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di Luca Mazzucato
NEW YORK. Una nave carica di aiuti umanitari attaccata dagli israeliani come se fosse un commando kamikaze. Il premier turco minaccia di portare la Marina militare turca a Gaza e tagliare i ponti con Israele. L'Egitto apre il valico di Rafah senza clamori. Sullo sfondo, l'accordo tra Turchia, Brasile e Iran per l'arricchimento dell'uranio, per sabotare le sanzioni ONU. Che cosa sta succedendo in Medioriente?
La nave umanitaria Rachel Corrie, l'ultima del convoglio della Gaza Flotilla, è stata scortata ieri mattina verso il porto di Ashdod, in Israele, dopo essere stata abbordata dall'esercito israeliano, questa volta senza spargimenti di sangue. Ma questo è solo l'inizio: gli organizzatori del convoglio umanitario della Mavi Marmara, la nave su cui l'IDF ha assassinato otto turchi e un’americano, hanno già iniziato i preparativi per la prossima Flotilla, grazie al record di donazioni e popolarità seguite all'incidente.
Il premier turco Erdogan afferma di sta vagliando l'ipotesi di scortare la prossima Flotilla con le navi della Marina militare turca. L'affermazione di Erdogan tuttavia merita qualche riflessione più approfondita. La Turchia, a differenza di Israele, è un membro della NATO, dunque le sue azioni militari devono essere vagliate dall'Alleanza e senza dubbio gli Stati Uniti bloccherebbero questa operazione.
In secondo luogo, l'esercito turco non prende ordini da nessuno e in particolare dal premier Erdogan. Dunque è lecito leggere l'attuale protagonismo del premier come un braccio di ferro tutto interno al regime turco e alla lotta di potere tra il partito musulmano e l'establishment militare, sullo sfondo dello scandalo Ergenekon.
Sull'intervista rilasciata sabato al quotidiano libanese al-Mustaqbal, Erdogan rilancia la posta, dichiarando che potrebbe recarsi egli stesso in visita ufficiale a Gaza, rompendo definitivamente l'embargo israeliano e le relazioni diplomatiche con Israele. A parte lo scenario da incubo di una guerra tra Turchia e Israele, l'improvvisa filantropia pro-palestinese del governo turco risulta quanto mai sospetta, visto il trattamento che lo stesso governo riserva alla propria minoranza curda, paragonabile senz'altro all'Occupazione israeliana dei Territori palestinesi. Dunque la ragione è da cercarsi altrove.
Mentre gli Stati Uniti hanno subito chiesto a Erdogan di lasciar perdere, l'esercito turco ha fatto sapere che non ha la minima intenzione di prestarsi al gioco e intende mantenere relazioni di cooperazione con la controparte israeliana. Va ricordato che la Turchia è l'unico alleato militare di Israele nella regione e i due paesi conducono esercitazioni militari congiunte. Oltre ad avere scambi commerciali per oltre due miliardi di Euro: la Turchia fino alla scorsa settimana era tra le mete turistiche preferite dagli israeliani.
Dunque per il momento i vari attori nella regione stanno semplicemente alzando la voce per capire fino a che punto è lecito tirare la corda. Quel che è certo è che dopo il massacro degli otto civili turchi a bordo della Mavi Marmara, le relazioni diplomatiche tra Turchia e Israele verranno congelate almeno per un certo periodo. Il che non toglie che probabilmente tra le centinaia di attivisti turchi e islamici presenti sulla nave, alcuni non aspettavano altro che la loro occasione per confrontarsi con i soldati israeliani, o addirittura per diventare martiri, come si è scoperto da alcuni loro filmati pubblicati su Youtube.
L'incidente della Gaza Flotilla s’inquadra però in un contesto più ampio di nuove alleanze militari nella regione, sullo sfondo del programma nucleare iraniano. Il regime di Ahmadinejad è riuscito a strappare un accordo di cooperazione con Turchia e Brasile, col beneplacito russo. In cambio di 1200 chili di uranio leggermente arricchito, la Turchia s’impegna a spedire a Teheran uranio arricchito al 20%, sufficiente per l'utilizzo per ricerche mediche. L'accordo prevede comunque che l'Iran potrà continuare ad arricchire l'uranio indipendentemente. Questo è il primo segno dello sgretolarsi del fronte anti-iraniano che Israele e Stati Uniti cercano faticosamente di costruire.
