La conclusione del vertice Nato di Madrid della fine di giugno ha aperto ufficialmente una nuova tappa della storia dove l’unipolarismo imperiale occidentale dichiara senza nessuna diplomazia la guerra al multilateralismo. Con il nuovo Strategic Concept l’organizzazione atlantica abbandona ogni velleità di garantire la pace internazionale, come recitava lo statuto della sua fondazione; sceglie la guerra, o almeno la minaccia della stessa, come perno centrale delle sue relazioni internazionali. Aumento di soldati e armi in Europa e nella Regione del Pacifico, crescita della pressione politica e militare: si ufficializza una nuova politica dedicata allo squilibrio, all’innalzamento delle tensioni con posizionamenti minacciosi e provocatori e con l’arruolamento di ogni Paese che, per la sua collocazione territoriale, possa esercitare una pressione o addirittura rivolgere una minaccia alle nazioni che la NATO considera ostili. L’adesione di Svezia e Finlandia, infatti, indica come Washington non preveda più nemmeno formalmente l’esistenza di paesi neutrali destinati ad ammortizzare lo scontro bipolare, e decida invece di raggruppare sul piano militare l’intero Occidente.

Nell’assunzione persino formale di ciò che precedentemente era solo sostanziale, cioè di una organizzazione offensiva dai tratti aggressivi, si conferma come la NATO sia divenuta l’estensione della politica statunitense, l’anello di sicurezza dei suoi interessi. Viene meno un altro postulato ipocrita che vedeva gli USA garanti della sicurezza dell'Occidente, dal momento che è ora l'Occidente che viene dedicato alla sicurezza statunitense.

La sua nuova funzione è chiara: entrare in conflitto con chiunque minacci la posizione degli Stati Uniti. I quali, oltre a ritrovarsi un sistema internazionale a salvaguardia, vi colgono anche un elemento di utilità economica, dato che l’innalzamento delle tensioni militari comporterà un aumento globale delle spese militari. E se per tutti i paesi del mondo esse rappresentano una distrazione della spesa pubblica a danno del welfare, una pietra al collo per le politiche di avanzamento socioeconomico, per gli USA sono invece il traino fondamentale per la loro crescita economica.

Dal documento non si evince come la NATO pensi di muoversi in una possibile guerra diretta contro Mosca e Pechino. Sul piano militare la partita è incerta, oltre che folle, e su quello economico appare complicata, visto che i suoi membri non possono basare lo sforzo bellico su un solido apparato industriale e manifatturiero. La de-industrializzazione degli ultimi decenni e la finanziarizzazione dell’economia hanno minato le capacità occidentali di sostenere una produzione di guerra tale da consentire un confronto con potenze come Russia e Cina. Un quadro economico e militare che dovrebbe spingere l’organizzazione atlantica a maggiore prudenza, ma preferisce liquidare con minacce di guerra ogni ipotesi di accomodamento con le legittime esigenze di sicurezza russe e con i progetti di crescita e integrazione multipolare cinesi.

 

Chi minaccia chi?

Nella retorica debordante del nuovo Concetto Strategico, Russia e Cina sarebbero i regimi autoritari che, insieme ad altri, vorrebbero distruggere il sistema occidentale. Suscita ilarità la tesi secondo la quale sarebbe la Cina a minacciare gli USA: com’è noto, sono circa 800 le basi militari statunitensi nel mondo, una ventina delle quali a diretta minaccia su Pechino. Nel Pacifico vi sono di stanza 137.000 soldati statunitensi allocati presso le circa 20 basi disseminate tra Hawai, Corea del Sud, Giappone, Guam, Singapore, Thailandia, Australia, Filippine, e vi sono truppe USA anche a Hong Kong, Malesia e Indonesia. In particolare le basi di Guam (Marianne) e di Yokosuka (Giappone) sono per ampiezza, dispositivi militari e armi nucleari le più grandi del mondo. La Cina non ne possiede nemmeno una fuori dal suo territorio. E sarebbe la Cina a minacciare gli USA?

