di Cinzia Frassi

Il 28 maggio 1974, a Brescia, una bomba nascosta in un cestino portarifiuti esplose mentre era in corso una manifestazione indetta dal Comitato Antifascista. Piazza Loggia era gremita di gente. L'esplosione fu estremamente violenta e si avvertì in tutta la città. La notizia si diffuse rapidamente e molti di noi restarono con il fiato sospeso fino al rientro a casa dei familiari che lavoravano o che erano comunque fuori casa e nei pressi del centro storico. L'attentato fascista fece 8 morti e 103 feriti e oggi ancora nessun colpevole.

Mentre si preparano gli appuntamenti per celebrare la ricorrenza,  entra nel vivo l'ultimo processo, derivante dalla terza istruttoria, che ha portato al rinvio a giudizio per concorso in strage di nomi "illustri": Pino Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, l'ex generale dell'Arma, Francesco Delfino, e uno dei suoi infiltrati, Giovanni Maifredi, autista del ministro dell'Interno dell'epoca Paolo Emilio Taviani e uomo dei servizi segreti. E ancora: Delfo Zorzi, condannato per la strage di Piazza Fontana e ormai cittadino giapponese e Carlo Maria Maggi, militante di spicco di Ordine Nuovo.

In questi giorni nell'aula della Corte d'Assise in cui si sta celebrando il processo ai cinque imputati della strage, sono entrati in scena i periti Paolo Egidi, Federico Boffi e Paolo Zacchei della polizia scientifica divisione IV, sezione II, della direzione centrale anticrime della polizia di Stato di Roma. La ricostruzione della scena è stata realizzata in 3D, tenendo conto di ogni particolare possibile, partendo dalle immagini dell'epoca, dai rilievi e dalle testimonianze. Questo per rispondere a quesiti importantissimi per il procedimento: l'esplosivo utilizzato, la sua provenienza, l’innesco e anche la sua compatibilità rispetto a quello sequestrato in altre occasioni, soprattutto nel ’74. In base alle conclusioni della perizia, si smonta letteralmente la versione di Carlo Digilio, esperto di armi e vicino alla cellula ordinovista del Veneto che, tra le altre cose, non parlò dell'innesco. In base alla ricostruzione, infatti, sembra che l'ordigno avesse un dispositivo di innesco  radiocomandato.

Le conclusioni dei periti ci dicono anche che l'esplosivo era a base di tritolo, presumibilmente di impiego militare,  perché contenente tritolo e nitrato di ammonio, esplosivo polverulento per impieghi militari. Precisano anche che si trattò di almeno un chilo di esplosivo. Ciò consente anche di stabilire la compatibilità con l'esplosivo che il 19 maggio del '74 fece saltare in aria Silvio Ferrai e la sua Vespa e con quello sequestrato nella sua abitazione pochi giorni dopo la strage. Non sono risultati invece compatibili i cinquanta chili di esplosivo sequestrati a Spedini e Borromeo, arrestati proprio da Francesco Delfino, all'epoca capitano dei Carabinieri e oggi imputato per la strage. Spedini e Borromeo si sono sempre dichiarati vittime di una trappola ordita proprio dall'ex-capitano e da Maifredi.

Francesco Delfino é una figura curiosa, emblematica nell'esperienza italiana della strategia nera della tensione. Già al suo arrivo a Brescia nel '71 veniva indicato come uomo dei servizi segreti e il suo nome salta fuori in moltissime vicende ancora non chiarite e fra le altre anche il sequestro Moro, oltre che nel depistaggio appunto alle indagini per la strage di Piazza Loggia. Per la maggior parte dei bresciani, tuttavia, Delfino è l'uomo del sequestro Giuseppe Soffiantini, un imprenditore locale, condannato a tre anni e quattro mesi per truffa aggravata: in sostanza si è messo in tasca 800 milioni di vecchie lire promettendo la liberazione del sequestrato.

Un emblematico personaggio in un'emblematica vicenda, l'ennesima legata alla storia italiana nel periodo più caldo, soprattutto a causa del feeling tra destra nostrana e Cia d'oltreoceano per costruire a tavolino e scientificamente la famosa “strategia della tensione”, che si è poi tradotta nelle varie piste nere delle stragi. Così è anche in questo terzo processo che, udienza dopo udienza, scandaglia ogni dettaglio, ogni particolare, cercando la verità e una risposta definitiva per i familiari delle vittime. Questa come altre stragi impunite vede l'impegno di persone che, al di là delle celebrazioni in punta di cravatta, dedicano tempo ed energie perché non si scriva la parola fine senza colpevoli.

“Se ci sono persone che ancora tacciono la verità sulla strage di piazza Loggia, vuol dire che ci sono cose importanti da sapere, cose che ci riguardano”. Sono parole pronunciate di recente proprio a Brescia all'auditorium San Barnaba, dove il signor Misteri d'Italia, Carlo Lucarelli, ha parlato agli studenti delle scuole cittadine in occasione della Giornata della memoria delle vittime del terrorismo. Lucarelli ha aggiunto che “queste ricorrenze devono diventare delle occasioni per accendere degli interruttori che devono rimanere aperti tutti l'anno. C'è ancora un processo in corso: incominciate a seguirlo. Si deve combattere l'oblio con l'informazione, con la scuola e l'attività politica”.

