Nell’operazione in atto da diversi anni della riscrittura della storia a scopo politico, nella parte che concerne la rivalutazione del fascismo, operata passando attraverso la criminalizzazione della lotta partigiana, un ruolo di rilievo è ricoperto dalla propaganda costruita intorno alle inchieste per i cosiddetti “crimini delle foibe”. Il 10 febbraio, il Giorno del Ricordo, si avvicina e puntualmente ogni anno la macchina della propaganda revisionista e rovescista, viene abilitata e l’attuale monopolizzazione della Rai da parte del governo Meloni non aiuta di certo.

Intervista a Mariana Mazzucato, economista e autrice de "Il grande imbroglio", un'indagine sulle grandi società di consulenza.

Da decenni il lavoro di Mariana Mazzucato illumina con sguardo acuminato e sferzante le storture più insoffribili dell’economia mondiale, della finanza, della governance della globalizzazione. E propone visioni che, indiscutibilmente, meritano considerazione per il loro aggancio alla realtà, e adesione al senso della funzione pubblica. Questa volta l’economista e docente allo University College London, dove dirige l’Institute for Innovation and Public Purpose, ha puntato l’attenzione sulle società di consulenzaMcKinsey, Deloitte, KPMG e poche altre – che in un batter d’ali, nella struttura di grandi multinazionali ormai, hanno conquistato un potere gigantesco nell’economia contemporanea. 

Abbiamo incontrato Mariana Mazzucato a Roma in occasione del lancio del suo ultimo libro edito per l’Italia da Laterza, Il grande imbroglio. L’indagine accurata sul ruolo di queste società di consulenza, a cui i governi affidano sempre più di frequente il disegno e la gestione degli orizzonti strategici da perseguire, è una denuncia implacabile contro il fenomeno dell’inarrestabile svilimento dell’interesse generale, sia a livello di Paesi che sul piano delle realtà internazionali, nell’arrendevolezza all’inganno esercitato dalle società di consulenza, che si presentano come depositarie di competenze spesso inesistenti.  

Mazzucato, dopo anni di battaglie contro le regole vigenti sulla proprietà intellettuale, questa volta ha deciso con il suo ultimo libro di rompere il silenzio sull’industria internazionale delle consulenze. Una nicchia di realtà intermedie spesso inafferrabili, estremamente influenti e opache, che oliano gli ingranaggi del capitalismo contemporaneo. Da cosa scaturisce questo suo lavoro? 

Tutto il mio lavoro, sin dai tempi di Lo Stato innovatore, ruota intorno alla stessa domanda: come governiamo e come risolviamo le sfide più difficili del nostro tempo (salute, clima, digital divide)? E il mio lavoro di ricerca approda sempre alla stessa questione, ovvero lo Stato che ha smesso di investire sulle proprie capacità e ha preso a scimmiottare il settore privato, riproducendo le sue parole d’ordine, le sue metriche di efficienza, le sue logiche di costi-benefici. Così facendo i governi hanno perso il controllo della situazione, sono divenuti avversi al rischio, hanno smesso di investire sul fronte delle capacità pubbliche per affidarsi come beoti ai privati.

Oggi, la pervasività delle società di consulenza dentro i processi decisionali della funzione pubblica a livello globale – una patologia che affligge Stati nazionali e organizzazioni internazionali – non è che una delle manifestazioni più deflagranti e sconosciute di questo processo di svuotamento, di privatizzazione nascosta e, in ultima analisi, di infantilizzazione dei governi e delle loro funzioni. 

Quindi sta dicendo che i governi devono recuperare un nuovo senso di sé e delle responsabilità che sono chiamati a esercitare?