La Turchia e il Brasile sono membri a rotazione del Consiglio di Sicurezza e dunque potenzialmente in grado di sabotare lo sforzo israeliano d’imporre nuove sanzioni al regime di Teheran. Allo stesso tempo, Turchia, Siria, Qatar e Iran stanno rafforzando le relazioni militari e creando una nuova alleanza regionale per controbilanciare il blocco filo-israeliano degli altri paesi arabi. In questo contesto è facile capire come lo Stato ebraico si senta accerchiato.
Nel nord, la Siria continua a rifornire Hezbollah di missili sempre più potenti (si parla di Scud, in grado di raggiungere Tel Aviv), mentre a Gaza il regime di Hamas riceve grossi finanziamenti direttamente da Teheran. Una doppia assicurazione sulla vita per il regime degli Ayatollah. Netanyahu dichiara che non permetterà mai la fine dell'embargo a Gaza: l'idea di lasciar attraccare navi nella Striscia senza sapere cosa trasportino è un vero e proprio incubo per il governo israeliano, molto peggiore dei tunnel scavati sotto il valico di Rafah.
In questa situazione instabile, l'arrembaggio improvvisato dei giovani soldati israeliani alla nave turca ha mostrato ancora una volta la criminale inadeguatezza dei vertici militari israeliani. Le immagini dei soldati di leva calati uno ad uno tra gli attivisti turchi della Mavi Marmara desta molte perplessità. Sembra di assistere al gioco della pignatta, con gli attivisti armati di spranghe che picchiano i soldati alla ricerca delle caramelle. Il comandante della spedizione era certamente al corrente della situazione sulla Mavi Marmara e ha mandato allo sbaraglio le sue truppe, sapendo che in caso di pericolo i soldati non avrebbero pensato due volte prima di premere il grilletto.
L'opinione pubblica israeliana, bombardata dal filmato in bianco e nero dei soldati aggrediti a colpi di bastone, ha chiesto subito la testa dei responsabili dell'operazione. Come successe dopo la seconda guerra del Libano, la condanna degli organi di stampa israeliani è unanime: i responsabili dell'operazione devono essere individuati e puniti. Purtroppo ogni volta la stessa storia si ripete e l'inossidabile Ministro della Difesa Ehud Barak è sempre inchiodato alla sua poltrona. In mancanza di qualsiasi alternativa credibile all'attuale governo Netanyahu.
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di Alessandro Iacuelli
A dirla tutta, sinceramente, della parata del 2 Giugno frega niente a nessuno. Della data, invece, a molti. Importante è infatti la ricorrenza, che vede la nascita della Repubblica e la fine della monarchia sabauda in Italia. Detto per inciso, la peggiore di tutte le monarchie d’Europa, sarà bene ricordarlo a tutti gli smemorati e a coloro che hanno poca confidenza con la storia italiana. La nascita della Repubblica e la Carta Costituzionale, chiusero il trittico della dignità italiana di metà secolo scorso, apertosi con la Resistenza antifascista. Un trittico fatto di sangue, norme ed atti indispensabili per declinare la ritrovata dignità italiana.
Proprio per celebrare la nascita della Repubblica, il 2 Giugno di ogni anno assistiamo alla parata militare. Nelle intenzioni, un tempo, c’era la volontà di dimostrare la ritrovata autodeterminazione del Paese, la sua sovranità militare, senza la quale - é vero - quella politica assume rilievo e prospettive decisamente minori. Che poi si sia passati rapidamente dalla sovranità nazionale ad essere un paese satellite degli Stati Uniti sin dagli anni ’50, questo è altro tema.
Della parata di due giorni fa, come di quella degli ultimi vent’anni, si sarebbe però potuto fare a meno. Intanto perché la nascita di una Repubblica che sancisce l’uscita italiana dalla guerra sarebbe meglio fosse celebrata senza armi. Poi perché la parata è un’ipocrisia formale e sostanziale: formale perché mette in mostra divise tirate a lucido per un comparto come quello della Difesa che brilla per scarsità e mancanza di disegno strategico. Sostanziale perché poi le novità effettive sotto il profilo degli armamenti sono proprio le grandi assenti: non a caso, gli ultimi acquisti di aerei ed elicotteri da combattimento, che hanno impegnato lo Stato in un esborso superiore all’entità della manovra economica, nessuno li ha visti sfilare.
