La vittoria a sorpresa di Zohran Mamdani nelle primarie del Partito Democratico per le elezioni del prossimo novembre alla carica di sindaco di New York ha mandato letteralmente in fibrillazione l’establishment politico americano sia a destra sia a (centro-)sinistra. Il 33enne di fede musulmana e nato in Uganda da genitori di origine indiana – la madre è la nota regista Mira Nair – ha stravolto le gerarchie democratiche nella città che è il simbolo stesso del turbo-capitalismo USA grazie a un programma orientato verso i bisogni di lavoratori e classe media o, secondo la caratterizzazione proposta dai suoi oppositori, “socialista”. Il successo di Mamdani porta alla luce, in un sistema dominato da una ristretta oligarchia, questioni potenzialmente esplosive, che però tutta la classe dirigente americana intende soffocare il prima possibile, così da garantire che, per quante spinte in direzione progressista o addirittura “rivoluzionarie” esistano nella società, anche le elezioni che decideranno il prossimo primo cittadino di New York continuino a rimanere un innocuo esercizio politico.

Nelle affollate primarie democratiche terminate martedì, per molto tempo il netto favorito era stato l’ex governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, tornato sulla scena politica dopo essere caduto in disgrazia qualche anno fa in seguito ad accuse di molestie sessuali e di avere cercato di occultare il numero di decessi nelle case di cura dello stato a causa del COVID-19. Solo con l’avvicinarsi della data delle primarie, Mamdani aveva recuperato terreno, anche grazie a un’organizzazione in grado di promuovere l’immagine di un inesperto e poco conosciuto membro del consiglio comunale newyorchese, eletto nel “borough” di Queens.

In un sondaggio pubblicato alla vigilia del voto, Mamdani era dato in vantaggio di una manciata di punti su Cuomo. Per via del complicato sistema elettorale della città, i risultati definitivi verranno ufficializzati solo tra alcuni giorni, ma il margine (43% a 36%) rende impossibile una rimonta da parte dell’ex governatore, il quale aveva infatti subito ammesso la sconfitta. Tutti i fattori che venivano giudicati come fardelli da stampa e commentatori “mainstream” sono alla fine diventati elementi vincenti per Mamdani. Ovvero, il presentarsi come un vero candidato di sinistra nella metropoli dei miliardari e di Wall Street ha determinato la sua vittoria su un rivale espressione dell’establishment e molto meglio finanziato.

Anzi, l’identificazione di Cuomo con i grandi interessi economici e finanziari della città, nonché con i sostenitori del regime sionista israeliano, è stata la chiave della sua sconfitta, perché respinti dalla maggioranza degli elettori democratici, che rappresentano a loro volta la maggioranza di quelli di New York. Tanto per comprendere quali forze Mamdani si è trovato a combattere, si possono elencare alcuni dei sostenitori e finanziatori di Cuomo: dall’impero mediatico di Murdoch a Bill Clinton, dai leader democratici al Congresso di Washington a Alex Karp, numero uno della controversa società di software operante nel settore dell’intelligence e della difesa Palantir, fino all’ex sindaco multimiliardario Michael Bloomberg.

Il terremoto Mamdani ha così sgretolato alcune verità ritenute incontrovertibili della realtà politica negli Stati Uniti. La prima e più sacra è che un’agenda socialista o anche solo la parola socialismo accostata a un politico costituisce automaticamente una garanzia di insuccesso in un paese dove in pratica tutto l’elettorato venera il libero mercato e i benefici che produrrebbe. Mamdani si identifica con l’ala del suo partito che si auto-definisce “socialista-democratica” (DSA) e vi erano quindi poche possibilità di equivoci nella scelta degli elettori. Alcuni punti del suo programma non lasciavano a loro volta dubbi in proposito, nonostante abbiano poco o nulla a che fare con un’alternativa realmente socialista, e riguardano, tra l’altro, il controllo degli affitti, l’aumento delle tasse per i più ricchi, l’abbassamento dei costi di trasporti pubblici e scuole d’infanzia.