Il problema delle commemorazioni, infatti, è il day after e tutti quelli dopo fino alla successiva celebrazione. Le autorità si mettono in fila e le iniziative nobili si sprecano, ma non è sufficiente per arrivare a scrivere la parola fine di vicende come quella della strage in questione. Intanto la memoria storica si scontra con un'informazione sempre più miope e una conoscenza molto limitata nei giovani di queste vicende della storia italiana.

 

 

di Ilvio Pannullo

Inizialmente aveva negato l’esistenza stessa della crisi, scoppiata in seguito al collasso del mercato immobiliare americano e propagatasi nelle Borse valori di tutto il mondo, causa allegro utilizzo di strumenti finanziari incomprensibili agli stessi sedicenti esperti del settore. Successivamente, l’aveva imputata ai media, salvo poi affermare trionfalmente che la crisi era alle spalle e che il sistema Italia aveva dimostrato al mondo intero la propria granitica solidità patrimoniale. Ma ora la musica è cambiata e Berlusconi, mai così alle corde, chiede a Tremonti l’ennesima piroetta, gelando con una doccia di freddo realismo il bonario e credulone popolo italiano.

Una doccia che costerà ai cittadini del bel paese ben 25 miliardi di Euro. La crisi insomma c’era se il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, parlando al forum dell'Ocse ha commentato la necessità della manovra con queste parole: "Siamo a un tornante della Storia, non siamo in una congiuntura economica". "L'intensità dei fenomeni che vediamo - ha aggiunto - è storica e sta modificando la predisposizione dell'esistenza, dell'economia e della politica".

Le parole del ministro - gliene va dato atto - sono oneste e rappresentano una corretta descrizione di quanto sta accadendo oggi in Europa. Non si può, però, non ricordare tutto quanto è stato detto e scritto prima di oggi. Chi aveva occhi per leggere e una mente ancora avida di sapere perché non avvizzita dalla propaganda - totalizzante dunque poco meno che totalitaria - ne era pienamente consapevole già da tempo. Poche sono state le voci che nelle sedi istituzionali hanno osato sfidare il muro di silenzio alzato dal re di Arcore a copertura della verità.

Anti-italiani, disfattisti, catastrofisti; questi gli epiteti usati contro coloro che non si sono piegati alla volontà di omertoso silenzio imposta da Berlusconi all’intero mainstream generalista. Prima si è negata la crisi, poi dall’oggi al domani si è scoperto che era già un triste ricordo e adesso si scopre che sarà necessaria una manovra da 25 miliardi, per evitare che i mercati individuino nel nostro paese il prossimo bersaglio su cui concentrare il fuoco della speculazione.

Si aggiunga a questo che sulla necessità della manovra l’allegro venditore di ottimismo non ha detto una sola parola. Da buon comunicatore sa che il format del doppio petto blu, con sorriso smagliante e battuta felice, non può essere incrinato dall’assunzione di quelle responsabilità che, in qualità di Presidente del Consiglio dei Ministri, è suo preciso dovere assumersi. Accade così che ad annunciare la manovra sia l’anima nera di tutti i governi Berlusconi: quel Gianni Letta che parla poco, ma che è onnipresente in tutti i salotti che contano e in tutte le celebrazioni di Stato.

Il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha confermato ieri che la manovra conterrà “una serie di sacrifici molto pesanti, molto duri che siamo costretti a prendere, spero in maniera provvisoria, con una temporaneità anche già definita, per salvare il nostro Paese dal rischio Grecia.” Letta parla di “una manovra straordinaria che chiamiamo “Provvedimenti urgenti per la stabilità finanziaria e per la competitività economica” che ci è imposta dall'Europa, così come per gli altri Paesi, dalla Spagna al Portogallo, dalla Francia alla Gran Bretagna, alla Germania, che stanno prendendo provvedimenti, nel disperato, ma spero vittorioso tentativo, di scongiurare una crisi epocale e di salvare l'Euro”. Non male per una crisi che, a sentir loro, doveva essere già alle spalle.

Il problema è infatti tutto in quest’ultima precisazione: tutti i paesi europei usano l'Euro come moneta avente valore legale, tutti si confrontano con lo stesso tasso di interesse deciso dalla Banca centrale europea, ma ciascun paese trova credito al prezzo che si merita in base alla propria affidabilità come debitore. Il risultato è una competizione tra gli stessi paesi dell’eurozona per aggiudicarsi la maggiore fetta di credito possibile messa a disposizione dai mercati. Per evitare di dover garantire tassi sul debito troppo elevati per poter essere sostenuti nel lungo periodo, i paesi sono dunque costretti a manovre economiche straordinarie che avvalorino la loro stabilità patrimoniale.