Dunque vale solo la pena di chiedersi se, in un contesto di crisi come quello attuale, davvero 29 miliardi di Euro per la Difesa siano un costo inevitabile, qui ed ora. L’opportunità di una tale spesa, come di quella investita per la parata e l’utilità di una dimostrazione di muscoli che non spaventa nessuno (se non le casse della Ragioneria Generale dello Stato), sarebbero stati spunti interessanti di riflessione e di dibattito politico. Invece la discussione riguarda solo l’assenza dei rappresentanti leghisti a Via dei Fori Imperiali.
Porremmo - sommessamente - una domanda: ma a chi interessa se i leghisti partecipano o no? Al netto della polemica politica contro un partito che rifiuta l’identità italiana (tranne che per le prebende e l’occupazione di posti nel sistema, attività nella quale dimostra una voracità notevole) davvero qualcuno ritiene che sia la presenza della Lega a definire il valore di una manifestazione come quella del 2 giugno?
I contenuti politici di cui gli xenofobi di Ponte di Legno sono dotati possono essere scritti sul retro di un francobollo. Dicono di usare il tricolore per pulirsi il di deretano; di svuotare le ampolle nelle sacre acque del Po; indossano ridicoli cappelli, chiedono la proclamazione della Padania e sono più che altro impegnati su due fronti: l'occupazione dei posti e i concorsi per Miss Padania.
Strillano sul federalismo fiscale ma approvano e difendono una manovra che saccheggia gli enti Locali solo per far fare cassa al Tesoro, scaricando così su Regioni, Province, Comuni e Comunità Montane l’impossibilità di far quadrare i bilanci. Si dice che anche i loro esponenti giurano sulla Costituzione Repubblicana, ed è senz’altro vero; ma giurerebbero su qualunque cosa, anche sul regolamento della catena Esse Lunga, pur di accomodarsi su qualche poltrona.
In qualunque altro Paese evoluto verrebbero spernacchiati tutti i giorni, prima e dopo i pasti; qui li si fa diventare determinanti anche per il dibattito politico, oltre che per la sorte personale del Premier.
Si potrà facilmente obiettare che proprio il possesso delle chiavi di Palazzo Chigi assegna loro un ruolo: ma allora sarebbe meglio discutere su questo, non su una presenza che, semmai, avrebbe ulteriormente sporcato il palco della parata. Bastavano gli indagati presenti, per il nostro stomaco: non c’era bisogno di vedere anche i leghisti. Anche i migliori farmaci gastroprotettori hanno i loro limiti.
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di Mario Braconi
I dati ISTAT ed le considerazioni finali del governatore della Banca d'Italia fanno un'istantanea agghiacciante della nostra Repubblica - nominalmente "democratica" ed ancor più nominalmente "basata sul lavoro" - un paese asfissiato dai suoi vizi ancestrali: illegalità, iniquità, conservazione. Assieme al lugubre annuncio con cui l'istituto di statistica fotografa 2 milioni e duecentomila disoccupati ad aprile 2010 (l'8,9% della forza lavoro italiana, senza contare i cassintegrati, incredibilmente computati tra gli occupati), arriva la conferma che il nostro decisamente "non è un Paese per giovani".
Certo, la lunga crisi ufficialmente iniziata a marzo del 2008 ha morso tutto e tutti, ma la classe anagrafica che ha subìto un vero martirio è quella di età compresa tra i 15 e i 24 anni, un terzo della quale oggi è (o si ritrova) senza lavoro. Dati eloquenti, capaci di condizionare pesantemente il futuro del Paese, la cui linfa vitale non solo è privata dei mezzi di sussistenza ma di una risorsa se possibile più rara e preziosa: la speranza.
Che la situazione sia percepita come drammatica anche dagli uomini di “potere” lo si intuisce dal fatto che persino dalla bocca di Mario Draghi, persona competente ma per storia professionale e ruolo istituzionale non necessariamente sensibile ai temi del lavoro, è uscito qualcosa di (vagamente) di sinistra: la ragione per cui "la riduzione rispetto al 2008 della quota di occupati tra i giovani è stata quasi sette volte quella osservata fra i più anziani [deve essere ricercata sia nella maggiore diffusione fra i giovani dei contratti di lavoro a termine sia nella contrazione delle nuove assunzioni, del 20%. Da tempo vanno ampliandosi in Italia - prosegue Draghi - le differenze di condizione lavorativa tra le nuove generazioni e quelle che le hanno precedute, a sfavore delle prime. I salari di ingresso in termini reali ristagnano da quindici anni."
