Le sfuriate quotidiane di Trump contro le istituzioni statunitensi e gli avversari politici interni - ai quali assegna premi e castighi in maniera del tutto arbitraria - viaggiano in parallelo con la quotidiana individuazione di un nemico estero verso il quale minacciare sanzioni o guerre. In questo contesto, che serve al tycoon per distrarre gli statunitensi dai suoi scandali di natura sessuale, dal suo insider trading e dai tragici risultati dell’economia, s’inseriscono tanto le provocazioni aperte (come nel caso del Venezuela) quanto alcune decisioni di rottura che, per il loro impatto assumono natura globale. La rottura con l’India di Modi è una di queste e rappresenta uno dei peggiori autogol mai realizzati dagli Stati Uniti.

La natura delle sanzioni all’India è interamente politica: non riguarda infatti sbilanciamenti commerciali negli scambi bilaterali ma si argomenta con il commercio di Modi con Putin e Xi. In questo senso appare ulteriormente ricattatoria e grave rispetto ad altre verso altri paesi più squisitamente commerciali.

E’ evidente come l’introduzione dei dazi al 50% cerchi di colpire lo sviluppo poderoso dell’India che, da due anni a questa parte, conta sulla maggiore crescita del PIL nel globo. Una crescita anche demografica (ha superato la Cina in abitanti) che ha però un suo limite: Nuova Delhi non dispone delle risorse energetiche in grado di sostenere l’imperiosa crescita economica della quale è protagonista. In qualche modo è lo stesso handicap del quale ha sofferto lo sviluppo cinese. Non a caso, dal 2022 ad oggi, indifferenti alle sanzioni occidentali, India e Cina hanno acquistato oltre il 50% delle esportazioni russe di gas e petrolio.

L’India ha trovato nella Russia la possibilità di coprire il gap energetico e nei BRICS (di cui è paese fondatore) la possibilità di ampliare il suo mercato e, con esso, la sua influenza politica globale. Che, sebbene sia una potenza nucleare, non l’ha ancora vista come protagonista nella governance mondiale, posizione alla quale aspira. In questi anni tra Cina e India gli attriti si sono ridotti considerevolmente ed oggi, la presenza di Modi alle celebrazioni per la vittoria cinese nella Seconda Guerra Mondiale, segnalano un ulteriore avvicinamento tra i due giganti che è un bene per l’intero pianeta. Ad eccezione degli Stati Uniti, che hanno sempre usato Nuova Delhi come elemento di pressione su Pechino; strategia che ora, con queste sanzioni piratesche, appare come minimo azzoppata.

Non importa che le misure contro l’India siano pensate per danneggiare Russia e Cina e per tentare di mettere un intralcio forte allo sviluppo delle relazioni commerciali senza il Dollaro come valuta di riferimento: sono misure che, oggettivamente, favoriscono la crescita dell’integrazione dei paesi BRICS e l’aumento della quota di generazione del PIL globale che l’organismo nato per la multipolarità ottiene. Per l’India quasi nulla di quello che importa dagli USA non può essere importato dalla Cina e dalla Russia. Per questo la mossa si rivelerà il peggiore dei boomerang per la Casa Bianca, che scontrandosi con l’India rischia di perdere un alleato importante per contrastare l’influenza cinese ed un mercato importante per l’export USA, ammontante a 21.689 miliardi di Dollari.

Il governo Modi, che ha nel nazionalismo forte la sua cifra identitaria, risponderà con dazi reciproci alle merci USA, ma non è questo l’aspetto più importante. Che lo si trova invece nell’obbligato, ulteriore avvicinamento con Mosca e Pechino, con cui Nuova Delhi commercia positivamente, senza dazi e con una relazione commerciale equilibrata dalla comune appartenenza ai BRICS.

«Il mondo oggi è attraversato da trasformazioni che accadono una volta ogni secolo e la situazione internazionale è al tempo stesso fluida e caotica» ha detto Xi a Modi durante il loro incontro a Tianjin, aggiungendo che «la scelta giusta per entrambe le parti è essere amichevoli e avere buoni rapporti di vicinato, essere partner che favoriscono il successo reciproco e il far danzare insieme il drago e l'elefante».

Del possibile spostamento ad Est dell’economia indiana se ne avrà ulteriore riscontro nei  lavori della Shanghai Cooperation and Organization - SCO, della quale Mosca, Pechino e Nuova Delhi fanno parte.

Nata nel 2001 come un gruppo per la cooperazione in materia di sicurezza dei Paesi dell’Asia centrale, la SCO è andata man mano allargandosi, fino ad arrivare a 26 paesi tra membri e osservatori e a comprendere Paesi dal Caucaso, dal Medio Oriente e dal Nord Africa e rappresenta oggi il 40% della popolazione globale e il 26% del PIL planetario.

Si tratta di un progetto di cooperazione economica, scambi e collaborazione militare nell’ottica di una efficace governance regionale. Si ispira ad un ordine mondiale diverso, un modello alternativo alle organizzazioni a trazione occidentale come G20 o NATO e promuove “nuove relazioni internazionali e cooperazione regionale”, come indica il giornale del Partito Comunista Cinese alla vigilia del Forum di Pechino.