Difatti, l’adozione di un piano europeo - sotto le pressanti istanze della Casa Bianca, per il riassetto del debito pubblico degli stati membri dell’Unione - non solo non costituisce una panacea, un rimedio durevole alla crisi strutturale che affligge ormai tutti gli stati occidentali, ma va nel senso voluto dal mentore statunitense, di una rapida integrazione dell’Unione Europea, preambolo obbligato alla costituzione di un blocco occidentale monolitico. Toccherà vedere come andrà a finire la storia. Sempre riferendosi alla crisi, infatti, il ministro dell'Economia Giulio Tremonti ha dichiarato che "è come essere in un videogioco. Arriva un mostro, lo sconfiggi, e quando stai gioendo per il successo ne arriva subito un altro". La metafora è accattivante e per stare in tema si potrebbe sostenere che il prossimo nemico da affrontare sarà più pericoloso di quello attuale.

Il piano europeo che risponde alla crisi di fiducia, di solvibilità - largamente artificiale all’inizio, ma ormai diventata contagiosa - attraverso la ricapitalizzazione degli Stati, come se si trattasse di una semplice crisi di liquidità, ricorda infatti il disperato tentativo di chi volesse fermare una palla di cannone con un fazzoletto di carta. Il piano europeo da 750 miliardi di Euro ricorda il piano americano voluto dall’allora sottosegretario al tesoro Paulson, ex CEO di Goldaman Sachs (dell’ammontare di 700 miliardi di dollari,) destinato, dopo il fallimento degli istituti finanziari americani del settembre 2008, a rimetterli in sesto attraverso l’utilizzo indiscriminato d’ingenti fondi pubblici.

Una soluzione di cui al momento si vedono gli effetti malefici: la ricapitalizzazione del settore finanziario ha accresciuto pesantemente il debito degli stati al di qua e al di là dell’Atlantico, senza rimettere in moto l’economia. I debiti privati sono diventati pubblici e adesso quegli stessi istituti “troppo grandi per fallire” speculano sulla solvibilità dei debiti pubblici che il loro stesso salvataggio ha pesantemente aggravato.

In questo modo, la crisi finanziaria nata negli Stati Uniti ha innescato la recessione: ha chiuso cioè la valvola al meccanismo economico, e di conseguenza prosciugato le risorse fiscali degli stati, rendendo ancora più difficile la gestione di un debito ormai considerevole. Ora l’Unione Europea sta per aggiungere debito al debito con qualcosa come 750 miliardi euro che graveranno ancor più sui budgets nazionali (il tasso medio d’indebitamento della zona euro ammonta attualmente a 78%, per l’Italia siamo al 118%), questo in vista di un ipotetico “ristabilire la fiducia dei mercati”. 

Senza dubbio una prospettiva non molto incoraggiante. In questa cornice il nostro ministro dell’economia ha affermato che la crisi economica "può essere un'opportunità". La crisi, ha aggiunto, "può avere un impatto negativo o anche positivo" sulle strategie europee e internazionali, secondo come verrà gestita. Quello che tuttavia appare certo è che noi la potevamo gestire sicuramente meglio: prima di tutto affrontandola con serietà sin da subito, e in secondo luogo procedendo ad un serio affondo sull’evasione fiscale, il vero scandalo di questo paese, il vero nodo da sciogliere per scongiurare il rischio Grecia.

Ovviamente quello che si vede nel piano varato dal governo non ha nulla a che vedere con questo. Quello che si trova nella manovra, infatti, sono qualche taglio ai ministri, alle auto blu, una spuntatina demagogica alle indennità dei parlamentari, passando alle finestre per la pensione fino ai pedaggi per i raccordi autostradali. Via inoltre le Province più piccole, cioè quelle sotto i 220.000 abitanti che non confinano con Stati esteri e non ricadono in Regioni a statuto speciale. E spunta un «contributo di soggiorno» fino a 10 euro per i turisti negli alberghi di Roma per finanziare «Roma Capitale».

Insomma si raschia il barile e si colpisce lì dove si è sempre colpito: il “mix” di provvedimenti per correggere i conti appare ormai tracciato. E quello che si vede non lascia ben sperare, specie se confrontato con gli altri piani economici varati da Francia e Germania: piani ben più impegnativi che, accanto ai tagli alla spesa, prevedono, saggiamente, robuste iniezioni di capitali nei settori cruciali per la ripresa.

Ora che finalmente si è deciso di affrontare il problema, quello che si dovrebbe chiedere con forza al governo è una precisa assunzione di responsabilità. I numeri ci sono: quello che pare mancare sono gli uomini adatti e la reale volontà di affrontare gli storici problemi del paese.

di Rosa Ana de Santis

Arriva il Piano Sacconi sull’integrazione degli stranieri nel nostro Paese e sulla regolamentazione dei flussi migratori. Passa in superficie la linea morbida del governo per lasciare spazio ad interpretazioni ambigue, scricchiolanti, se non del tutto contraddittorie. Le proposte sono arrivate al Consiglio dei Ministri la scorsa settimana e dovrebbero trovare, proprio in questi giorni, una versione definitiva e concertata. Il documento sdoganerà la novità del permesso di soggiorno a punti.

