Usa 2016


Il confronto elettorale tra Hillary Clinton e Donald Trump è talmente incentrato sullo scontro personale che, diversamente dal passato, la valutazione sull’operato dell’Amministrazione Democratica di Barak Obama peserà relativamente nella scelta elettorale. Il cosiddetto “voto di castigo” o “di premio” avrà infatti un impatto minore di quello che, solitamente, si misura nello spostamento di voti da un’elezione all’altra.

 

L’istinto immediato, nel vedere i due contendenti alla Casa Bianca, è quello di credere che rimpiangeremo Barak Obama. Ma, nello stesso tempo, è anche difficile negare come dopo gli otto anni di Amministrazione Obama, pesati gli aspetti positivi e negativi, sia la delusione il sentimento più diffuso nella valutazione del suo operato.

Certo, è ingenuo ritenere come la conquista del governo sia, di per se stessa, la conquista del potere. In particolare questo vale per gli Stati Uniti, paese governato dal complesso militar-industriale e che utilizza la politica solo come terra di mezzo per la relazione diretta tra Paese e potere. Barak Obama, che per molti aveva rappresentato la sfida politica al groviglio di interessi delle lobbies dominanti, lungi dall’aver imposto una correzione di rotta nel processo decisionale, è rimasto immediatamente ostaggio - e successivamente vittima - proprio di quel complesso militar-industriale e delle lobbies finanziarie che a Washington detengono il potere senza “se” e senza “ma”.

Si può certamente sostenere che una simile impresa era oggettivamente superiore alla sua pur notevole caratura e che, senza una maggioranza nei due rami del Parlamento, un presidente è, nei fatti, un’anatra zoppa, come si definisce chi perde la maggioranza parlamentare dopo le elezioni di mid-term. Ma pur considerando come il mancato appoggio del Congresso e del Senato abbiano costituito un oggettivo impedimento politico, gli otto anni di Obama alla Casa Bianca non hanno confermato le aspettative riposte dai suoi elettori.

L’assoluta novità rappresentata dall’elezione di un uomo di colore alla presidenza e i temi sollevati nel corso della campagna elettorale avevano innescato un’attesa quasi messianica per una America che, dopo otto anni di Bush, aveva visto l’arrivo di Obama come la speranza di un assoluto ambio di rotta. Ma se per alcuni aspetti, riferibili alle politiche di bilancio, è possibile riscontrare elementi parzialmente positivi, non si può dire certo altrettanto per quanto riguarda la sua politica interna sul piano dei diritti sociali e civili (record degli assassinii polizieschi ai danni di afroamericani) e, soprattutto, per la sua politica estera.

Nella prima c’è da registrare la mancata realizzazione di quanto promesso relativamente alla chiusura del lager di Guantanamo e sulla revisione del Patrioct Act, così come non ha avuto successo il tentativo di legiferare in senso più restrittivo sulla libertà di possesso di armi da fuoco. Nella seconda, sebbene insignito preventivamente del Nobel per la pace, Barak Obama non ha certo confermato l’apertura di credito fornitagli dai giurati svedesi. Nonostante alcune titubanze e una serie di stop and go in diversi teatri, la sua Amministrazione si è infatti caratterizzata per una sostanziale continuità con quella repubblicana, sia sotto il profilo dell’interventismo militare che sotto quello dell’imposizione di trattati transnazionali ad esclusivo vantaggio per gli USA.

La cifra ideologica che ha caratterizzato la presidenza Obama è stata quella di un Presidente alla ricerca di un ruolo dominante a livello planetario per gli Stati Uniti, parallelamente al rifiuto di una condivisione della governance mondiale con gli attori principali, siano essi la Cina come la Russia, l’Unione Europea come i paesi democratici latinoamericani.

Alla crisi di leadership, Obama ha pensato di dover opporre uno sfoggio muscolare senza precedenti, firmando anno dopo anno un incremento delle spese militari ed un ampliamento della presenza statunitense nelle aree di crisi. Dove crisi non c’erano sono stati gli USA a crearle, attraverso processi di destabilizzazione interna nei paesi dove le condizioni lo permettevano. Alzare ovunque il livello del conflitto per poter ridare centralità al peso militare statunitense è stata la strategia di fondo e nessun teatro è stato risparmiato.

