari politici soprattutto con dossier falsi, fanno ormai parte di una consolidata tradizione ascrivibile all’impero mediatico di chi ha voluto la legge bavaglio.
Nessuno obietterebbe niente nei confronti di norme che tutelassero la secretazione degli atti d’indagine e che impedissero la pubblicazione d’intercettazioni ininfluenti, quando non estranee, all’inchiesta in corso. In questo contesto, il rispetto della privacy sarebbe un elemento di valore aggiunto.
Ma la verità è che la legge si guarda bene dal difendere questi elementari diritti di chi è indagato, essendo invece solo mirata a minacciare editori e giornalisti dalla pubblicazione di quanto altri soggetti - avvocati, cancellieri, magistrati - offrono ai cronisti di giudiziaria. Dunque la legge non punisce un comportamento illecito degli attori del processo (ma anche lecito, quando è fatto nei modi e nei tempi stabiliti dall’ordinamento, visto che gli atti depositati, come i processi, sono costituzionalmente pubblici) ma solo la loro pubblicazione sui media.
La verità è che l’incontinenza verbale degli affaristi e l’inevitabile uso del telefono per collegare soggetti diversi situati in luoghi diversi, è divenuta una fonte primaria d’indagine che colpisce i grandi reati, non certo la microcriminalità. Per questo viene limitato l’uso delle intercettazioni, per questo viene messa in mora la possibilità di acquisire prove tramite le stesse. Se si fossero intercettati solo i ladruncoli e la microcriminalità, nessuno avrebbe pensato ad una legge bavaglio, se ne può essere certi.
Quanto ai media, il tentativo é quello di riportare i giornali sotto il controllo militare degli editori, minacciati da multe pesantissime. In sostanza, l'obiettivo, nemmeno celato, é quello di scavalcare il ruolo dei direttori e dei giornalisti, imponendo le ragioni di opportunità degli editori sulla libertà di stampa. Come dire: non importa se quello che c'é scritto é vero, importa solo quello che ti costa scriverlo.
L’intimidazione ai giornalisti è evidente: la concezione che i potenti hanno dei giornalisti è quella che prevede microfoni e telecamere rincorrere i leader e i peones sui corridoi, così da essere utilizzati per l’invio di messaggi auto promozionali e offerte o minacce ad amici e avversari. Li vogliono ridenti e soddisfatti, intenti a confezionare il nulla con la fuffa, compiaciuti dell’aver registrato per primi la banalità del giorno, comprimari di quel penoso spettacolo che ci offrono i tg. Sarebbe ora che tutti noi giornalisti cominciassimo a riflettere su quello che facciamo come categoria per meritarci il rispetto ed il timore del potere.
Magari la categoria decidesse una sola, piccola iniziativa: si prendano nomi e cognomi di deputati e senatori che votano la legge bavaglio e si stabilisca che in nessun giornale, mai più avranno l’onore di una citazione, di una foto, di una battuta riportata, men che mai di un’intervista. Questo, l’anonimato de facto, è ciò che li terrorizza più del loro capo. La loro vanità è notevolmente superiore allo spirito di servizio verso le istituzioni. Bisognerebbe quindi annunciare trasversalmente a chi non vuole che i giornalisti scrivano, che proprio di loro non scriveranno. Avremo tale e tanto rispetto della privacy che non li nomineremo più per quanto attiene alla loro attività politica.
Quello consumatosi ieri al Senato è un reato contro la dignità di un paese. L’aula non è più "sorda e grigia", ma urlante e nera, e vota la fiducia ad una legge che porta in sé un tanfo insopportabile di ventennio. Il fatto che l’abbia presentata Gasparri, evidenzia, almeno, un tributo alla coerenza.
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di Mariavittoria Orsolato
E’ ormai un bulldozer pronto a sbaragliare gli avversari, il ddl sulle intercettazioni, altresì noto come legge bavaglio, che dopo anni di annunci e minacce approda in questi giorni al Senato, dopo l’approvazione all’unanimità ricevuta dall’ufficio di presidenza del Pdl. Giornalisti, magistrati, società civile: sono tantissimi quelli che vedono le nuove disposizioni come un mastodontico regalo alla criminalità organizzata e un’utile pezza alle disastrose figure che nomi importanti del governo e delle élites istituzionali hanno fatto dinanzi al Paese.