Una lotteria per mantenere o perdere il patentino di una cittadinanza speciale che, a quanto pare, fatica a trovare strumenti di riconoscimento che non siano legati a uno status giuridico fondato sulla transitorietà. Viene tracciata una fotografia dei flussi migratori attuali con l’orientamento di distinguere, nell’insieme, le diverse identità del migrante. Chi vuole tornare nella terra d’origine, chi attraversa solo l’Italia come tappa intermedia, chi ci vuole rimanere.

La parola chiave che attraversa il piano di governo è “integrazione”. Un ritornello ripetuto a iosa che collide con lo spirito viscerale di tutto il documento e che, soprattutto, aldilà delle applicazioni concrete di provvedimenti spiccioli e prontuari d’azione, non vede nessuna teorizzazione sulla tesi dell’integrazione come evoluzione del concetto di cittadinanza. E se non la prevede è perché non la riconosce. La modalità principale con cui si deve lavorare all’integrazione è quella dell’alfabetizzazione a tappeto per gli stranieri. Scuole, ma anche sportelli nei luoghi di lavoro e particolari permessi studio per i lavoratori, parrocchie e comunità.

Il Ministero dell’Istruzione è l’interlocutore privilegiato e, strano a credersi, Sacconi non vede nell’ipotesi delle classi ponte un limite a questo battesimo dell’integrazione, ma un aiuto. Il 30% di tetto, la limitazione forzata che per effetto collaterale genererà proprio le classi ghetto che vorrebbe evitare, viene raccontata come una tutela per i piccoli studenti che non parlano italiano e non come il primo segnale evidente dell’intolleranza.

Basterebbe farsi un giro davanti alle scuole, ad esempio quelle del nord dove la Gelmini si è tutt’altro che opposta alla richiesta leghista dell’insegnamento degli idiomi dialettali. Sull’alfabetizzazione i due Ministri dovranno intendersi meglio. Così come Sacconi deve essersi distratto quando si rimettevano i crocefissi sulle cattedre a sfregio delle indicazioni europee. Come si coniuga la rivendicazione pubblica di una scelta personale e privata come la fede religiosa con il rispetto delle fedi altrui? Un mistero che il piano del Ministro rimuove.

Il piano Sacconi prevede per il futuro di poter reclutare i lavoratori dai paesi d’origine secondo specifiche competenze professionali o attività ispettive e di formazione ad hoc, senza arrivare all’emergenza prodotta dai flussi migratori esterni. Niente più gommoni, né scafisti, niente esodi della speranza. Una scena ideale in cui l’eccesso di idealismo non svela ingenuità politica; piuttosto un pervicace disconoscimento delle dinamiche reali che alimentano queste odissee, per le quali il tempo della prudenza, ammesso che sia così semplice,  è già passato e lascia del tutto disatteso il problema - questo davvero esplosivo - dei clandestini e dei rimpatri scenografici, ma inefficaci.

E come gestire l’emergenza? Il motto del Ministro diventa “integrazione nella sicurezza”. Controlli sugli adempimenti contrattuali da parte dei datori di lavoro e alloggi a rotazione temporanei. Tutti servizi cui i lavoratori stranieri devono accedere grazie a figure di mediazione e di supporto. Per i minori l’obiettivo è disincentivare l’abbandono scolastico e le partenze illegali. L’eldorado dell’integrazione si conclude degnamente, con l’annuncio di un portale in cui siano evidenziate le buone pratiche e uno sportello online per accogliere tutte le domande degli immigrati. Il prodotto davvero originale, ancora suscettibile di modifiche, cui hanno lavorato d’intesa Ministero dell’Interno, Lavoro e Istruzione è quello del permesso di soggiorno a punti. Se sarà un inutile artificio come quello della patente è presto per dirlo.

L’immigrato tra i 16 e i 65 anni con contratto di lavoro parte da sedici punti (secondo la linea Letta) al momento della stipula. Lo straniero ha una serie di prove da superare che vanno dalla conoscenza della lingua italiana, alla Costituzione, ai valori condivisi della società civile, all’obbligo di istruzione per i figli minori e al giuramento solenne alla Carta Condivisa della Cittadinanza, allo svolgimento di un’attività di volontariato. L’accordo dura due anni, alla scadenza dei quali bisogna arrivare a 30 crediti.

Non basta lavorare e pagare le tasse, bisogna dimostrare di aver assorbito alcuni valori della cultura italiana. Per osmosi e in modo integrale. Come si valuterà quella donna che continuerà ad indossare il chador per esempio? Sono esentati i disabili e in buona parte i minori, per tutti gli altri rimane l’incubo delle decurtazioni dovute a condanne, a sanzioni pecuniarie o a insindacabili giudizi di merito dell’esaminatore di turno. I bocciati tornano a casa, quelli che hanno raggiunto 30 crediti rimangono con riserva e i punti in esubero per gli stranieri modelli danno diritto a partecipare ad attività culturali. Una caritatevole concessione.