Identico ragionamento potrebbe esser fatto sull’allargamento ad Est della NATO al fine di circondare la Russia, mentre non risultano basi russe ai confini dei paesi Nato; Mosca ne ha solo due e in Siria.

Difficile quindi di fronte a tanto maccartismo di ritorno tentare un’analisi oggettiva delle tendenze in atto sulla scena mondiale: il nuovo Strategic Concept non ha nulla dei concetti né della strategia necessari alla fase convulsa e densa di tensioni e guerre che attraversa il pianeta a causa proprio dell’aggressività statunitense che vede minacciato il suo dominio.

Ma al netto della retorica propagandista, gli avversari della NATO, divenuta ormai il rappresentante politico dell’intero Occidente, non sono solo Cina e Russia ma l’insieme dei paesi definiti “emergenti”; ovvero coloro i quali esibiscono una crescita economica e tecnologica costante e che sono indisponibili a consegnare risorse e sovranità politica agli Stati Uniti e ai loro soci di minoranza.

Gli Stati Uniti, ormai in preda ad una crisi profonda del modello sotto il profilo economico e sociale ed in ritardo sul piano tecnologico e militare, hanno individuato nella crescita imperiosa della Cina, nel peso militare della Russia e nel valore economico dei paesi emergenti (India su tutti) l’ostacolo da rimuovere per evitare un confronto sul libero mercato che vedrebbe l’Occidente perdente.

 

Europa bye-bye

L’altro aspetto predominante del Vertice di Madrid è che si è sancita la fine dell’Europa intesa come progetto politico ed economico basato sugli interessi del continente e destinato, fin dalla sua origine, a creare una zona di pace nel continente dove nacquero due guerre mondiali a causa dell’espansionismo tedesco. Bruxelles ha ora un ruolo simile a quello di GB, Canada e Australia, ovvero una funzione di mero supporto all’estensione del dominio statunitense. Pone la sua identità politica, la sua storia, la sua crescita economica, il suo territorio e la sua popolazione a disposizione dell’ampliamento dell’impero statunitense, che prevede peraltro anche guerre di tipo nucleare tattico delle quali Washinton ha bisogno per testare azioni e reazioni dei suoi avversari.

Un esempio di questo? L’ingresso di Svezia e Finlandia è stato salutato con enfasi, ma l’abbandono del principio di non allineamento da parte di questi due paesi significa la moltiplicazione del rischio di guerra in Europa e non un aumento della sicurezza collettiva. Ed è tutto da dimostrare che il loro ingresso nella Nato sia una idea conveniente dal punto di vista militare. Entrambi i Paesi, infatti, condividono un confine di 1.340 chilometri con la Russia, che però, con la base militare di Kaliningrad controlla il Baltico e l'Artico. Kaliningrad - estesa per 15.000 chilometri quadrati e incastonata tra Lituania e Polonia - è un avamposto militare russo situato a 1.400 chilometri da Parigi e Londra, 530 da Berlino e 280 da Varsavia ed è una parte del territorio russo nel mezzo dell'Unione Europea.

Si trova in una posizione chiave per due motivi: il porto del Mar Baltico, che ospita la base della flotta navale russa, si trova in una delle poche zone in cui il mare non ghiaccia. Inoltre, controllando il Corridoio di Suwalki - che collega l'oblast con la Bielorussia ed è l'unico passaggio terrestre tra la Polonia e Paesi baltici - Mosca potrebbe isolare Lettonia, Estonia e Lituania in un colpo solo e imporsi rapidamente su Varsavia.

Inoltre, l’Europa diverrebbe ancor più un primo bersaglio in caso di conflitto, dato che Kalinigrad ospita i sistemi Iskander, missili balistici tattici a corto raggio in grado di trasportare testate nucleari con una gittata fino a 500 chilometri e che quindi possono raggiungere buona parte dell’Europa. Insomma, contrariamente a quanto potrebbe suggerire, l'ingresso di Svezia e Finlandia non rappresenta un rafforzamento del livello di sicurezza continentale, piuttosto un aumento del rischio di conflitto e il nuovo adeguamento balistico della Russia aumenterà la fragilità militare dell'Europa.

