di Sara Seganti

Fin dove si spinge la responsabilità oggettiva di un’azienda nell’era della delocalizzazione? La morte di Steve Jobs ha riportato in auge questo tema vecchio quanto la globalizzazione: la Apple, in linea con il comportamento in voga tra le grandi aziende che hanno distaccato parte del processo produttivo in paesi con mano d’opera a basso costo, non ha mostrato attenzione particolare alle condizioni di vita dei lavoratori nelle aziende coinvolte nella produzione dei suoi ritrovati tecnologici. Celebre in proposito, la catena di suicidi negli stabilimenti della taiwanese Foxconn.

La figura di Steve Jobs, a metà tra il visionario condottiero tecnologico e il direttore generale ossessivo contabile, non è esente da ombre ma, ciò nonostante, l’identificazione del fondatore con l’azienda ha aiutato la Apple a uscire quasi indenne da questi scandali. Chissà se con la fine di questa simbiosi la reputazione liberal dell’azienda di Cupertino rimarrà intatta ancora a lungo.

Nel mezzo del dibattito sull’identità morale di Steve Jobs, in questi giorni si è discusso diffusamente in rete sui limiti della responsabilità dei grandi marchi aldilà dei confini nazionali. La Apple, in questo dibattito, non è che un attore come tanti altri: tutti inseriti in un contesto internazionale che sfrutta lo squilibrio esistente nel mondo tra diversi livelli di salario e di tutela garantiti da legislazioni del lavoro molto distanti tra loro. In un impeto di pragmatismo, la crescente unione di consumatori globalizzati concentrati su battaglie che promettono di nuocere all’immagine e al volume di vendita dei grandi marchi sembra una delle poche opzioni in grado di agire su questo stato di cose.

E così, di recente, nella tv generalista italiana è apparsa la campagna Abiti puliti che è riuscita, grazie anche a un servizio de Le iene ad attirare l’attenzione sui danni irriversibili alla salute dei lavoratori impiegati nel processo della sabbiatura (una tecnica con cui si scoloriscono i jeans) e a indurre quasi tutte le grandi aziende italiane produttrici del capo d’abbigliamento più venduto al mondo a rinunciare, per lo meno ufficialmente, a questa pratica. Inutile dire che l’unico motivo per cui questi marchi hanno deciso di occuparsi della questione sembra essere l’eccessiva visibilità che la campagna è riuscita a sollevare sulla questione.

La sabbiatura è nota da tempo per la sua elevata dannosità: gli operai spruzzano con un compressore acqua e sabbia a elevata potenza, disperdendo nell’aria grandi quantità di silice. Molti si ammalano in breve tempo di silicosi, la malattia dei minatori, che riduce la capacità respiratoria dei polmoni fino a portare alla morte. La sabbiatura dei jeans sembra essere anche più dannosa del lavoro in miniera: se in questo caso servono tra i dieci e i vent’anni per sviluppare forme croniche di danni alle vie respiratorie, inalando polvere di silice, bastano da uno a due anni per ammalarsi gravemente.

Questa volta sembra che lo scandalo mediatico sia servito a indurre i grandi marchi a riconoscere una forma di responsabilità diretta nei confronti dei comportamenti delle imprese alle quali appaltano le loro commesse e a impegnarsi a scolorire i jeans usando altri procedimenti meno rischiosi per la salute. Resta certo da vedere quali tipo di controlli saranno veramente messi in atto per assicurarsi che la tecnica della sabbiatura smetta di mietere vittime, ma ciò deve far comunque riflettere.

Le proporzioni degli interessi economici in gioco registrano e amplificano ogni piccola variazione nel grande mercato mondiale delle compravendite. Proprio qui sta il paradosso che i consumatori stanno sfruttando: il potere delle multinazionali si fonda sul potere del consumo che è in grado, quando si coalizza, di mettere in scacco aziende e grandi marchi molto sensibili alla loro reputazione. Il ricorso alla minaccia del consumo è poco poetico forse, politicamente debole di sicuro, ma efficace.

Guardando al mercato dei jeans, nel libro “Vestiti che fanno male”, Rita Dalla Rosa racconta il lungo viaggio dei jeans che, come tutti gli abiti globalizzati, prima di arrivare sullo scaffale di un negozio attraversano più di un continente. A causa del particolare procedimento necessario a realizzare la tintura color indaco e dell’elevato numero di risciaqui, i jeans sono una delle produzioni tessili più inquinanti: per produrre un paio di jeans e rifinirlo servono più di 13.000 litri d’acqua, buona parte dei quali servono alla coltivazione del cotone. Negli Stati Uniti se ne acquistano 450 milioni l’anno. In Messico, in una sola città chiamata Torréon, se ne producono 6 milioni alla settimana.

Con questi numeri non stupisce che le grandi aziende abbiano tutto l’interesse nell’accontentare una campagna per l’acquisto responsabile, purché si continui a discutere dentro all’orbita del dio consumo. L’importante è che non si diffonda quel tremendo virus che intacca il sistema del desiderio e induce le persone a consumare di meno.

 

 

 

 

 

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