Gli stranieri regolari, in sintesi, dovranno essere persone e cittadini eccellenti, secondo giudizi che saranno formulati da appositi organi competenti. Per loro non basterà il rispetto delle regole; la loro cittadinanza è una questione di valore e di merito, non di legge. Ed è soprattutto un privilegio concesso, non un diritto acquisito. Degna e beffarda conclusione di questa grande strategia d’integrazione è chiedere agli stranieri la conoscenza della carta costituzionale. La stessa, per capirci, che i nostri parlamentari davanti alle telecamere di qualche tg satirico, dimostrano di conoscere miseramente poco. Una contraddizione che tradisce l’unica idea che sottende il permesso di soggiorno a punti. L’italianità del sangue è l’amplein irraggiungibile di questa graduatoria di anime.

 

di mazzetta

La morte dei nostri due soldati ha riacceso la luce sull'Afghanistan, sarà un attimo e tornerà a calare il buio, se non fosse per gli episodi luttuosi o qualche mascalzonata sparsa ai danni dei pochi italiani che vi si trovano senza essere stati mandati dal nostro governo, il conflitto afgano è chiaramente sotto-rappresentato dai nostri media. Molto più visibile la “minaccia iraniana”, molto teorica e ormai sfumata, delle guerre vere, difficile credere al caso o  una follia diffusa.

Una volta deciso in maniera bipartisan e contro la volontà popolare che si andava, a livello politico non si sono più registrati grossi scossoni o incertezze e raramente la questione è diventata oggetto di disputa politica. Quando la luce si riaccende è già previsto un menu ampiamente rodato a base di cordoglio bipartisan, funerali solenni e la scontata bordata di retorica, ultimamente parecchio sopra le righe, visto che ci ritroviamo come ministro della difesa Ignazio La Russa, uno che non fa economia di parole in queste occasioni.

Siamo sempre stati il paese dello “armiamoci e partite”; in repubblica come in monarchia i nostri leader non hanno mai brillato quando si è trattato di proiettare il paese all'estero. Premesse che giustificano gli esiti peggiori, ancora di più se all'azione è chiamata la classe politica forse più scadente della storia del paese.

È un vero miracolo, che va riconosciuto al nostro esercito e alle capacità negoziali della nostra diplomazia sul campo, che il numero delle nostre vittime in Afghanistan sia rimasto straordinariamente contenuto in questi anni. Non stona farlo notare in questa occasione, perché il paese non è mai stato pronto ad accettare una mortalità che pure sarebbe compatibile con scenari di guerra. Lo stesso problema lo hanno gli americani, che pure perdono relativamente pochi soldati grazie alla prudenza e allo strapotere militare quando arrivano all'ingaggio diretto con il nemico.

Ben pochi dei paesi che hanno militari in Afghanistan sono mai stati disposti a sopportare tributi di sangue troppo alti, per questo sono stati impiegati nel presidio di zone relativamente tranquille e tenuti per quanto possibile lontani dalle principali minacce. All'amministrazione Bush servivano foglie di fico, non aiuti militari, che ha integrato con l'uso di un numero spropositato di mercenari, gran parte dei quali occupati a proteggere altri americani o a servire la truppa professionale, ma comunque più numerosi e ubiqui e coordinati con il comando statunitense della forza multinazionale nel suo complesso.

Così, da anni,  stiamo lì a fare i bersagli, attesa dell'inevitabile trappola esplosiva o dell'attacco suicida, senza fare molto di più che presenza e qualche inevitabile brutta figura; basti pensare che il compito che ci eravamo assunti per aiutare l'Afghanistan, paradossale trovata del governo Berlusconi presa per buona dai soci nell'avventura, era quello di costruire un sistema giudiziario e di formare i giudici. Forse all'epoca il diabolico immaginava di poter mandare magistrati italiani in esilio ad insegnar diritto, ma non si potrà mai sapere, perché dopo nove anni non c'è traccia di niente del genere.

L'Afghanistan non appassiona, non essendo oggetto di competizione politica è praticamente rimosso, dimenticato. Quando succede qualcosa si alza un'autorità come il Presidente della Camera Gianfranco Fini che dice che è colpa dello scacchiere internazionale, poi Bersani dichiara che non possiamo lasciar vincere i talebani e La Russa che fa il suo numero. Berlusconi, fortunatamente, questa volta era malato.

Osservando La Russa  in azione, mi è venuta in mente un'assoluta banalità: quella di chiedermi retoricamente perché non ci ha mandato suo figlio Geronimo, a compiere tutto quel dovere e tutto quel sacrificio per la Patria con la P maiuscola. Un attimo dopo non era tanto una banalità: pensandoci è pur vero nessuno tra i figli di parlamentari o ministri è in Afghanistan. Ma nemmeno ci sono figli di governatori o presidenti di regione o di leader politici, nemmeno uno. Persino la trota di Bossi è stata abbastanza sveglia da preferire i ricchi incarichi in Lombardia al fascino dell'avventura contro il feroce musulmano. Piccoli forchettoni crescono.