D’altra parte che l’impero sia in preda a convulsioni appare innegabile. Oltre all’incapacità di risolvere con autorevolezza che si auto-propaganda le peggiori crisi regionale e le 26 guerre in giro per il mondo, l’impero a trazione anglosassone sferra calci nel vuoto,  pensando di dominare ogni angolo dello scacchiere planetario con la forza e i ricatti. Soprattutto ostinandosi a non voler considerare la forza delle economie emergenti parallelamente alla sua crisi di influenza economica, politica, militare, commerciale e tecnologica alla quale pensa di rispondere con la Dottrina Monroe applicata all’intero pianeta.

L’ostinazione monroista vige ovviamente anche nel continente americano. Le minacce e le sanzioni al Venezuela, come anche, su un piano diverso ma non meno ostile, a Messico e Brasile, producono effetti devastanti per gli stessi USA. Per inciso, Venezuela, Brasile e Messico sono le potenze petrolifere sudamericane. Il Venezuela non è Grenada o Panama e il rafforzamento della cooperazione in commercio, salute, agricoltura ed energia tra Brasilia e Città del Messico (i due giganti latinoamericani, insieme hanno dimensioni e demografia di un continente) indica il crescente aumento della cooperazione economica e commerciale libera dall’influenza statunitense e, in prospettiva, dal Dollaro. Il che, per Trump, è una pessima notizia.

Ma la follia sanzionatoria verso l’India ha anche un altro obiettivo, ancora più ampio, perché la decisione di imporre dazi diretti e secondari all’India determina anche il colpo finale all’Unione Europea. Infatti, come dimostrato dalla questione dazi, dal genocidio dei palestinesi e dal recente rottura dell’accordo con l’Iran, la UE è un vassallo statunitense con la stessa autonomia di un qualunque protettorato. Quindi, nello specifico delle sanzioni all’India, è ovvio che mai e poi mai la UE si porrebbe in un atteggiamento pragmatico e non ideologico, approfittando della crepa apertasi tra Washington e Nuova Delhi. E’ invece da attendersi - per convinzione o per ricatto - una adesione europea anche a questa ennesima follia statunitense che presenta ormai gli USA un paese in guerra commerciale con la stragrande maggioranza del pianeta.

La UE si trova dunque dinanzi ad una condizione quasi drammatica. Dopo averle impedito di commerciare con Russia e Cina, porre ora sanzioni così pesanti anche agli scambi con l’India significherebbe costringere la UE a commerciare solo con paesi dal peso residuale in termini demografici, territoriali, politici e militari. Paesi che non incidono profondamente negli equilibri globali, di scarso peso politico (al massimo per contesti regionali) e con una limitata possibilità di interlocuzione e verso i quali i livelli di profitto sono ridotti dal peso degli asset assicurativi e anche una eventuale esposizione debitoria ha margini di rischio superiori rispetto a quelli con le grandi potenze. Significherebbe cioè porre le condizioni per una UE abilitata ad un mercato di serie B, che veda accordi che per loro stessa natura siano limitati nelle proporzioni e, dunque, non in grado di condizionare i flussi del commercio globale. Nonostante sia l’area più ricca del pianeta dal punto di vista del Pil complessivo, in questo modo la UE perde ogni velleità di potenza per diventare, nel migliore dei casi, il più grande dei piccoli.

IRAN

La UE ha reintrodotto le sanzioni all’Iran, accusandolo di non consentire ogni tipo di ispezione alla AIEA, facendo finta di non sapere che i tecnici AIEA siano membri delle agenzie spionistiche occidentali. La decisione europea è stata presa dietro ordine dell’amministrazione Trump, che ha chiesto la supplenza europea di fronte all’impossibilità USA di invocare la riattivazione delle sanzioni in quanto usciti dal JCPOA nel 2018.

Come da tempo ripete Teheran, l’invocazione dello “snapback” determinerà la rottura definitiva dei rapporti con l’AIEA e l’uscita dal Trattato di Non Proliferazione, così che che il programma nucleare iraniano avanzerà senza controllo internazionale. Anche perché le ispezioni e le trattative le trattative non hanno fermato l’attacco a tradimento degli USA, benché i report delle agenzie affermassero l’assenza del rischio di sviluppare armi nucleari a breve e medio termine.

Russia e Cina sono fermamente contrarie alle sanzioni e ne ignoreranno la reintroduzione  e si consoliderà ancor più lo spostamento dell’Iran verso l’orbita sino-russa nel quadro globale. La UE, che pretende un Iran senza nucleare, otterrà l’esatto contrario e scriverà così una nuova pagina del libro sulla sua irrilevanza con note a margine sulla sua servitù. In cerca del grande nemico viene colpita sempre dal “fuoco amico”.

Si compie la chiusura del cerchio di una aggregazione come la UE, nata male e finita peggio, affetta dalla tipica sindrome di Peter Pan, che fa sì che il bambino diventi vecchio senza mai essere stato adulto.

La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.

La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.

Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.

La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.

Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.

Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.

Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.

Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.

Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.

La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.

Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.

Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.

Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.

Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.

A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.

Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.

Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.

Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film  è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.

"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".

Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.

Felicità (Italia, 2023)

Regia: Micaela Ramazzotti

Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini

Distribuzione: 01 Distribution

Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Jacopo Quadri

Produzione: Lotus Production con Rai Cinema

Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell,  narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.

Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.

Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.

A Thousand and one (Usa 2023)

Regia: A.V. Rockwell

Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox

Sceneggiatura: A.V. Rockwell

Fotografia: Eric Yue

Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague

Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy

Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.

Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.

Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.

Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.

 

L'ombra del giorno (Italia 2022)

Regia: Giuseppe Piccioni

Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin

Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub

Distributore: 01 Distribution


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