Precisamente. Dopo Margaret Thatcher e Ronald Reagan ai governi è stato riservato il ruolo di riparare ai fallimenti del mercato (market failures) nella migliore delle ipotesi, più spesso di togliersi di mezzo… tutte parole tossiche! Ai governi spetta trovare i soldi, colmare i buchi finanziari, incentivare, spetta facilitare (la più subdola parola al mondo!), fare de-risking per gli investitori. Ma perché mai lo Stato dovrebbe assorbire il rischio d’impresa? Occorre sovvertire le narrazioni sulle inabilità della funzione pubblica, e farlo con urgenza.

Dobbiamo esigere governi capaci di rischiare, sperimentare, orientare le politiche verso missioni strategiche. La funzione pubblica deve essere in grado di apparecchiare ecosistemi simbiotici e mutualistici con il settore privato, non il rapporto sregolato e parassitario con le mega industrie (Big Tech, Big Pharma) che abbiamo visto ad esempio durante la pandemia. Le società di consulenza, con i loro stupidi PowerPoint sempre uguali, non capiscono nulla di funzione pubblica! 

Eppure sono ovunque ormai, spesso invisibili alla società.

Per questo mi sono buttata a capofitto su questo tema nel libro. Sono ovunque, confermo, autentici parassiti di sistema. Per questo motivo non ho firmato il rapporto della Commissione Colao, di cui facevo parte, quando stavamo nel picco del Covid. Mi sono rifiutata. Al primo incontro, eravamo una quindicina fra accademici ed esperti, ci siamo ritrovati anche 13 persone di McKinsey nella stanza. Praticamente infiltrate, non dicevano nulla. Così ho chiesto a Vittorio Colao che ci facessero tra noi, obiettando rispetto a questa non neutrale presenza. In tutta risposta, seccato, Colao mi ha garantito che prestavano la loro consulenza a titolo gratuito – dico io, vi rendete conto il livello di corruzione? – e che la funzione pubblica italiana non avrebbe potuto gestire la cosa.

Primo, non è vero. Secondo, in quella sede si parlava di fondi, di scelte strategiche, di progetti. E infatti nel rapporto finale ci avevano messo anche il patent box (ovvero, le agevolazioni dei redditi – fino al 50% – per incentivare investimenti in ricerca e sviluppo, e l’utilizzo di beni immateriali come i brevetti, ndr), cioè provvedimenti contro i quali mi sono battuta tutta la vita, visto che i brevetti sono già monopoli che assicurano sconfinati profitti. Certo, McKinsey vuole il patent box e, visto che Draghi si è portato dietro tutti questi consulenti per la realizzazione del Pnrr, sono loro che hanno in mano i contratti, la definizione delle priorità, la selezione dei progetti.

Una forma di colonizzazione, insomma… 

Esatto, colonizzatori che riescono a farti parlare la loro lingua e a veicolare le loro idee, quelle del settore privato. Perché uno Stato stupido, debole, impaurito, un governo che facilita perché incapace di fare altro si fa catturare, si fa corrompere facilmente, questo è il problema. Mica succede in Italia soltanto, ma anche negli Stati Uniti, in Africa. 

Qual è la correlazione fra le società di consulenza e la privatizzazione e finanziarizzazione dellagenda sociale? 

Nel libro abbiamo fornito una miriade di esempi, più o meno recenti, degli esiti disastrosi che queste società hanno prodotto. Queste vicende sono avvenute anche in Paesi che hanno fatto investimenti in capacità pubblica, come ad esempio in Australia. Qui però, nonostante tutto, hanno scelto di erogare a McKinsey sei milioni di dollari per redigere una strategia climatica oggi notoriamente pessima, zeppa di conflitti di interesse.

Lo stesso è accaduto in Gran Bretagna: durante la pandemia Londra ha firmato un contratto da un milione di sterline al giorno con Deloitte per tracciare i test. Si è trattato di un assoluto disastro, costosissimo. Ma che vuoi che ne capisca Deloitte di contagi? Sia chiaro, non siamo contro i consulenti che, anzi, quando sono veramente esperti possono dare importanti indicazioni alle amministrazioni pubbliche. Uno specialista dei tumori con venti anni di esperienza è prezioso per orientare le politiche del governo un ambito sanitario, non c’è dubbio. Siamo decisamente contrarie all’industria delle consulenze, perché esercitano la loro influenza in virtù di contatti e reti di influenza, comprese quelle dei lobbisti. 