Ciò che è emerso dal voto è la propensione della maggior parte dei residenti di New York a premiare un candidato che promette di adoperarsi per ridurre il costo della vita esorbitante nella città, mentre è stata respinta l’alternativa rappresentata dall’ennesimo politico al servizio dei grandi interessi della metropoli. Mamdani, in altre parole, non ha vinto le primarie nonostante il collegamento al “socialismo”, ma proprio grazie a ciò. Com’era già risultato chiaro nel recente passato, esiste un profondo interesse anche nella popolazione americana per un sistema alternativo realmente di sinistra, che però semplicemente viene soppresso e in ogni occasione giudicato inattuabile da media, politici e accademici “ufficiali”.

Un altro mito sfatato dalla vittoria di Mamdani è l’impossibilità di criticare Israele e il genocidio che il regime di Netanyahu sta conducendo a Gaza con la complicità del governo USA, pena l’accusa di anti-semitismo e la catastrofe politico-elettorale. Sia pure attirando su di sé una valanga di critiche e attacchi, durante la campagna Mamdani ha condannato la brutalità di Tel Aviv, arrivando a impegnarsi a fare arrestare Netanyahu se dovesse mettere piede a New York. La denuncia di Israele, ammorbidita solo in parte in un’intervista pre-voto nella quale Mamdani affermava il diritto a esistere dello stato ebraico, è stata in effetti uno dei fattori decisivi nella sua vittoria, anche in una città che ospita un numero di residenti ebrei come nessun’altra in America.

I risultati delle primarie di martedì hanno anche smentito lo spostamento verso destra dell’elettorato negli Stati Uniti, presumibilmente in parallelo all’ascesa di Donald Trump. La facilità con cui il presidente repubblicano ha raccolto consensi tra la “working-class” americana dipende più che altro dalla sua capacità di proporsi come alternativa con una patina populista a un sistema bloccato che non consente l’emergere di proposte politiche di sinistra. Soprattutto, il “focus” di Mamdani sui temi economici ha mostrato come la maggioranza della popolazione, al di fuori dei ceti privilegiati, sia motivata nelle scelte politiche da fattori di “classe” piuttosto che di razza o di genere, come vorrebbe invece il Partito Democratico americano e, in generale, la finta sinistra in tutto l’Occidente.

Tutti questi fattori testimoniano della rilevanza della vittoria di Zohran Mamdani nelle primarie per le elezioni a sindaco di New York. Tuttavia, se anche quest’ultimo dovesse vincere a novembre, le probabilità che riesca o abbia la volontà di implementare anche solo una minima parte del suo programma elettorale sono vicine allo zero. E ciò per una serie di ragioni. In primo luogo, gli ambienti politici, mediatici, economici e finanziari che si oppongono a Mamdani e a qualsiasi cambiamento in senso progressista delle politiche della città di New York – e non solo – faranno di tutto per impedire la sua vittoria, a meno che non operi una netta frenata o una svolta moderata che tranquillizzi Wall Street e gli oligarchi che controllano le leve del potere nella città.

Un’altra strategia è quella di neutralizzare la minaccia Mamdani abbracciando l’entusiasmo che ha generato tra gli elettori, soprattutto giovani, e celebrando le tecniche di marketing utilizzate in maniera vincente dal suo team, ma minimizzando allo stesso tempo i contenuti del programma. In questo senso si è già mosso ad esempio il leader dei democratici al Senato, Chuck Schumer, autentico prodotto della classe miliardaria newyorchese che, in una sorta di abbraccio mortale, ha espresso subito apprezzamento per il trionfatore nelle primarie del suo partito. Lo stesso ha fatto sostanzialmente il New York Times, con commenti positivi nei confronti di Mamdani che intendono rassicurare il capitalismo della città circa le intenzioni e gli spazi di manovra del possibile futuro sindaco.