Ci sono poi i riflessi economici. La crisi devastante che colpisce e ancor più in inverno colpirà la UE, affonderà le ipotesi tenue di ripresa post-pandemia, mentre gli USA ne trarranno vantaggio, perché la ridotta forza economica della UE ridurrà il peso di un pericoloso competitor sui mercati degli scambi e su quelli valutari. Gli USA avranno buon gioco ad imporre le loro merci su un mercato dove la UE non sarà in grado di competere per il blocco parziale ma significativo della sua capacità produttiva e della sua rete distributiva, messe a terra dalla riduzione delle forniture di energia e dal vertiginoso aumento dei prezzi, del quale in cambio Mosca si avvantaggia.

 

Tutti per uno, non uno per tutti

A Madrid si è affermata la fine del concetto di diversità nell’ambito dell’Alleanza, dell’idea del mantenimento della sicurezza collettiva considerando le rispettive esigenze di ogni suo membro. Non c’è più spazio per le esigenze nazionali o regionali. Il sistema di difesa militare del capitalismo si centralizza e pone le basi per lo scontro globale tra impero statunitense e il resto del mondo, che vede nel Sud e nell’Est del pianeta l’affermazione di un nuovo gruppo di paesi che mirano alla condivisione della governance planetaria. Non una pretesa fuori luogo, tutt’altro: i paesi BRICS (e non solo loro) sono paesi strategicamente importanti, economicamente vincenti, politicamente influenti, militarmente forti e demograficamente maggioritari. In attesa del prossimo ingresso di Iran e Argentina, costituiscono già così il 40% della popolazione mondiale, il 25% del PIL e il 18% degli scambi commerciali, nonché oltre la metà della crescita economica del pianeta. Ciò che spaventa Washington.

La NATO ha gettato a Madrid la maschera dell’Alleanza militare difensiva, peraltro logorata da sconfitte militari e politiche, e si pone ora apertamente in una condizione belligerante contro il resto del mondo. La rappresentazione di circa 700 milioni di persone decide di affrontare anche militarmente i restanti 5 miliardi e più di abitanti della terra pur di non condividere il governo del pianeta. Perché? Perché questo obbligherebbe a fermare il saccheggio di risorse e materie prime necessario a mantenere un Occidente che non produce ormai più nulla di quello che lo sviluppo del pianeta necessita e che, anzi, ne condanna il futuro ad una inevitabile guerra per accaparrarsi le risorse vitali come acqua, biosfera, terre rare e combustibili.

Slogan, minacce, esibizioni muscolari servono a poco. Quella della NATO è una voracità fuori tempo massimo: Davide cresce e si irrobustisce, Golia non ha nulla di cui compiacersi.

In ogni epoca storica, il processo di ribaltamento di un Ordine preesistente con un Nuovo Ordine ha avuto caratteristiche violente e i continui corsi e ricorsi storici li possiamo trovare anche oggi. Quello al quale stiamo assistendo in questa fase storica è infatti un passaggio di fase dai contorni geostrategici, un terremoto negli assetti della governance mondiale determinato dall’insostenibilità di un comando unipolare. Insostenibilità che è rappresentata da diversi elementi, il primo dei quali è la crisi ormai strutturale dell’impianto economico, con il fallimento delle ricette turbo-liberiste che, iniziate alla metà degli anni ’70 in Cile durante la dittatura pinochettista, sono diventate modello per l’economia globale soppiantando progressivamente l’economia sociale di mercato con il monetarismo.

Un modello concepito per finanziare le elites attraverso un generale trasferimento di ricchezze dalle classi popolari verso la cupola economico-sociale che ha ottenuto il risultato di ampliare le diseguaglianze e generare la crescita dei conflitti e non la loro armonizzazione.