Dunque, che fare? 

Il segno di questa infantile insicurezza della funzione pubblica va sanata. Proponiamo nel libro diverse ricette. In primo luogo, occorre intervenire con rigore, normativamente, sul conflitto di interesse e sulle condizionalità che devono essere imposte quando uno Stato avvia una relazione di impresa con i privati. Serve poi avere il coraggio di re-immaginare il ruolo dello Stato dopo queste catastrofi: pensiamo solo alla pandemia, ma anche alla crisi climatica. Propongo di trarre ispirazione dalla storica vicenda dei fallimenti della Nasa con l’Apollo 1. Fu un momento dirimente per cambiare completamente il modo di operare della agenzia, nel segno della cooperazione, per andare sulla Luna. Cambiare la cultura dei governi, rendere la burocrazia creativa, agile e flessibile, per un’economia di missione è possibile. Con tutto quello che succede nel mondo è un passo necessario, direi.

 

Di Nicoletta Dentico

Fonte: Valori.it

Bogotà. Virilio, Mann e Mumford sono teorici che condividono una visione terrificante, ma assolutamente vera e inconfutabile: dalla prima guerra mondiale si è costruita un'economia di guerra, le potenze sono Stati in guerra e i media audiovisivi marciano alla stessa frenetica velocità della tecnologia che rende possibile ogni scontro armato.

“Lei si preoccupa di quello che pensa la gente? Su questo argomento posso illuminarla, io sono un'autorità su come far pensare la gente. Ci sono i giornali per esempio, sono proprietario di molti giornali da New York a San Francisco.”

Charles Foster Kane (Orson Welles), Quarto Potere.

Citizen Kane, il titolo originale del film capolavoro di Orson Welles, esce nel 1941. In un altro ispirato dialogo della pellicola, si parla di Francia Inghilterra Germania e Italia come paesi “troppo intelligenti” per avventurarsi in una nuova guerra mondiale. Sapendo come è andata a finire, ci sarebbe da ridere, se non fosse tragico.

Quello della guerra permanente è da tempo un pallino dei neocon e di altri settori intellettuali che prestano la loro raffinata consulenza ai capi dell’impero statunitense in declino. Dopo la fine dell’URSS s’inventarono questo brillante concetto per giustificare la continuazione dell’impegno militare e dell’esistenza della NATO. In un primo tempo esso venne applicato al terrorismo, figura alquanto vaga e suscettibile di vario uso, imperniata in un primo tempo sulla banda di Bin Laden e poi sull’ISIS, organizzazioni nella cui creazione, come poi si è scoperto, avevano collaborato in certa misura proprio certi organismi della cosiddetta intelligence occidentale.

Bisogna infatti partire dal presupposto che la guerra permanente costituisce la situazione ideale per chi, come gli Stati Uniti, è pronto a tutto pur di mantenere il proprio dominio sul mondo, tanto più che quello militare è l’unico settore nel quale essi mantengono un evidente primato. Agitando il big stick (grosso bastone) essi rinsaldano la propria egemonia sugli “alleati”, guadagnandone qualcuno in più, e tengono in stato di costante agitazione tutti i loro competitors ed antagonisti veri e presunti, costretti a distogliere molte risorse economiche ed umane da impieghi più proficui per destinarle agli obiettivi della difesa e della sicurezza. Last but not least, bisogna pensare agli ingenti profitti che tale situazione genera nel comparto degli armamenti, sempre più asse portante dell’economia dei Paesi occidentali, che diventa ovviamente sempre più un’economia di guerra.


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