Quello del Governo Berlusconi è in effetti un colpo di spugna magistrale sulla prassi consolidata della clientela e del malaffare, e in più ha l’ineguagliabile merito di ferire a morte l’operato quotidiano di magistrati e giornalisti. Un capolavoro di azzecca-garbuglismo che in soli 5 articoli e 9 commi riesce a blindare la pratica e il ricorso all’intercettazione, limitandone i termini giuridici ed impedendone la pubblicazione con la minaccia di multe salatissime agli editori.
Se, al principio, l’opposizione del presidente della Camera Fini rappresentava una flebile speranza di modifica, ieri, con l’approvazione dell’innalzamento di proroga delle intercettazioni ogni 72 ore (anziché ogni 48), anche i fedelissimi di Gianfranco hanno mestamente capitolato. E’ bastato poco, insomma, per accontentare i “fratellastri” del Pdl, rintuzzati da Padron’Silvio sul fatto che le modifiche apportate sono ora definitive e che in sede di votazione alla Camera non saranno tollerati dissensi di alcun genere o sorta.
Una votazione che già nelle premesse pare sarà blindata dalla doppia fiducia, ma che potrebbe trovare uno scoglio in Napolitano: nel corso del weekend, il Quirinale ha passato di nuovo al setaccio la legge, ha confermato i suoi dubbi e li ha prontamente segnalati ai berluscones, paventando il rischio che, se il testo rimane così com’è, potrebbe anche non essere firmato.
Al di là delle dialettiche politiche che fanno da corollario a questo scempio legislativo, è importante valutare quelle che saranno le effettive conseguenze delle nuove norme. Per prima cosa le intercettazioni dovranno essere disposte da un tribunale collegiale composto da almeno 3 membri e avranno una durata massima di 75 giorni; solo in casi decretati come straordinari i pm potranno fare ricorso a 72 ore di proroga. Si è poi deciso che nel caso in cui le intercettazioni provassero reati estranei a quelli dell’inchiesta, queste non possano essere utilizzate ai fini della dimostrazione di colpa, nemmeno nel caso in cui i reati accertati dall’ascolto siano più gravi di quelli dell’imputazione.
Più volte l’Associazione Nazionale Magistrati ha tentato di denunciare che, con questi paletti, rischia di diventare impossibile scoprire i colpevoli di reati gravissimi come omicidi, rapine, estorsioni, usura, bancarotte milionarie e corruzioni, ma per Berlusconi la privacy è sacra: “Finora se avevi 15 fidanzate - ironizza il premier - finivano tutte intercettate per un tempo indeterminato” e poco importa se in nome della sacra privacy soggetti come quelli della “cricca” o delle équipes mediche del Santa Rita sarebbero ora liberi di continuare nei loro misfatti.
Ma i limiti imposti dalla legge bavaglio non interessano solo le intercettazioni telefoniche: secondo il testo infatti, le forze dell’ordine non potranno più servirsi di microspie da piazzare in ambienti privati; d’ora in poi gli indagati potranno essere video-registrati solo in flagranza di reato.
Con questo punto si disintegrano quindi le basi di tutte le inchieste anti-mafia, operazioni imperniate proprio sull’ascolto delle conversazioni in luoghi in cui i malavitosi credono di essere al sicuro: interventi magistrali come quelli svolti in casa Guttadauro, con un presidente di regione (Totò Cuffaro) che personalmente informa il boss sulle indagini a suo carico, saranno quindi cancellate dagli annali della magistratura.
Dopo aver disarmato la giustizia ci si concentra poi sull’informazione non gradita: si sancisce il carcere fino a tre anni per i giornalisti “colpevoli” di pubblicare stralci di conversazioni penalmente irrilevanti nel nome del pubblico interesse, e si comminano multe fino a 775.000 euro agli editori, i quali dovrebbero, in seno al pareggio di bilancio, evitare che si verifichino le condizioni per tali ammanchi.