A questo elemento se n’è aggiunto un altro non meno opprimente: l’uso scellerato della potenza militare come minaccia permanente sulle ambizioni di continenti, nazioni e popoli. Un comando unipolare che risolve con la forza la sua incapacità a disegnare un modello valido per tutti. La crescita della sua decadenza ha accentuato l’antagonismo verso ogni esperimento nazionale o regionale che non preveda la genuflessione verso l’impero centrale, che non ritenga obbligatoria la consegna delle proprie risorse al padrone del modello in cambio della sua protezione politico-militare.

Una replica del signoraggio medievale, nel quale gli ambiti di sovranità sono ridotti a  decimali. Chiuso ermeticamente ogni processo di autodeterminazione per i paesi della periferia dell’impero che ritengono di poter avere il diritto di scegliere il modello di sviluppo più consono alla loro cultura, tradizione, mentalità. Minacce e colpi di stato contro chi crede di valorizzare risorse e individuare i problemi a partire dalla lettura della storia, della geografia e della sua identità anche attraverso la lettura della mappa socioeconomica del suo territorio. O che pretende stabilire contenuti, interlocutori e forma negli scambi internazionali delle sue risorse. Contro chi, in altre parole, rivendica la sua sovranità.

 

I conti sbagliati con la storia

La crisi del modello statunitense, divenuto modello unico in forza del dominio militare, politico, ideologico, economico e tecnologico dell’impero, è la crisi del sistema di dominazione più potente della storia dell’umanità. Non solo per l’ampiezza geoterrestre e per la durata, ma anche per aver resistito alla nascita e alla crescita di altri Paesi che esprimono oggi anch’essi una potenza economica, politica, militare, demografica e finanziaria. Sono portatori di una idea dello sviluppo sostenibile e del modello di governance che non solo è diversa da quella dell’impero statunitense ma è alternativa ad esso.

C’è chi ritiene l’atto d’inizio della crisi degli Stati Uniti, sia stato il favorire l’ingresso della Cina nel WTO (2001). Forse, ma la decisione USA non era figlia di una vision includente, di un tentativo di allargare ad altri l’accesso al centro di comando del sistema-mondo e di condividerne la governance. Si pensò invece che Cina e India potessero risultare luoghi utili al decentramento produttivo di un modello che assumeva sempre più la dimensione finanziaria e non quella produttiva come generatore di ricchezza e che sarebbero servite come gigantesche incubatrici di mano d’opera a basso costo da affiancare a quelle importate dall’America Latina. Si ritenne possibile uno sviluppo controllato per paesi che sarebbero stati utili per la riorganizzazione internazionale del lavoro. Avrebbe stravolto il mercato, abbattuto il conflitto sociale e sindacale nocivo per l’applicazione delle teorie darwiniane proprie del capitalismo monetarista e facilitato, con la fine del welfare-state, il trasferimento di risorse fiscali dallo stato sociale alle aziende private.

L’egemonia statunitense sul mondo prevedeva la supremazia di Washington sul piano economico, politico e militare ma quella degli USA non è più la prima economia del mondo. Lo sviluppo cinese segna una supremazia tecnologica, una capacità di generare liquidità finanziaria ed un modello di relazioni economiche basato sulla reciproca utilità e privo di qualunque condizionamento politico, che espone nel One Belt One Road una vision strategica dell’interconnessione globale completamente opposta a quella USA. Da un lato sanzioni a 4 continenti, dall’altro una rete di collegamenti infrastrutturali, marittimi e terrestri basata su due direttrici principali: una continentale, dalla parte occidentale della Cina all'Europa del Nord attraverso l'Asia Centrale e il Medio Oriente, e un'altra marittima tra le coste del Dragone ed il Mediterraneo, passando anche per l'Oceano Indiano. C’è poi la crescita economica di India e Russia, così come di Iran, Turchia, Brasile, l’aumento dell’influenza regionale e il peso degli scambi che hanno ridotto sensibilmente la supremazia mondiale di Washington. Immettere ora alcuni miliardi di dollari dell’Occidente in Africa, nel tentativo di ridurre l’influenza cinese e russa, appare tardivo. E anche sotto il profilo militare le cose hanno preso un indirizzo diverso: le continue disfatte militari statunitensi in Somalia, Iraq, Afghanistan, Siria, la crescita militare russa e cinese propongono al pianeta equilibri militari diversi da quelli a sola guida statunitense.