È indiscutibile che la mancata metamorfosi di Mamdani nelle prossime settimane comporterebbe una guerra aperta contro la sua candidatura, fatta di razzismo, accuse di anti-semitismo e, in particolare, isteria anti-comunista. I repubblicani e la destra in genere hanno peraltro già inaugurato questa linea d’attacco ben prima di conoscere i risultati delle primarie. Sui media ultra-conservatori e i “social” si sprecano le accuse di marxismo, socialismo, comunismo nei suoi confronti, come se una minaccia “rossa” stesse gravando sul cuore del capitalismo americano e mondiale. Lo stesso presidente Trump è subito intervenuto mercoledì definendo Mamdani in un post sul suo social Truth come un “folle comunista al 100%”. Questo atteggiamento, decisamente e quasi ridicolmente spropositato, nasconde una paura radicatissima negli ambienti di potere per l’interesse crescente che il socialismo, o comunque un’alternativa politica popolare e di sinistra, suscita anche tra gli americani.

Le stesse preoccupazioni circolano peraltro anche tra i democratici, che temono di perdere la narrativa fintamente progressista incentrata su questioni socialmente ed economicamente inoffensive, come appunto quelle dell’identità sessuale o razziale. In definitiva, al di là dell’atteggiamento che terrà Mamdani nella campagna elettorale in vista del voto di novembre, riporre speranze di cambiamento nel Partito Democratico non è altro che un’illusione. Basti ricordare gli esempi dei leader dell’ala sinistra del partito, da Bernie Sanders ad Alexandria Ocasio-Cortez (AOC), entrambi entusiasti sostenitori del fresco vincitore delle primarie democratiche a New York.

Tutti e due parlano da anni di una qualche “rivoluzione politica” in America ricorrendo a una retorica che fa appello agli interessi della “working-class”. Nel concreto, invece, le loro scelte risultano molto attente a mantenere qualsiasi sussulto di rivolta nella gabbia del Partito Democratico, per incanalarlo in un vicolo cieco. Sanders, d’altronde, nonostante l’enorme capitale politico accumulato nelle primarie presidenziali del 2016, finì per piegarsi al boicottaggio della sua candidatura da parte dei vertici democratici e per appoggiare Hillary Clinton. Lo stesso ha fatto poi nel 2020 lasciando strada e sostenendo Biden, così come Kamala Harris lo scorso anno, denunciando solo a parole il genocidio palestinese nel quale il presidente e la sua vice erano complici a tutti gli effetti. In una parola, le sue scelte di allinearsi al Partito Democratico hanno favorito le due vittorie nelle presidenziali di Donald Trump.

Il Partito Democratico è e resterà il partito di Wall Street e del capitalismo a stelle e strisce e, ancor più, dell’apparato militare e dell’intelligence, mentre elettoralmente rappresenta le classi privilegiate dell’alta borghesia e dei super ricchi, quanto meno quella parte che non vota repubblicano. Movimenti o personalità riconducibili ai “socialisti democratici” fungono quasi esclusivamente da valvole di sfogo delle tensioni sociali e per perpetuare l’illusione di un partito che guarda a lavoratori e classe media.

In questa realtà, non sarà l’entusiasmo suscitato da Zohran Mamdani a cambiare le cose, per quanto la sua candidatura e il successo di questa settimana sollevino questioni politiche fondamentali. Senza una rottura del duopolio che domina la politica americana e un’offensiva frontale dal basso contro un sistema ultra-classista e paralizzato, continueranno a non esistere soluzioni elettorali per promuovere il cambiamento politico-sociale negli Stati Uniti, così come nel resto delle “democrazie” occidentali.