Affinché poi la stampa capisca che la sua funzione è obsoleta nel regno dell’etere di Padron’ Silvio, il ddl Alfano impedisce l’uscita di qualsiasi atto giudiziario fino alla fine delle indagini e dell’udienza preliminare. Grazie a questa misura un giornale come Il fatto quotidiano dovrebbe immediatamente chiudere i battenti, mentre l’opinione pubblica sarebbe informata con anni di ritardo su fatti di scottante attualità come furono le scalate bancarie dei “furbetti del quartierino” o le liason coattate da Giampi Tarantini.
Scampata invece la possibilità di allargare a piacimento il segreto di Stato: un comma rimosso all’ultimo momento prevedeva infatti che gli uomini dei servizi potessero opporsi davanti ai giudici, anche quelli anti-mafia, in nome della riservatezza istituzionale.
Questi in sintesi i cambiamenti che entreranno in vigore subito dopo l’approvazione del ddl Alfano, modifiche blindate e che blinderanno l’impunità dei molti, troppi, che per giustizia e libertà intendono solo quella personale.
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di Ilvio Pannullo
La prima impressione è quella che si prova istintivamente quando s’inizia a guardare un film già visto. Alcuni lo chiamano deja vù. E’ questo quello che accade a chiunque osservi quanto accade in Grecia. Non è, infatti, assolutamente difficile cogliere le infinite analogie che legano il decennio catastrofico dell'Argentina dal 1991 al 2001, terminato con il massiccio collasso finanziario della nazione, e le recenti incombenti difficoltà della Grecia.
In tutti e due i casi, l’origine delle cause è da ricercare nella mediocrità della classe politica, nella corruzione e nelle costanti malversazioni dei funzionari pubblici, mentre la colpa del dissesto è invece imputabile al lavoro certosino delle organizzazioni di credito internazionali. Entrambi i paesi sono stati poi afflitti da rivolte e proteste diffuse contro le misure di austerità imposte dal FMI.
All'epoca l'Argentina subì il suo peggiore collasso a livello monetario: il crollo del sistema bancario e del debito pubblico portò a tumulti, violenza folle, proteste e guerra sociale. L'agitazione fu così dannosa da costringere alle dimissioni il Presidente Fernando de la Rua, soprattutto a causa del suo famigerato Ministro dell'Economia, Domingo Cavallo - un Chicago Boy allievo del padre del monetarismo Milton Friedman, nonché figlio dei cartelli bancari internazionali e protetto di David Rockfeller - generando un vuoto politico che portò l'Argentina ad avere cinque, ben cinque presidenti in quell'ultima terribile settimana del dicembre 2001.
La scintilla del caos sociale in Argentina fu il tentativo del Presidente de la Rua di attuare le misure di austerità, evidentemente ingiuste, imposte dal FMI che richiedeva, come al solito, il massimo sacrificio da parte della popolazione - più tasse, meno spese sociali, nessuna spesa in disavanzo, ed altre misure anti-sociali - che causarono un crollo del PIL argentino di quasi il 40%.
Metà della popolazione precipitò al di sotto della soglia di povertà (molti non fecero mai ritorno alla tradizionale classe media argentina), mentre alle banche private fu concesso di trattenere legalmente i risparmi della gente. I depositi in dollari USA furono cambiati in pesos in modo del tutto arbitrario, a qualsiasi tasso di cambio deciso dalle banche o dal governo: il dollaro fu svalutato del 300%, con la conseguenza che il cambio tra le due divise passò da 1 peso al dollaro a 4 pesos al dollaro, nel giro di poche settimane. Nessuna banca fallì perché a pagare le scelleratezze del governo fu la popolazione con tutti i propri beni presenti e futuri.
In Argentina, nel corso di 25 anni di governi provvisori, il cartello bancario internazionale guidato dal FMI ha generato, con la compiacenza delle varie giunte militari che si sono nel tempo avvicendate al comando del paese, un debito pubblico fondamentalmente illegale - o nella migliore delle ipotesi, illegittimo - che è cresciuto in maniera enorme, finendo per far collassare l'intero sistema economico-finanziario della nazione.
Non fu una coincidenza. Faceva parte di un modello altamente complesso, architettato al fine di controllare interi paesi, tramite un ciclo a fasi sequenziali e stadi ben identificabili, con un solo unico scopo principale: il profitto. Quando l'economia di un paese viene alimentata al fine di attuare una "modalità di crescita" artificiale, l'insieme di tutti i profitti viene privatizzato nelle mani dei suoi amici politici, managers ed operatori. Quando però l'intero schema - come ogni schema Ponzi - raggiunge il suo culmine ed il collasso del sistema economico è a portata di mano, allora si inverte il processo e si socializzano tutte le perdite.