 

La resistenza al cambio

Benché Washington e Bruxelles non sopportino l’idea, il mondo è cambiato. Basti pensare che il PIL dei BRICS è di 60 trilioni di dollari rispetto ai 37 trilioni dei paesi del G7. Ma non solo: il valore strategico è il cosa li determinano. Ebbene il PIL dei primi è quasi interamente basato sull’esportazione di materie prime, mentre quello del G7 è legato a mercati azionari, armi e petrolio. Ma senza le risorse dei primi, i secondi soccombono.

Questo perché l’Occidente ha trasformato la propria economia, sganciandola dalla produzione reale e agganciandola, invece, ad una liquidità monetaria senza fine.

Negli ultimi 15 anni la militarizzazione del dollaro ed altre armi economiche, sanzioni in primo piano, sono state usate contro Russia, Iran, Corea del Nord, Venezuela, Cina, Cuba, Nicaragua, Turchia, Libia, Siria e anche paesi alleati. Nel 2020 gli Stati Uniti erano in contrasto con la maggior parte dell’umanità, perché il liberalismo connesso al sistema militare industriale - che è il volano centrale dell’economia statunitense - per affermarsi ha bisogno del dominio totale e sono la destabilizzazione e le guerre - e non l’armonizzazione e la soluzione dei conflitti - a favorire la persistenza del sistema. “Il capitalismo sta morendo per overdose da sé stesso»” ha affermato il sociologo Wolfgang Streeck.

Dopo la crisi finanziaria mondiale del 2008, ormai il processo di de-dollarizzazione pesa nell’economia mondiale. Oggi il sistema di transazioni e le valute impiegate sono al riparo dell’influenza del Dollaro e, dunque, degli USA. Il sistema sanzionatorio applicato a 37 paesi si rivela ridicolo e controproducente per i riflessi sulla crisi energetica e alimentare globale che pone l’Occidente alla mercè delle risorse delle quali sono ricche i paesi che sono sanzionati.

Ci sono poi i riflessi politici della crisi dell’egemonia statunitense evidenziati dalla vicenda ucraina. Non c’è solo il rifiuto di molti paesi, rappresentanti la maggioranza dell’umanità, di aderire alle sanzioni contro la Russia, ma oltre a paesi strategicamente importanti nello scacchiere mondiale, anche internamente all’Occidente ci sono imprese “disobbedienti”. Nelle  imprese internazionali appartenenti alla classifica “Fortune500”, 281 operavano in Russia. Di queste, il 70% ha abbandonato o ha ridotto le proprie attività, ma il 30% non ha mosso nulla e continua ad operare. Di quelle che hanno la sede in altri Paesi fuori da USA e UE, solo il 40% ha abbandonato Mosca. Tra i gruppi industriali 28 hanno abbandonato o ridotto ma 4 continuano come prima e di quelli allocati in altri paesi 20 se ne sono andati e 20 sono rimasti. Insomma, la Russia prosegue accusando danni tutto sommato controllabili e nel frattempo ha nazionalizzato settori strategici anche attraverso la confisca e acquisizione degli impianti delle aziende sanzionatrici a cifre simboliche.

 

La soluzione è multilaterale

Il progressivo sfilarsi dei paesi latinoamericani e asiatici e la costituzione di Fori finanziari, politici ed economici dai quali gli USA e i suoi alleati sono estromessi, indicano come un’epoca, quella del pensiero unico e del Nuovo Ordine Mondiale iniziata nel 1989, si va chiudendo a geometrie variabili ma irrevocabili.