Non succede lo stesso negli altri paesi occidentali coinvolti nel conflitto, che mostrano più contegno e senso istituzionale. Questo italico unanimismo monolitico spiega più di tante parole quanto siamo portati per le avventure militari. Per il governo dell'epoca non si trattò certo di reagire con istinto guerresco, ma di comprarsi una sedia il più possibile vicino a Bush, il più potente di tutti. Come con Putin e altri, lungimirante. Ma quanto ci sono costati Bush e Putin? Alcuni muoiono e altri ne traggono vantaggio, è sempre così con le guerre; negli Stati Uniti si sono rubati anche gli sgabelli all'ombra della guerra, oltre a pregevoli pezzi d'Iraq.

Certo è che andare al traino non esime da responsabilità, ancora di più quando si osserva che la politica dell'amministrazione Obama non si sposta di una virgola da quella di Bush. L'approccio ai problemi è tanto simile che la nuova retorica con la quale è impacchettato non basta a nasconderlo, tanto che è appena spuntata l'ennesima Abu Grahib e si è saputo che la base americana di Bagram è un centro di tortura simile a quello iracheno. L'unica differenza é  che questa volta non si è trovato ancora un idiota che mettesse le sue foto su Facebook mentre applica elettrodi ai testicoli di un poveretto incappucciato.

In Afghanistan gli americani, e con loro gli alleati, stanno peggio di come stavano alla fine del 2001, dopo un mese di permanenza. Supportano Karzai che pure hanno accusato pubblicamente di aver vinto con i brogli e che correva contro un rivale che poi è stato cooptato al governo. Una farsa in faccia agli americani, che però non hanno trovato un altro “presidente” alternativo in tempo a rimpiazzare quello fallito ma abbastanza vitale da resistere al potere, che avevano scelto loro. Ora siamo al tempo del “surge”, cioè di un’accelerazione bellica che dovrebbe migliorare la situazione come la stessa tattica in Iraq.

Vaglielo a dire agli italiani e agli americani che il “surge” in Iraq non è servito a nulla, che esisteva per lo più sui media; e vaglielo a dire che oggi gli iracheni muoiono a decine ad attentato, mentre gli americani si sono “ritirati” dentro le basi nel deserto e nell'enorme fortezza (in teoria ambasciata) che hanno costruito in mezzo a Baghdad. Ci sono state le elezioni, ma il governo è ancora da fare a distanza di settimane e probabilmente la coalizione vincente non sarà quella preferita da Washington. Dettagli: l'Iraq già non esiste più in Occidente, non esistono nemmeno il suo milione di vittime e i quattro milioni di profughi, quasi un quinto della popolazione.

Immaginare che una persona su cinque di quelle che conosciamo muoia o scappi da qui a sei anni, rende l'idea del danno fatto da Bush nello scatenare una guerra impopolare e fondata su una marea di balle grossolane. Non c'entrava la guerra al terrorismo, non c'erano le armi di distruzione di massa, solo petrolio di ottima qualità. Quando è stato chiaro a tutti quale fosse il vero scopo, hanno detto che era troppo tardi per tornare indietro. Probabilmente l'amministrazione Bush ha conseguito i suoi scopi, ma il mondo pagherà a lungo un prezzo enorme per la sua decisione di occupare l'Iraq per il prossimo decennio. Noi nel nostro piccolo abbiamo dato la consueta manciata di giovani eroi, ma per fortuna ormai è finita e, qui, quello che è successo e succede in Iraq non interessa più a nessuno. Meglio rimuovere in fretta e girare la testa da un'altra parte.

Ancor meno interessa quello che succede in Somalia, dove il nostro storico inviato, il diplomatico Mario Raffaelli, è stato sostituito a gennaio senza che sia mai stato chiaro quale fosse l'agenda italiana per il paese e nemmeno quale sarà chiamato ad interpretare il suo successore. Raffaelli probabilmente è riuscito ad operare decentemente ( le buone referenze lo hanno portato a diventare presidente di AMREF Italia) proprio perché nessuno era interessato a capire cosa stesse succedendo, e quindi a ingerire. Resta che la Somalia è ancora allo sbando e che se prima c'era un governo di islamici, poi è arrivata la dittatura etiope a cacciarli per conto degli americani.

Successivamente gli etiopi se ne sono andati e adesso di islamici ce ne sono almeno di tre tipi: uno buono finalmente al governo, uno cattivo e uno cattivissimo. Gli annunciati rinforzi in addestramento in Kenya si sono rivelati fantomatici e il divide et impera continua a tenere la Somalia nel disastro. Ce ne ricorderemo se i pirati cattureranno qualche italiano al volo, altrimenti niente.