La vicenda della legge sulle “interferenze straniere” appena approvata in via definitiva dal parlamento della Georgia è un esempio perfetto della doppiezza e della monumentale ipocrisia che caratterizza la politica estera di Europa e Stati Uniti. Il provvedimento è oggetto di feroci critiche e condanne, nonché di una campagna di disinformazione che punta a descrivere come ultra-repressiva e anti-democratica una legge legittima, per molti versi necessaria e, soprattutto, già parte della legislazione di alcuni paesi occidentali e in fase di seria discussione in altri.

La legge è passata in terza e ultima lettura martedì con il voto favorevole di 84 deputati e 30 contrari. Un testo pressoché identico era stato proposto un anno fa, ma la maggioranza del partito “Sogno Georgiano” l’aveva poi ritirato in seguito alle pressioni internazionali e all’esplodere di proteste popolari sempre più aggressive. Le stesse manifestazioni contro la legge erano subito scattate anche alla metà di aprile, quando il governo aveva reintrodotto il provvedimento con alcuni cambiamenti cosmetici. In sostanza, l’unica differenza di rilievo era il cambiamento della definizione dei soggetti contro cui la legge è indirizzata: da “agenti di influenza straniera” a “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”.

Secondo il testo, ONG, media e sindacati che ricevono più del 20% dei loro introiti dall’estero sono tenuti appunto a registrarsi come “organizzazioni che perseguono interessi stranieri”, così da potere essere monitorati dal ministero della Giustizia georgiano. Questo paese caucasico ospita un numero insolitamente alto di ONG e altre organizzazioni che operano in vari ambiti della “società civile”. La gran parte di esse viene finanziata dall’estero, spesso tramite soggetti collegati direttamente o indirettamente al governo americano o all’Unione Europea.

La legge è stata fin dall’inizio bollata da Washington e Bruxelles come una sorta di regalo alla Russia di Putin e, anzi, a una normativa simile già implementata da Mosca viene continuamente accostata. Più correttamente, la legge si ispira al “Foreign Agents Registration Act” (“FARA”) americano degli anni Trenta del secolo scorso. Rispetto a quest’ultima, quella georgiana risulta oltretutto più morbida. Ad esempio, negli Stati Uniti è prevista l’incriminazione per i soggetti che non provvedono a registrarsi come agenti stranieri, mentre in Georgia si rischierà solo una sanzione fino ad un massimo di 9.500 dollari.

Tutto questo viene naturalmente ignorato da governi, media e ONG occidentali quando discutono della legge georgiana, che resta invariabilmente “la legge di Putin”. Incredibilmente, in questi giorni l’assistente al segretario di Stato USA, Jim O’Brien, visitando la Georgia, ha spiegato che questo paese rischia di vedere compromessi gli sforzi per accedere all’UE e alla NATO, poiché la legge appena approvata determina un allontanamento dagli “standard [democratici]” richiesti da questi organismi. In altre parole, la Georgia rischia di trovarsi la strada sbarrata in Occidente perché ha appena introdotto nel proprio ordinamento una legge per limitare le attività di destabilizzazione favorite dall’estero di fatto identica, anche se meno restrittiva, di quella in vigore da quasi un secolo negli Stati Uniti.

Anche in sede europea si discute delle conseguenze sui rapporti con Tbilisi che la legge potrebbe avere. I ministri degli Esteri di una dozzina di paesi già nei giorni scorsi avevano emesso un comunicato ufficiale per chiedere alle autorità UE di valutare “l’impatto del provvedimento sul processo di adesione”. Una risposta congiunta dei 27 membri non sembra essere invece in agenda, visto che alcuni governi, come quelli di Ungheria e Slovacchia, ritengono di non dover interferire nelle vicende interne di un paese terzo.

Le espressioni di condanna dei burocrati europei sono accompagnate rigorosamente dalle solite prediche sul rispetto dei principi democratici e del diritto, tutti messi in serissimo pericolo, a loro dire, dalla legge georgiana. La stessa Commissione Europea sta però discutendo essa stessa l’opportunità di introdurre nel prossimo futuro un provvedimento sulla linea di quello oggetto di contestazioni in Georgia, oltre che già in vigore negli Stati Uniti. La proposta, scaturita dallo scandalo “Qatargate”, punta a creare un database dei lobbisti stranieri per limitare o neutralizzare le “influenze maligne” estere.