La crisi del modello unico può avere esiti imprevedibili. La consapevolezza della fine della sua crescita lo porta al tentativo di ridurre la crescita altrui come unico mezzo - affiancato alle sanzioni - per imporre ancora, nonostante tutto, il suo dominio sui mercati e sugli equilibri militari e geopolitici. E’, vista da Washington, una politica di sopravvivenza per un modello che diffonde tesi sul libero mercato ma che può esistere solo se questo viene truccato impedendo la competizione degli altri.

L’idea di un grande reset mondiale nel ciclo economico e nel dominio militare ha avuto già i suoi primi step. E’ iniziato con la gestione economica della pandemia - cha ha favorito le grandi aziende, mandando al macero le piccole e infliggendo severe perdite alle medie - e prosegue adesso sul piano militare con l’incremento della guerra in Ucraina, l’ulteriore espansione ad Est della NATO, oltre alla minaccia su Taiwan. Di fronte al rischio di perdere il suo dominio l’Occidente considera ogni strada: la guerra globale non è più una minaccia ma un’opzione.

Ma il multilateralismo è l’unica uscita da una crisi di governance che ha accentuato il suo carattere irreversibile con una crisi economica lunga 15 anni, (dunque strutturale e non congiunturale) un aumento dei conflitti armati e l’approfondimento delle diseguaglianze. Lo sfondo politico di questo nuovo mutamento generale della storia definito oggi come multilateralismo sta nel convincimento diffuso di come il capitalismo imperiale non sia una risorsa per il genere umano, bensì il suo punto di non ritorno. Non c’è nessuna crescita possibile per gli esclusi, non c’è nessuna spinta ad ampliare democrazia, diritti e gestione delle risorse. E’ in campo un’idea del mondo multipolare alla quale l’Occidente che segue gli USA nel suo modello distruttivo risponde riaffermando con la forza una idea del dominio di natura unipolare.

Il modello imperiale, del resto, non prevede l’equilibrio ma lo squilibrio; perché è lo squilibrio che genera contrasti ed i contrasti portano alle guerre. Che distruggono risorse, culture, popoli e paesi, ma convengono a chi vende le sue armi per i morti altrui, guadagna con la distruzione dei paesi prima e con la loro ricostruzione poi, e le combatte a casa degli altri invece che subirle nella propria.

Diego Armando Maradona è stato la magia del gioco del calcio. Di volta in volta, con la maglia della nazionale argentina, è stato raddrizzatore di torti, spettacolo unico, trascinatore di ogni emozione, vendicatore delle Malvinas. Persino con la mano, certamente aiutato dagli angeli, riuscì a volare ingannando altezze, arbitri e corona inglese. Con la maglia del Napoli è stato la personificazione della bellezza, il leader della riscossa di una città, la dimostrazione di come un popolo possa sognare dietro a un uomo. Napoli, che lo ha amato perdutamente e che tutt'ora lo ama, con lui è stata più di se stessa, si dovette dare del voi a tanta maestosità ingiustamente seppellita che si riprendeva lo scenario che gli spettava di diritto.

Diego Armando Maradona è stato uomo di ogni eccesso. Un poeta maledetto del calcio e della vita. Refrattario alla disciplina in campo e fuori, ha vissuto inventando e godendo, sprecando e rischiando. Incarnare il Dio del calcio, del resto, era una missione che non consentiva fornire esempi per altre virtù. Dai capelli fino ai piedi espresse sempre ribellione. Nulla in lui era accomodante e discreto. Di fronte alle sue emozioni, alle sue paure ed alle sue ingenuità ha scelto di vivere come istinto comandava e non come prassi esigeva.
Come Mohammed Alì nel pugilato, Maradona divenne più celebre dello sport che praticava. Il più grande calciatore della storia si è preso gioco del calcio e delle miserie che lo circondano. Ha sfidato le leggi della balistica e persino quelle della gravità, ha smentito ogni fisica con la sua chimica. Non importa quale fosse l’istinto del momento, la velocità che riteneva di voler dare alla sua corsa: andavano, lui e il pallone, a fendere l’aria, a seminare meraviglia tra i compagni e panico tra gli avversari, che di fronte ai suoi slalom diventavano di colpo birilli inanimati.