In Medio Oriente, l’unico risultato positivo è stata la fine dell’embargo all’Iran. Ma nella sostanza Obama ha dato il via libera alle ambizioni egemoniche politiche, militari e religiose dell’Arabia Saudita. Obama ha offerto sostegno politico e militare al disegno di Ryad, aprendo così una vera e propria ecatombe umanitaria e dando vita al dissesto pressoché totale del quadro mediorientale, divenuta l’area più instabile e pericolosa del pianeta. Dopo la cacciata di Saddam Hussein, l’obiettivo principale è stato quello di liberarsi di Gheddafi prima e di Assad poi, così distruggendo gli stati laici e spianando la strada all’estremismo religioso.

La Libia è diventata un’altra Somalia, la Siria non sarà più quella di prima, lo Yemen è devastato dall’aggressione saudita e il terrorismo islamico di matrice sunnita trova sbocchi in alcuni paesi africani, Nigeria in primo luogo. La mappa del Medio Oriente è tutta da riscrivere e il timore è che il sangue sarà l’inchiostro con il quale si riscriveranno i confini dei diversi stati. Ad oggi resta un dato: ha trascinato oltre mezzo miliardo di persone in guerra producendo instabilità politica e militare cui si è associata la più grave crisi migratoria della storia contemporanea.

Nel Pacifico, la volontà di contenere la crescita egemonica cinese ha prodotto un innalzamento pericoloso della tensione militare nel Mar della Cina, ulteriormente accentuato dal Giappone che ha scelto di modificare la sua Costituzione pacifista, eredità della sconfitta dell’impero del Sol Levante nel 1945, per consentire la sua rinascita militare ed il revisionismo storico-politico dalle non celate nuove ambizioni egemoniche di Tokyo.

In Europa, Obama è stato fautore della strategia di allargamento ad Est della Nato. Ha riaperto il conflitto strategico con la Russia con una sequenza ininterrotta di provocazioni politiche e militari, come l’ammassamento di truppe ai suoi confini (che potrebbero innescare in qualunque momento uno scontro) e la riduzione di paesi come Polonia e Ungheria a rampe di lancio per missili tattici. Al sostegno offerto ai regimi di estrema destra nei paesi appartenenti all’ex Patto di Varsavia, spintosi fino ad alterare persino i processi elettorali, si sono accompagnate sanzioni economiche e aggressività politica come nemmeno durante la guerra fredda, dove i presidenti statunitensi avevano almeno la capacità di capire fin dove era possibile spingersi e dove si dovevano fermare per non portare il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare.

Anche verso l’America Latina la politica di Obama è stata caratterizzata dal rilancio della IV Flotta nel Mar dei Caraibi in funzione di minaccia ai paesi dell’Alba, Venezuela in testa. E sebbene passerà alla storia come il presidente che ha riaperto le relazioni diplomatiche con Cuba - gesto tardivo ed incompleto, ma che va comunque sottolineato positivamente senza esitazioni - e abbia dato il via libera a Santos per avviare e concludere le trattative di pace in Colombia, l’agenda politica dell’Amministrazione Obama è stata incentrata sul tentativo di recupero del dominio statunitense.

Ha dato sostegno alla destra internazionale al fine di riaprire un conflitto politico ed ideologico nel subcontinente, con l’obiettivo di ridurre il peso del blocco democratico latinoamericano e del suo progetto indipendentista e integrazionista. Colpo di Stato militare in Honduras (dove Hillary Clinton ha giocato un ruolo decisivo), tentativi di colpo di stato in Bolivia ed Ecuador, destabilizzazione in Argentina e colpo di stato parlamentare riuscito in Brasile e Paraguay ma fallito in Venezuela. Non proprio quello che sosteneva quando, appena insediatosi, affermò di voler riaprire una nuova pagina nelle relazioni tra USA e continente latinoamericano.

Otto anni di amministrazione Obama non hanno quindi spostato gli equilibri internazionale in chiave più democratica e il governo di essi non ha certo avuto nell’inclusione di nuovi attori un punto di forza. I conflitti armati e l’instabilità politica prodotti sotto la sua presidenza sono maggiori e peggiori di quelli esistenti al suo insediamento. L’idea di una America concentrata sui suoi interessi e l’estensione di questi sull’intero pianeta ha frustrato le aspettative di una nuova America e di un nuovo mondo.

Erano i concetti rivendicati in campagna elettorale e rinnegati dalla Casa Bianca. La loro mancata attuazione ha riportato allo spessore reale il primo presidente afroamericano, colui che si é presentato come un visionario e che ha governato come un funzionario.


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