Così come un giorno ci accorgeremo che gli Stati Uniti di Obama hanno aperto un altro sanguinoso fronte in Pakistan, dove ormai non si finge nemmeno più e dove gli americani operano dall'alto con i droni e l'esercito pakistano finalmente muove contro i talebani e altri associati, che rispondono con attacchi alle città. In tutto questo il Pakistan ha dato un segnale di vitalità, perché la debolezza politica dello scarsissimo e corrottissimo marito di Benazir Bhutto (scelta dagli americani e uccisa con un attentato pauroso), ha permesso finalmente una riforma costituzionale degna di questo nome. Peccato solo che in Pakistan nessuno investa ancora in scuole, perché il Pakistan ha sempre preferito spendere in armi gli aiuti che riceveva dagli americani per fare da baluardo contro l'India, l'URSS e la Cina, riservando l'istruzione alla classe dominante e condannando il resto alle madrasse finanziate dall'Arabia Saudita.

Una scelta scellerata di regimi scellerati sempre sostenuti dagli Stati Uniti, complici di Yaya che fa il massacro in Bangladesh, di Alì Bhutto che comincia il programma nucleare, di Zia ul Haq che procede a passo di carica nell'islamizzazione della società e delle leggi. Così hanno prodotto abbastanza mujaheddin da cacciare i russi dall'Afghanistan, ma anche bombe atomiche, gli attentati dell'11 settembre e parecchi altri. Oggi il Pakistan soffre migliaia di vittime all'anno e già più di un milione di profughi interni.

Come mai tutto ciò accade con un paese storicamente “alleato” (vale lo stesso per l'Arabia Saudita)? E come mai non si trova invece uno straccio d'iraniano, siriano, libanese o palestinese disposto a partecipare a quella che hanno raccontato come la grande jihad contro l'Occidente? E’ un mistero glorioso che andrebbe chiarito dagli spacciatori di certe narrative, ma è difficile che qualcuno li disturbi con domande importune. E poi non si poteva certo pretendere da Bush di rovesciare la monarchia saudita, sono cose che non si fanno tra amici di famiglia.

Non resta che incrociare le dita e sperare nello stellone, i nostri parlamentari sono quelli che se sentono dire Darfur pensano al fast-food, pensano a mangiare loro, la guerra è affare dei nostri giovani eroi, a tutti gli altri non resta che continuare a sperare che il nostro coinvolgimento diretto s'interrompa il prima possibile.

 

 

 

 

di Mariavittoria Orsolato

Gli occhi di tutta Italia sono puntati sul continuo turbinìo di notizie riguardante la cricca e i suoi illustri clienti: un po’ perché il gossip sull’intrallazzo piace molto, un po’ perché il vaso di Pandora scoperchiato dalle inchieste sui lavori del G8, sta innescando una vera e propria crisi di sistema entro ed oltre Tevere. Nella lista recuperata nel 2009, a seguito di un’ispezione della Guardia di Finanza in una delle sedi della ditta Anemone, ma divulgata dalla stampa solo pochi giorni fa, c’è buona parte di quella che viene definita “l’Italia che conta” e, se molti di questi nomi sono presumibilmente privi di interesse giudiziario, è un dato di fatto che altrettante figure di spicco delle politica, delle forze armate e del clero hanno usufruito dei servigi e dei favori del costruttore romano.

Un illustre sconosciuto, fino a pochi mesi fa, che ha preso in mano l’azienda paterna per trasformarla nel massimo catalizzatore di appalti della storia della seconda repubblica. Le fortune di Diego Anemone affondano infatti le loro radici in un passato nebbioso, un passato che nemmeno Luisa Todini - capo degli imprenditori europei nei settori delle infrastrutture ed ora papabile per il ministero lasciato vacante da Scajola - riesce a collocare in quanto, a detta sua, il nome di Anemone non l’aveva mai sentito prima dello scoppio dello scandalo.

La parabola del palazzinaro prende il via nel 2003, anno in cui, secondo la lista emersa da una rocambolesca fuga di notizie, si possono contare ben 151 commissioni; il vero salto di qualità avviene però con gli appalti statali che nell’arco di sei anni arrivano ad essere addirittura sessantacinque. Le anomalie riguardanti i lavori straordinari per il G8 alla Maddalena, la ricostruzione dell’Aquila e le opere per i mondiali di nuoto romani, sono già emersi all’interno dei fascicoli aperte dalle Procure romane e fiorentine. Adesso è il turno della Procura di Perugia che, nell’ordinare i numeri della contabilità sequestrata ad Anemone, ha dato una fisionomia al sistema latente dietro a tutti gli appalti ordinari commissionati; appalti che secondo l’accusa sarebbero frutto di un’interazione diretta con gli allora ministri Scajola e Lunardi, e del salvacondotto della Protezione Civile diretta da Guido Bertolaso.