Ma non tutte le disgrazie vengono per nuocere o, forse, il ruolo della sofferenza è precisamente quello di far sorgere delle qualità che non appariranno mai in altre condizioni. Accadde così che il saccheggio portato avanti dagli sciacalli monetaristi offrì il pretesto al paese per lanciare il cuore oltre l’ostacolo. Nel marzo del 2009 l´Argentina seppe voltare le spalle al dollaro per entrare nella "zona yuan".
In gergo tecnico si chiama currency swap: fu un´intesa bilaterale fra le due banche centrali di Pechino e Buenos Aires per i regolamenti valutari dell´interscambio tra le due nazioni. In partenza l´accordo-swap valeva 70 miliardi di yuan (la valuta cinese) con l’espressa previsione di un possibile aumento a seconda della crescita dell´import-export bilaterale. La novità storica fu che le transazioni commerciali tra i due paesi, da quel momento in poi, sarebbero state regolate in valuta cinese, anziché in dollari Usa come accadeva precedentemente.
Ma prima di vedere la luce di una nuova alba il popolo argentino ha dovuto passare per una delle notti più dolorose della sua storia. Questo è quanto ha fatto Mr. Cavallo, garantendo che il popolo argentino avrebbe sostenuto le perdite, mentre i banksters [termine coniato per l’occasione, ottenuto attraverso la contrazione di banker e gangster, ndr] internazionali riscuotevano tutti i profitti.
Ora, questa era l'Argentina del 2001/2002; ma non è anche il caso dell'americano odierno che pagando le tasse soccorre Goldman Sachs, CityGroup, e GM mentre perde la sua casa, la sua pensione, il suo lavoro? Non è forse ciò che sta accadendo alla Grecia oggi? E l'Islanda? L'Irlanda? E non potrebbe prossimamente accadere anche in Spagna, in Portogallo o in Italia?
Oggi, guardiamo la Grecia e vediamo gli stessi segnali spia: il FMI che impone rigide misure di austerità come condizione delle banche per ottenere più prestiti, come se un paese che collassa sotto il peso del debito potesse superarlo indebitandosi ancor di più. I media di regime parlano con enfasi della necessità che la Grecia si comporti “in maniera corretta e responsabile" e i governi locali fanno tutto ciò che gli è possibile nell'interesse delle grandi banche come Goldman Sachs, che prova a recuperare tutto ciò che legalmente gli è dovuto nel mezzo dei disagi e delle rivolte che per prima ha facilitato a creare.
Tutto questo ha per sfondo cittadini disperati che scendono in strada per esprimere ciò che è chiaro a tutti: i banchieri internazionali ed i governi provvisori locali costituiscono una complessa associazione di ladri e rapinatori.
Poi accade l'inevitabile: il governo manda la polizia in strada per proteggere i banchieri, se stesso e gli interessi dell'élite al potere. Poi la violenza dilaga, la gente resta ferita o uccisa: la povera polizia combatte contro la povera gente, mentre gli artefici del disastro restano al sicuro osservano da lontano l’evolversi della situazione. Quella che appare, che sembra delinearsi in maniera neanche troppo nascosta, è dunque una sottile linea rossa che unisce i tanti casi di dissesti finanziari di nazioni sovrane.
Interi popoli portati al macello dalle rispettive classi dirigenti, virtualmente al potere per un triste gioco di specchi dove chi decide non é chi effettivamente appare in pubblico e chi appare in pubblico non si assume mai le responsabilità delle proprie decisioni e delle proprie omissioni. Non è più tempo di errori: non c'è nessuna democrazia, neanche ad Atene, dove il concetto stesso di democrazia è stato immaginato per la prima volta. Ciò che è richiesto sono solo i conti in ordine: numeri al posto di persone.