Rese inutili le barriere e gli schemi, i blocchi e i raddoppi delle difese, perché la palla, semplicemente, obbediva a lui e non ai suoi avversari. Faceva scorrere il pallone come stesse sempre a filo d’erba e il tentativo di contrastarlo diveniva un inutile mulinare di gambe. Persino la durata delle partite cambiò: non più novanta minuti, duravano fino al momento in cui Diego decideva che dovevano finire. Allora prendeva palla e puntava avversari e porta e, mentre gli occhi dei tifosi uscivano dalle orbite di fronte a tanta abilità e bellezza, il risultato correva a cambiarsi d’abito.

Nessuno poteva togliergli il pallone dai piedi, anche solo tentarlo esponeva a figuracce. Perché oltre la tecnica sopraffina non si poteva interrompere l’affascinamento reciproco tra il fuoriclasse e la sfera. Guardava negli occhi gli avversari ma non perdeva mai di vista il pallone. Con la sfera tra i piedi, Diego Armando Maradona diventava il Dio dell’estetica, livellava l’ingiustizia dello sport, sistemava i giusti nelle vittorie. e questi gli era devoto, non si allontanava mai dal suo piede sinistro perché ne ammirava la grande bellezza, la magia che vi era contenuta, la fantasia applicata. Il pallone, toccato da lui, diventava un ballerino capace di passare dal tango al merengue, dalla sinfonia classica alla salsa, al son. Andava dove Diego voleva che andasse: vento, pioggia e qualunque altro agente atmosferico si fermavano per non comprometterne il volo.

Sul suo braccio aveva tatuato il “Che”, altro fuoriclasse argentino nella sua specialità, che era quella di trasformare i sottomessi in vincitori. Fu un rivoluzionario Diego Armando Maradona. La sua amicizia con Fidel Castro, con Hugo Chavez e con Daniel Ortega gli recò gloria tra gli umili e fastidio tra i potenti. Non vi è stata causa dell’unità latinoamericana che non l’abbia visto coinvolto e partecipe, impegnato nel rompere il muro mediatico che ogni giorno va abbattuto per poter raccontare il vero.

La sua fine provoca dolore e senso di vuoto in tutti coloro che amino il bello e il giusto. E’ morto vittima di una salute cagionevole e di uno spirito indomabile. Ha voluto vivere da sano e morire da malato, non ha mai ha accettato l’ipotesi inversa. Ci lascia nello stesso giorno in cui ci lasciò quattro anni orsono il suo amico fraterno, Fidel Castro, il più grande tra i grandi. Entrambi, nei loro rispettivi ambiti, hanno stravolto regole e sfidato l’arroganza dei potenti, hanno piegato i padroni del destino cambiandolo una volta e per sempre.

Non si potrà mai parlare di rivoluzioni e vittorie senza parlare di Fidel Castro e non si potrà mai più parlare della magia del gioco del calcio senza parlare di Diego Armando Maradona. Il 25 Novembre, confermano dal Paradiso, è giorno destinato a celebrare l’assoluto.

Il No al referendum costituzionale per il taglio dei parlamentari bisogna spiegarlo bene, sapendo che si va decisamente controcorrente. Prevale infatti largamente un senso comune, ben radicato e purtroppo alimentato da oggettive, valide ragioni. Parlamentari assenteisti, incapaci di fare una legge ma molto esperti a fare i lobbisti, a loro agio a fare e a essere privilegiati, non è stato certo infrequente incontrarli.