Si scopre così come Anemone, grazie al “certificato Nos - Nulla Osta Sicurezza” per le convenzioni con le istituzioni d’Interno e Difesa, si aggiudichi due appalti con i Carabinieri della caserma Tor di Quinto a Roma, quattro con il Viminale - tra cui il cantiere di via Zama, sede del Sisde -  ed infine ben dodici appalti per otto caserme della Guardia di Finanza. Che proprio in quest’ultimo corpo Anemone avesse degli agganci tra i generali e i marescialli, e che questi, come il generale Francesco Pittorru - premiato con ben due immobili nel centro di Roma e ora agente dei servizi segreti - non esitassero ad informarlo su eventuali accertamenti a suo carico, è un’evidenza che però non scioglie i dubbi sull’origine delle fortune del costruttore di Grottaferrata.

Sempre nel 2003, Anemone e la sua ditta d’infrastrutture fanno il loro ingresso nei palazzi del Governo: nella lista sono documentati quattro interventi a Palazzo Chigi, uno al Ministero della Pubblica Istruzione, uno al Ministero del Tesoro e uno al Viminale. Le istituzioni richiederanno la professionalità di Anemone altre diciotto volte per arrivare, nel quinquennio 2003-2008, alla bellezza di venticinque interventi in sedi governative. Che da questi servigi siano scaturiti ghiotti appalti pubblici nell’area romana, lo testimoniano i lavori compiti al Policlinico Umberto I, quelli effettuati all’Ospedale Spallanzani e le due commesse per l’Università: la Facoltà di Architettura di Valle Giulia e la Casa dello studente di Latina.

Ad ulteriore riprova del fatto che i rapporti del costruttore con il Vaticano erano poi tutt’altro che schivi, ci sono poi i lavori su sette chiese, quelli effettuati sul lungotevere papalino, e gli interventi a diversi istituti missionari, tra cui quello del Preziosissimo Sangue, identificato dai Ros come una delle casseforti di Anemone. La chiave di volta di questo immenso sistema clientelare risiederebbe proprio oltreTevere, dove la società a responsabilità limitata con soli 26 dipendenti diventa la ditta più gettonata per le opere pubbliche, straordinarie e non. L’amicizia con Angelo Balducci, gentiluomo di Sua Santità ed ex presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, pare spianare la strada ad Anemone che nel giro di pochi anni arriva a decuplicare i suoi ricavi pur non potendo, per dimensione societaria, partecipare a gare superiori ai 5 milioni di euro.

Per arrivare a costruire quell’impero finanziario che è oggi l’Anemone srl, il giovane Diego ha usato una corsia preferenziale fatta di compiacenze sessuali, generose elargizioni e regalìe che richiamano alla memoria - soprattutto per quanto riguarda gli ambienti vaticani - le famose mini-fatture emesse dalla Frasa Spa di Adolfo Salabè, l'architetto coinvolto nello scandalo dei fondi neri del Sisde esploso nel 1993. Come verificato per l’inchiesta sulla cricca, anche allora una ditta edile emise delle fatture dalla cifra irrisoria (100.000 lire circa) per lavori di ristrutturazione in alcune chiese romane, tra cui quella di S.Pietro e Paolo all’Eur.

Anche allora l’uomo in questione era un gentiluomo di Sua Santità, anche allora i nomi emersi dalle indagini coinvolgevano la politica e i servizi segreti. Il sistema di riciclaggio del 1993 non era poi per nulla diverso da quello utilizzato da Anemone: sebbene i prezzi vengano corrisposti per intero, al momento della transazione se ne dichiara solo una parte e la differenza, debitamente depositata in conti off-shore o intestati a prestanome, crea una provvista di liquidità. Nel 1993 la provvista serviva al Sisde, nel 2010 non c’é ancora dato sapere.

Quello che per ora è certo, è che una buona fetta degli introiti illeciti della premiata cricca Balducci-Anemone riposano nelle casse dello Ior. Come consigliere di Propaganda Fide - la congregazione per le opere missionarie che solo a Roma gestisce un patrimonio di 9 miliardi di euro in immobili - Angelo Balducci dispone di un conto nell’impenetrabile banca vaticana ed è molto probabile che parte dei soldi ricavati dalle operazioni illecite effettuate con i servigi di Anemone risieda li, al riparo dalle rogatorie.

Se quindi è ormai chiara la connivenza tra il Vaticano e la famigerata cricca, quello che rimane da chiarire sono i motivi per cui alcune tra le più influenti personalità ecclesiastiche abbiano deciso di sostenere la causa di lucro di due laici come Balducci e Anemone. Un’interpretazione alquanto cinica porterebbe a pensare che gli alti prelati abbiano anch’essi un proprio tornaconto, ad esempio nelle compravendite d’immobili effettuate dal costruttore di Grottaferrata o nei prestiti che Balducci generosamente elargiva ai porporati in bolletta come monsignor Francesco Camaldo.

Come siano veramente andate le cose potrebbe spiegarlo Diego Anemone, che in questi giorni ha cominciato gli interrogatori alla procura di Perugia. La volontà dei magistrati di andare in fondo a questa vicenda, che di fatto ha innescato una crisi di sistema che tocca tutti gli ambienti istituzionali, è però destinata a scontrarsi contro il muro di gomma di San Pietro; un muro che in 64 anni di storia repubblicana ha nascosto e protetto le radici di troppi scandali.

 


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