Se il Governatore ha correttamente puntato il dito su alcuni temi scottanti (la precarietà e la perdita di potere di acquisto sistematiche, la perversione di un sistema generoso con i privilegiati ed inflessibile con i più deboli) le reazioni dei politici sono al solito piuttosto penose: c'è chi, come Brunetta, si consola sostenendo che un dato tanto negativo rappresenta un minimo e che pertanto d’ora in poi non si potrà che migliorare; e chi, come Sacconi, si dice convinto che la "buona formazione diretta a mestieri richiesti" (qualunque cosa voglia dire) sia la chiave per invertire la tendenza.
Non sorprende né stupisce il balbettare sconnesso ed incomprensibile dei politicanti, una classe arroccata nella propria torre eburnea dalla quale la rabbia del popolo tradito si percepisce appena, quasi fosse un rumore di fondo fastidioso quanto inoffensivo. Di contro per una volta va lodata la drammatica eloquenza dei dati passati in rassegna (e commentati) dal Governatore della Banca d'Italia. Uno, in particolare, disegna alla perfezione una grave iniquità intergenerazionale: in Italia, un ragazzo su tre non trova lavoro e rischia una disoccupazione stabile, mentre un terzo (o poco più) dei suoi connazionali di età compresa tra i 55 e i 64 anni continua a lavorare, dato che si confronta con una media europea di 46 (56 nella virtuosa Germania).
Non sfugge il fatto che, da un punto di vista politico è rischioso far proprio un ragionamento il cui approdo è il ridimensionamento di diritti acquisiti (pensioni e il cosiddetto welfare), ma onestà intellettuale e coerenza pretendono che, nello stesso istante in cui ci si duole per il destino dei giovani, si considerino con il dovuto senso critico privilegi ormai difficilmente difendibili. Iniquità, dunque, come chiave di lettura per interpretare il nostro reale quotidiano, che Draghi ha declinato in tutte le sue possibili variazioni: a fallire sono le aziende più piccole, spesso di subfornitura, strozzate dalla crisi, ma anche dalle banche che, con la crisi, hanno chiuso i rubinetti (questo però Draghi non lo dice, non sorprendentemente). Differenza nella crisi: i dipendenti delle grandi aziende possono usufruire della cassa integrazione, mentre quelli occupati presso il pulviscolo delle piccole e medie imprese devono solo pregare che la società per cui lavorano non chiuda i battenti.
Ma su un tema Draghi è stato particolarmente incisivo: l'evasione fiscale. Forma principe, quintessenziale, dell'iniquità, tanto criminale quanto pervicacemente diffusa, per stigmatizzare la quale il compassato ex direttore Goldman Sachs tira fuori una locuzione da gruppettaro: "Macelleria sociale".
Benché sia chiaro l'impiego strumentale di questa espressione che, (giustamente) evocata dall'opposizione nei confronti di un governo intento ad alacremente premiare i criminali (condono immobiliare, scudo fiscale) punendo nel contempo i cittadini onesti ed inermi con gli ennesimi tagli nei servizi, viene qui usata per benedire l'operato tremontiano. I dati snocciolati fanno rabbrividire: il 16% del PIL italiano è “invisibile”, ovvero realizzato mediante attività in nero, o, per esser più chiari, in modo totalmente illegale.
Un danno enorme per la società, che a tale sistema di putrida illegalità si ritrova aggiogata per necessità; e anche per le casse di uno stato perverso, che invece di combattere i ladri preferisce sempre rivalersi sugli onesti. Se le imposte sul valore aggiunto fossero state regolarmente versate dai grandi e piccoli furbetti italici, il nostro debito pubblico sarebbe tra i più bassi d'Europa, conclude Draghi. Il messaggio è chiaro, condivisibile ed espresso in modo ineccepibile sul piano della logica e della retorica.
Adesso dovrebbe toccare agli italiani, a cominciare da domani, magari pretendendo dal dentista la pressoché sconosciuta ricevuta fiscale; magari aiutati e politicamente corroborati da leggi tributarie che, anziché spremere le famiglie e favorire i mafiosi ed altra feccia umana, per una volta guardassero al paese reale e al suo grido di dolore. Magari.