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di Cinzia Frassi
"Nessuna donna dovrà più abortire in Lombardia a causa delle difficoltà economiche": parola di Roberto Formigoni, Presidente della Regione Lombardia. La giunta regionale, infatti, ha varato un provvedimento sperimentale d’intervento a favore delle donne che rinuncino ad un'interruzione di gravidanza quando questa sia determinata da motivi economici. Un gruzzolo di 5 milioni di Euro denominato Fondo Nasko. Si parla di un assegno mensile di 250 Euro per 18 mesi.
In attesa di vedere come verrà gestito questo fondo, il mantra del pio Formigoni è quindi questo: nessuna donna dovrà abortire per difficoltà economiche. In tempi di tagli, manovre economiche, flessibilità estrema del lavoro, l'annuncio suona quanto mai sinistro. Viene anche da domandarsi i motivi per cui per questa iniziativa si siano trovati ben 5 milioni di Euro, quando i servizi al cittadino, ai bambini e alla famiglia sono sotto la scure di tagli continui.
Così viene spontaneo mettersi nei panni di quella donna e fare qualche considerazione in merito a quei 250 Euro e se basteranno per pediatra, pannolini, cremine varie, fasciatoio, passeggino, seggiolino per l'auto, per non parlare dell'eventualità di dover provvedere all'allattamento artificiale. Viene spontaneo mettersi nei panni di quella donna, che si domanderà che cosa accadrà dopo quei 18 mesi?
Le difficoltà economiche, infatti, sono determinanti per decidere se avere un figlio oppure no e non sono di certo contributi isolati come questo a risolvere il problema di chi si trova a fare i conti con una gravidanza indesiderata. Perché è di questo che stiamo parlando. Non bisogna fare confusione su questo punto. Il provvedimento, aldilà delle dichiarazioni sibilline, fa riferimento a situazioni isolate, a quei casi per fortuna sempre meno consistenti, in cui una donna si trova ad affrontare una decisione improvvisa quanto scongiurata. E’ sbagliato ritenere che le donne vivano la scelta della maternità al Centro di aiuto per la vita e lì si “ravvedano” per portare avanti la gravidanza.
Se invece si vuole mettere sul tavolo la questione delle opportunità concrete nella società italiana attuale di essere madri o, più in generale, genitori, allora vanno fatte altre riflessioni. Se si vuole difendere la vita, dare alle donne quei servizi e l’assistenza necessaria per favorire la maternità, allora è necessario fare molto di più. Interventi come questo della Regione Lombardia, sembrano spinti più dalla sollecitazione propagandistica di simulare buone intenzioni e di disegnare un’idea sbagliata di una donna che si rivolge ad un Consultorio.
Attorno alla questione maternità sì e maternità no, si assiste sempre più ad un gioco dei no contrapposti, tutti finalizzati ad un allineamento classico della politica. Accade la stessa cosa a proposito della famosa Ru486 e della sua diffusione. Anche qui, tante polemiche ma poche risorse per mettere in campo azioni efficaci a favore della maternità come scelta possibile e consapevole; e nemmeno fondi a sostegno di un’adeguata informazione ai giovanissimi delle varie forme di contraccezione, vero e proprio tabù nella nostra cattolica Italia.
Ma, se vogliamo, il punto centrale dell’elemosina di Formigoni non è questo. Il provvedimento richiede che, quando la donna presenta richiesta d’interruzione volontaria della gravidanza presso un Consultorio pubblico, questi la mettano in contatto con il Centro di aiuto alla vita.
Il Centro al centro. E' il caso di dirlo. Non si comprende il motivo per il quale il finanziamento e il contributo corrispondente vengano gestiti dal Centro di aiuto per la vita e non dai Consultori pubblici. La legge 194 già valorizzava i Consultori, concepiti come centri di assistenza e di aiuto per la donna. Aiuto anche economico, tanto che la legge era dotata di un fondo ad hoc. Invece no, i Consultori pubblici, strutture deputate e professionalmente all’altezza, non sono evidentemente ritenute adeguate per assistere una donna che deve fare una scelta così importante, al punto che qui si passa sopra alla legge 194 e alle funzioni in essa stabilite per i Consultori.
Oppure si può pensare che questo provvedimento sia un perfetto esempio di propaganda condita dalla tempestività con cui si spodestano canali pubblici in favore di altre realtà - sempre più spesso i verginali Centri di aiuto per la vita - e di impiego di denaro pubblico quanto meno criticabile.