Il dibattito pubblico sulla proposta aveva sollevato qualche voce critica, non solo tra le stesse ONG che rischiano di essere costrette a rendere pubbliche le loro fonti di introito, ma anche da quanti avvertivano che una legge simile farebbe cadere la maschera della finta democrazia europea. In primo luogo, l’UE non avrebbe più, nemmeno formalmente, l’autorità morale per denunciare iniziative come quella georgiana visto che ritiene necessaria anche per sé stessa una legge simile. Inoltre, il provvedimento allo studio finirebbe per penalizzare una pratica comune alle istituzioni europee, ovvero l’elargizione di finanziamenti a organizzazioni della “società civile” operanti in paesi stranieri.

Dopo l’approvazione definitiva di martedì, la legge georgiana dovrà essere ratificata dalla presidente filo-occidentale Salomé Zourabichvili, la quale ha già dichiarato che intende utilizzare il potere di veto. La maggioranza che sostiene il governo del primo ministro, Irakli Kobakhidze, potrà però annullarlo e consentire alla legge di entrare in vigore definitivamente. L’incognita che rimane è rappresentata dalla possibile prosecuzione delle proteste dell’opposizione, cioè se i sostenitori occidentali dei manifestanti sceglieranno di continuare a destabilizzare la Georgia cercando di forzare un cambio di regime, a rischio di gettare il paese nel caos.

La determinazione con cui il governo sta portando a termine l’iter legislativo del provvedimento sulle interferenze straniere, così come l’insistenza della propaganda europea e americana per affondare una legge interamente legittima, rivela l’importanza della posta in gioco a Tbilisi. Lo scontro in atto si collega infatti al conflitto tra Russia e Ucraina o, più, precisamente, tra Russia e USA/UE/NATO. In questo scenario, la Georgia si è ritrovata in una posizione sempre più precaria. Da un lato è sottoposta alle pressioni occidentali per partecipare in pieno alla campagna anti-russa, mentre dall’altro deve procedere con estrema cautela per evitare il coinvolgimento diretto in una guerra che avrebbe effetti devastanti.

Il governo del partito “Sogno Georgiano”, al netto delle falsificazioni occidentali, non è in nessun modo filo-russo, tanto che aveva subito condannato l’invasione dell’Ucraina e fornito aiuti umanitari a Kiev. Da tempo cerca poi di costruire un percorso per entrare nell’UE e, sia pure in modo più prudente, nella NATO. Lo scorso dicembre, da Bruxelles era arrivato anche il via libera al riconoscimento dello status di candidato ufficiale all’ingresso nell’Unione Europea.

Allo stesso tempo, il governo georgiano è perfettamente consapevole dell’importanza di evitare che le relazioni con la Russia precipitino, visto anche il ricordo molto vivido della disastrosa guerra in Abkhazia e Ossezia del sud nel 2008. La Russia è chiaramente una presenza fondamentale e inevitabile, dal punto di vista geografico, economico e militare, così che Tbilisi non ha alcun interesse a percorrere la strada suicida dell’Ucraina o, in prospettiva, della Moldavia per assecondare le mire strategiche occidentali. Realismo e pragmatismo sono quindi i principi a cui si ispira il partito di governo fin dall’approdo al potere per la prima volta dodici anni fa sotto la guida dell’imprenditore miliardario con interessi in Russia, Bidzina Ivanishvili.

Alla luce di questi orientamenti, non sorprende che governi e servizi di intelligence occidentali abbiano intensificato le manovre per fare pressioni sul governo di Tbilisi, principalmente fomentando proteste di piazza talvolta violente per far naufragare una legge che andrebbe a colpire o, quanto meno, a smascherare le loro stesse manovre destabilizzanti. Se anche le tensioni dovessero abbassarsi dopo l’approvazione della legge sulle ingerenze straniere, è probabile che la campagna contro il governo riprenderà nei prossimi mesi in vista delle elezioni legislative in programma a ottobre.