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di Rosa Ana de Santis
La manovra piomba addosso agli Istituti di Ricerca italiani ed è caos di proteste e mobilitazioni. I lavoratori non ci stanno. In ballo c’è qualcosa che non riguarda soltanto loro, ma tutto il paese, la sua gente. Il patrimonio che è in mano alla ricerca pubblica rischia di non valere abbastanza per essere custodito e tutelato. La lista degli “enti inutili” è fitta di sigle impegnate nella ricerca. Gli istituti nazionali di alta matematica, astrofisica, oceanografia e geofisica per riportare l’esempio più eclatante. E poi l’IAS (Istituto Affari Sociali) e l’ISFOL (Istituto per la formazione professionale dei lavoratori), che ora sembrano aver scongiurato l’ipotesi dell’azzeramento e che - pare - saranno accorpati.
Siamo abituati a vedere i ricercatori sul tetto, come era accaduto all’Ispra, e all’Isfol li abbiamo trovati a dormire nei loro uffici, accampati tra le scrivanie, in una occupazione che è andata avanti ad oltranza, per scongiurare l’ipotesi che appariva nelle prime bozze del decreto e che ne minacciava la chiusura. Il tutto in palese contraddizione con le parole che proprio il Ministro Sacconi aveva speso sull’ISFOL definendolo una perla della ricerca italiana.
Via anche il Comitato nazionale per il medio credito, l’ICE ( Istituto Nazionale per il commercio estero) e l’Ente per la Montagna. Dopo la rincorsa disordinata di conferme e smentite, alla fine sembra che a rimanere in piedi saranno Coni Servizi e Difesa SpA, evidentemente considerate più proficue della ricerca sulla geofisica - ovvero la sismologia e la vulcanologia - che, come la cronaca e la storia insegnano, toccano da vicino il nostro territorio e non dovrebbero proprio essere considerate inutili.
L’idea, con buona probabilità, non è tanto quella di abbandonare la ricerca, ma di slegarla sempre di più dall’autorità pubblica e dal controllo dello Stato, mandandola a caccia di sponsor e originando quindi un metodo di finanziamento in cui il profitto e il business diventano la categoria predominante rispetto all’utilità, alla sicurezza e soprattutto all’onestà intellettuale che deve guidare la mano del ricercatore. Il binomio ricerca e affari non sta insieme per niente.
La povertà dell’Italia, numeri alla mano, non è tanto o solo monetaria, quanto culturale. Soltanto il 16, 4% della popolazione ha un livello d’istruzione alto e la differenza con la media europea è preoccupante. A fronte di questo scenario parlare solo di PIL è riduttivo e fuorviante. Proprio l’ISFOL nelle sue ultime ricerche ha evidenziato come sia fondamentale introdurre nelle valutazioni economiche il concetto più ampio e diffuso di BIL (benessere interno lordo) che non può considerare variabili ininfluenti quelle dell’istruzione, della ricerca o della fuga dei cervelli che mette una triste ipoteca di depauperamento intellettuale sul futuro.
Ma la manovra cancella e taglia, mentre le fiaccolate di protesta dei ricercatori proseguono. Serve un piano programmatico per la ricerca e serve soprattutto che i soldi sprecati per Alitalia e le “grandi opere” tornino ad essere investiti per l’emergenza della ricerca scientifica. Non é meno triste vedere azzerati gli Istituti culturali che dalla Resistenza alla Shoah lavoravano per conservare e insegnare la memoria storica. Il passato non ha valore nella contabilità del governo, né il futuro.
E chi sente la pancia soddisfatta per la mannaia tanto invocata dai padani e da Brunetta sulla pubblica amministrazione, prima o poi capirà dalle nuove generazioni che sarebbe bastato controllo e sorveglianza per correggere i vizi della costosa macchina dello Stato, e che invece, aver cancellato la ricerca pubblica, avrà significato avere meno opportunità, appartenere ad una società in regressione e avere il sogno di andare via. Lontano da qui.
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di Mariavittoria Orsolato
In ambienti e occasioni internazionali, Berlusconi e il suo governo da sempre cercano spasmodicamente di presentare il nostro sciagurato stivale in una luce che ne esalti l’unicità e l’esclusività. Tolto lo scivolone parigino dell’altro giorno, in cui il premier ha citato i diari di Mussolini per ribadire la sua impotenza nelle decisioni di Stato, ecco che l’entourage di palazzo Chigi tira fuori un asso nella manica che nessun altro governo può vantare di possedere.
Stiamo parlando del condono edilizio, un atto amministrativo che non ha eguali né nella lingua, né nella prassi giuridica di alcuno dei Paesi europei, ma che qui in Italia è considerato l’unica via praticabile per rimpinguare le casse statali. Dacché Berlusconi è al potere sono già stati eseguiti 4 condoni tra edilizi e fiscali, e quella “sanatoria catastale” prevista all’interno della manovra da 24 miliardi voluta dal ministro Tremonti, altro non sarebbe se non il quinto colpo di spugna in 8 anni di governo effettivo.