Buon Ferragosto a chi ci legge e a chi sbircia altro. A chi lavora e a chi non riesce a lavorare. A chi vede l'autunno come una minaccia per il suo lavoro. Buone Ferragosto a chi del Covid-19 ne ha paura prima di avere una teoria al riguardo. Buon Ferragosto a chi ascolta la scienza ma senza mai dimenticare chi la finanzia, a chi dubita dei vaccini ma almeno ha certezze sull’amuchina in vena. Buon Ferragosto a chi prova nausea per Trump. A chi non sopporta gli evangelici al citofono e in politica. A chi non tollera obiettori pubblici che diventano abortisti privati.

Buon Ferragosto a chi ha bisogno di spazio ma non per questo diventa astronauta e a chi sa che cinque stelle stanno insieme solo nell’Orsa Maggiore. Buon Ferragosto a chi crede che la Padania sia una truffa. Buon Ferragosto a chi detesta la volgarità, l’arroganza degli ignoranti e il cattivo gusto dei nuovi ricchi. Buon Ferragosto anche a chi prega ma non adora la religione del denaro, a chi non sa più a che santo votarsi e chi non vota più nemmeno i santi.

Buon Ferragosto a chi crede che “io” e “noi” non siano antagonisti. A chi non fa del suo riposo una discarica per gli altri e a chi non urla.

Buon Ferragosto a chi non va in barca ma si rotola felice nella sabbia. Buon Ferragosto a chi crede che la causa delle ingiustizie siano i più ricchi e non i più poveri. Buon Ferragosto a chi scrive, a chi parla, a chi legge libri e spegne cellulari, a chi ascolta musica e detesta il rumore.

Buon Ferragosto a chi crede che la terra sia rotonda e a chi sogna più vaccini e meno epidemie. Buon Ferragosto a chi non crede ai complottisti ma nemmeno all’assenza di complotti. Buon Ferragosto a chi non si arrende al cialtronismo e al plebeismo imperanti, a chi non si fa influenzare dagli influencer, a chi non scambia i giornali per informazione, a chi non da credito ai ladri e non ascolta gli ipocriti. Buon Ferragosto a chi riconosce un fascista e un razzista anche quando si nasconde dietro parole finte. Buon Ferragosto a chi quando sente parlare di cambiamento non pensa al suo armadio e a chi non confonde il sapere con il pettegolezzo. Buon Ferragosto a chi s’indigna e a chi si emoziona.

Buon Ferragosto a chi non considera la nuova guerra fredda un modo efficace di combattere il caldo. A chi non confonde mai le vittime con i carnefici, a chi non dimentica Abu Ghraib, a chi sa cosa sia la violenza dell’impero e l’ignoranza imperante. Buon Ferragosto a chi rifiuta il modello vigente ma non più vincente, a chi detesta gli arricchiti con l’altrui schiavitù, a chi non riesce proprio a diventare servo dei potenti. A chi crede che il lavoro sia nobile solo se pagato il giusto. A chi non confonde lo spreco con il diritto, la legge con l’arbitrio, il dolore con la Tv del dolore.

Buon Ferragosto a chi ascolta la prima lezione della medicina che dice il cuore funziona solo se sta a sinistra e quindi buon Ferragosto a chi sta dalla parte degli ultimi, a chi crede che sarebbe bello diventassero i primi.

Buon Ferragosto a chi schifa coloro che da sinistra sono corsi a destra e buone vacanze a chi non rinuncia a dire che questo mondo va cambiato. Buon Ferragosto a chi sa guardare quello che non ti vogliono far vedere. Buon Ferragosto a chi crede che il mondo sia di tutti e che a tutti spetti governarlo, a chi sa che l’equo è di per sé stesso solidale. Buon Ferragosto a chi sa leggere il fondo degli occhi e le curve dell’animo, a chi si fa abbracciare ma non manipolare. Buon Ferragosto a chi crede che le cose vadano consumate e le persone amate, non il contrario.

Ci prendiamo qualche giorno di meritate vacanze. Scriveremo solo se costretti ma torneremo certamente determinati e armati di tastiere. Salvo diverse indicazioni del cuore.


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