Tornando alla posizione della Georgia, va ricordato che questo paese impoverito negli ultimi due anni ha beneficiato notevolmente dell’aumento dei traffici commerciali con la Russia, dovuto alla chiusura, per via delle sanzioni americane ed europee, delle rotte che passavano dall’Occidente. Non si stratta solo di un’attitudine opportunistica, quella georgiana, ma di un calibramento strategico volto a massimizzare i vantaggi di una politica estera aperta. Tanto che la Georgia ha accompagnato la candidatura all’ingresso nell’UE alla formalizzazione di una partnership strategica con la Cina.

A fronte di ciò, i crociati della democrazia in Occidente chiedono invece alla Georgia di salire sul carro delle sanzioni contro la Russia, favorendo un autentico suicidio economico esattamente come sta facendo l’Europa, e di andare allo scontro totale con Mosca, sposando la fallimentare causa ucraina e mettendo a serio rischio la propria sicurezza interna. Con queste premesse, non è difficile comprendere le ragioni per cui il governo di Tbilisi diffidi dell’Occidente e intenda andare fino in fondo per tenere sotto controllo le manovre di destabilizzazione organizzate dall’estero.

Esordio alla regia per Micaela Ramazzotti, con il film Felicità, di cui è anche la protagonista, che sarà presentato in concorso nella sezione Orizzonti Extra alla 80ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia.

La storia è quella di una famiglia storta, di genitori egoisti e manipolatori, un mostro a due teste che divora ogni speranza di libertà dei propri figli. Desirè è la sola che può salvare suo fratello Claudio e continuerà a lottare contro tutto e tutti in nome dell’unico amore che conosce, per inseguire un po’ di felicità.

Una sorella che tenta in tutti i modi di far uscire dalla depressione il fratello, vittima dei suoi stessi genitori, troppo debole per riuscire a salvarsi da solo. Un film sulla famiglia e sulla costante lotta per riuscire a distruggere legami sbagliati e che fanno stare male.

Con Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Micaela Ramazzotti e con la partecipazione di Sergio Rubini, il film  è prodotto da Lotus Production con Rai Cinema e sarà distribuito da 01 Distribution.

"Sono onorata e orgogliosa che proprio la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia sia la prima a voler bene a Felicità - dichiara la regista - . Cosa di cui tutti noi abbiamo bisogno".

Il film arriverà nella sale italiane il 21 settembre.

Felicità (Italia, 2023)

Regia: Micaela Ramazzotti

Attori: Micaela Ramazzotti, Max Tortora, Anna Galiena, Matteo Olivetti, Sergio Rubini

Distribuzione: 01 Distribution

Sceneggiatura: Micaela Ramazzotti, Isabella Cecchi, Alessandra Guidi

Fotografia: Luca Bigazzi

Montaggio: Jacopo Quadri

Produzione: Lotus Production con Rai Cinema

Presentato in anteprima mondiale al Sundance Festival 2023 e vincitore del Gran Premio della Giuria per miglior film drammatico, A Thousand and one, primo film dietro la macchina da presa, della sceneggiatrice A.V. Rockwell,  narra la storia di Inez (Teyana Taylor), una donna determinata e impetuosa, la quale rapisce il figlio Terry, di sei anni, dal sistema di affidamento nazionale. Aggrappandosi uno all’altro, madre e figlio cercano di ritrovare il senso di casa, di identità e di stabilità in una New York in rapido cambiamento.