L’operazione in sé pare innocua: censire e regolarizzare al catasto più di due milioni di immobili; se però a questo si aggiunge che i proprietari si vedranno ridotti di un terzo la sanzione amministrativa che gli spetterebbe, ben si capirà come mai in molti abbiano storto il naso di fronte all’annuncio dell’esecutivo. Le associazioni ambientaliste sono sul piede di guerra e parlano di un condono edilizio mascherato da sanatoria, devastante per il territorio e deludente per i conti pubblici; ma secondo i calcoli del Ministero del Tesoro questa operazione è necessaria a sostenere - con i 6 miliardi di extra-gettito previsti - la mega-manovra di lacrime e sangue approvata nei giorni scorsi.
In effetti, con le case che sono sfuggite ai registri del catasto ci si potrebbe costruire una nuova Milano: attualmente al vaglio dell’Agenzia del Territorio ci sono ben 1.400.000 case “fantasma”, 870.000 ex fabbricati rurali e un numero ancora imprecisato di ampliamenti, che entro il 31 dicembre 2010 dovranno essere regolarizzati con l’aggiornamento catastale.
Certo, la sanatoria non cancella gli effetti penali dell’infrazione, come invece fa il condono, ma nella realtà dei fatti le conseguenze delle due diverse iniziative potrebbero essere, e anzi saranno, affatto dissimili: se infatti non tutti gli immobili “fantasma” sono penalmente rilevanti, è invece pacifico e necessario che un immobile abusivo non sia segnalato. Ed è proprio in questo semplice sillogismo che si nasconde quello che il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti, si è così alacremente ostinato a negare: nel momento in cui il proprietario denuncia il suo immobile costruito illegalmente, dovrebbe immediatamente scattare la denuncia penale - a meno che, come sempre, non ci sia la prescrizione a vanificare tutto - ma quale italiano andrebbe spontaneamente ad auto-denunciarsi per pagare una proprietà che verrebbe distrutta?
Nemmeno il più onesto, e lo sa bene il caro Giulio che, nel calcolo del gettito extra, ha sicuramente tenuto conto di questa piccola ma fondamentale variabile ed ha agito di conseguenza. Sebbene il testo vero e proprio della mega-manovra non sia ancora stato reso pubblico, è presumibile che nell’articolo riguardante la sanatoria ci sia un comma, un emendamento o chissà quale altra fattucchierìa giuridica che prevede la regolarizzazione non solo a livello fiscale ma anche urbanistico. Et voilà il quinto condono dell’era Berlusconi: i fuorilegge sentitamente ringraziano (per l’ennesima volta).
Che si chiami condono o sanatoria, gli effetti disastrosi sull’ambiente e il territorio saranno però gli stessi; quello che potrebbe variare è la misura in cui la sanatoria saprà essere finanziariamente vantaggiosa. Trattandosi di una manovra prettamente fiscale, la regolarizzazione degli immobili “fantasma” porterebbe alle casse dello Stato solo il gettito previsto dal pagamento dell’Ici e non quello relativo all’oblazione di condono.
Se a ciò si aggiunge che a causa delle incaute promesse elettorali di Padron’ Silvio, l’Ici sulla prima casa non si paga nemmeno più, viene da pensare che pur di mantenere la formalità linguistica la maggioranza si sia tirata la cosiddetta zappa sui piedi, rinunciando a una cospicua fetta di quello che sarebbe stato l’effettivo guadagno in caso di condono vero e proprio. Quindi oltre al sicuro danno ambientale, si aggiunge anche la beffa del mancato vantaggio economico: più che una manovra, un compendio di esternalità negative.
Esternalità che sono soprattutto politiche e sociali nella misura in cui, come spiega in modo egregio Stefano Pareglio, professore di Economia Ambientale all’Università Cattolica di Milano, “si crea nei cittadini la convinzione che chi commette un abuso e aspetta il condono paga meno di chi rispetta le regole”. L’evidenza della tesi di Pareglio la si può già scorgere in Campania dove, dopo il decreto legge sulla sospensione delle demolizioni abusive dello scorso aprile, sono già in molti ad aver cominciato nuove costruzioni ed ora lavorano in fretta e furia per rispettare i tempi di proroga dello scorso condono edilizio. Perché, in Italia, se non ne approfitti sei un fesso.