Siamo di fronte ad un dramma familiare contemporaneo, che racconta le difficoltà di una donna sola e certamente non benestante, in una città difficile come NY. Terry sogna di poter stare con sua madre e lega subito con Lucky (Aaron Kingsley Adetola), il compagno di Inez. Quando diventa adolescente, Terry (Aven Courtney) si rivela essere un ragazzo intelligente e studioso e così sua madre sogna per lui un futuro migliore del suo, lontano dalla strada, ma ciò che ha segnato all’origine la loro difficile storia familiare sta per tornare a galla.

Un film sicuramente interessante sia dal lato della sceneggiatura, che della regia, che ha nel realismo di cui è intriso quella giusta carica che serve a sondare e comprendere la vita dei suoi protagonisti.

A Thousand and one (Usa 2023)

Regia: A.V. Rockwell

Cast: Teyana Taylor, William Catlett, Josiah Cross, Aven Courtney, Aaron Kingsley Adetola, Terri Abney, Delissa Reynolds, Amelia Workman, Adriane Lenox

Sceneggiatura: A.V. Rockwell

Fotografia: Eric Yue

Montaggio: Sabine Hoffman, Kristan Sprague

Distribuzione: Lucky Red e Universal Pictures International Italy

Firmato da Giuseppe Piccioni, L'ombra del giorno racconta una storia d'amore in un periodo storico difficile. Siamo nel 1938. È un giorno qualunque, in una città di provincia come tante altre in Italia (Ascoli Piceno). I tavoli sono apparecchiati e Luciano ha appena aperto il suo ristorante. Dalla vetrina vede un corteo ordinato di bimbi di una scuola elementare, accompagnati da una maestra. Camminano disciplinati sul marciapiede al sole, in fila per due, con i loro grembiuli infiocchettati e i capelli pettinati con cura. Luciano è tentato di credere a quell’immagine di serenità, di fiducia nel futuro. Ha un’andatura claudicante a causa di una ferita della prima guerra mondiale, un ricordo permanente della ferocia di quel conflitto.

Dietro le ampie vetrine che danno sull’antica piazza scorre la vita di quella piccola città in quegli anni. Sono gli anni del consenso, delle operepubbliche, e delle nuove città. Luciano è un fascista, come la maggior parte degli italiani in quel periodo, ma lo è a modo suo; ha preferito rimanere in disparte e si è tenuto lontano dall’idea di trarre vantaggio dalle sue decorazioni di guerra e dalla militanza ottusa e obbediente nelle gerarchie del partito.

Però si sente partecipe di quel generale entusiasmo, nonostante per indole tenda a occuparsi solo dei fatti propri, perché “il lavoro è lavoro”: quello che gli sta a cuore è il suo ristorante e i compiti quotidiani a cui lui si dedica con scrupolo taciturno. Finché fuori dalla vetrina, appare una ragazza. Mi chiamo Anna Costanzi, gli dice, e timidamente chiede se cercano personale. Di lì a poco l’avvento di quella ragazza e le prime evidenti crepe che si evidenziano in quel mondo che guarda dalla vetrina cambieranno la vita di Luciano.

Com’è strana la vita, pensa Luciano. Un tempo, del suo lavoro, gli piaceva proprio essereaffacciato sulla strada, guardare la gente che passeggiava, che correva in fretta al lavoro, gli dava l’illusione di essere insieme a quelle persone, al loro stesso livello. Adesso invece tutto si confonde e ogni giorno si rinnova la sorpresa. E ha il volto di Anna. Ora, in entrambi, si è fatto strada un sentimento, qualcosa a cui Luciano aveva rinunciato da tempo. Ma quella giovane donna ha un segreto. Ad interpretare i protagonisti ci sono due bravi attori come Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli, che vestono alla perfezione i panni di questi due innamorati.

 

L'ombra del giorno (Italia 2022)

Regia: Giuseppe Piccioni

Soggetto e sceneggiatura: Giuseppe Piccioni, Gualtiero Rosella, Annick Emdin

Cast: Riccardo Scamarcio, Benedetta Porcaroli, Waël Sersoub

Distributore: 01 Distribution


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