Dalla possibile guerra tra Iran e Israele fino ai rischi per l’Italia derivanti dal caos in Medio Oriente: intervista a Marco Carnelos, nostro ex ambasciatore in Iraq.

La guerra in Terra Santa è sul punto di allargarsi a tutto il Medio Oriente, con Israele che dopo essere entrato nella striscia di Gaza ha invaso ora anche il Sud del Libano, provocando la reazione dell’Iran che ha lanciato quasi 200 missili verso lo Stato ebraico.

Tutti sono in attesa adesso della risposta - che dovrebbe essere concordata e coordinata con gli Stati Uniti - di Israele, un’azione promessa da Tel Aviv e che potrebbe far scoppiare una guerra regionale.

In Italia c’è apprensione anche per i nostri militari di stanza in Libano e per le possibili ripercussioni economiche di un conflitto su larga scala in Medio Oriente, con il prezzo di gas e petrolio che potrebbe schizzare alle stelle.

In questo scenario così complesso Money.it ha intervistato Marco Carnelos, ex ambasciatore in Iraq e prima inviato speciale del governo italiano per il processo di pace in Medio Oriente e la crisi in Siria.

Andando subito al nocciolo della questione, a questo punto una guerra tra Israele e Iran è inevitabile oppure ci sono ancora dei margini per evitare un’escalation?

L’aspetto curioso è che questa volta è stato l’Iran a utilizzare il concetto di escalation per promuovere la de-escalation che Israele aveva invocato qualche giorno fa per giustificare la recrudescenza dei suoi attacchi in Libano. Se vi sarà un’ulteriore escalation, dipenderà molto da Israele; in particolare se, ed eventualmente come, reagirà all’attacco iraniano che è stato sicuramente un salto di qualità rispetto a quello condotto nell’aprile scorso dopo il bombardamento del Consolato iraniano a Damasco. Un aspetto che non è stato evidenziato a sufficienza è che l’attacco iraniano sembra aver privilegiato obbiettivi militari, benché non sappiamo ancora con quali effetti; ma se si fosse indirizzato verso meri obbiettivi civili il bilancio per Israele avrebbe potuto essere più pesante. Resta da vedere inoltre se Israele modererà la propria reazione come richiesto da ultimo anche dagli Stati Uniti e da tutto il G7. Negli ultimi dodici mesi tuttavia tutte le – piuttosto flebili in verità – esortazioni americane a Israele per un approccio più misurato e proporzionato sono rimaste inascoltate e questo precedente non induce certamente all’ottimismo.

Per Israele è questo il momento migliore per attaccare i suoi più grandi nemici?

Per Israele si profila una finestra di opportunità che potrebbe prolungarsi sino al 20 gennaio, prima dell’insediamento della nuova amministrazione americana. La tentazione per Israele di provare a regolare i conti con Hamas ed Hezbollah una volta per tutte è molto forte. Resta da vedere se sarà in grado di farlo. Dopo dodici mesi di immani distruzioni a Gaza con un bilancio umanitario catastrofico Hamas non risulta debellata; inoltre al primo scontro terrestre in Libano con Hezbollah Israele ha già perso 8 soldati. Insomma, il quadro non sembra così roseo come Israele si sforza di promuovere.

Non solo Iran e Libano oltre a quel che resta della striscia di Gaza, c’è massima allerta anche in Giordania, Siria, Iraq e nel già conflittuale Yemen. Questa guerra rischia di allargarsi a tutta la Regione?

Per certi versi la guerra si è già allargata a tutta la regione. Israele è impegnata con attacchi militari su sette fronti: Gaza, Cisgiordania, Libano, Siria, Iraq, Iran e Yemen. Da Libano, Iran e Iraq piovono missili su Israele, una situazione del genere ha pochi precedenti.

Dal punto di vista militare, Israele potrebbe sostenere una guerra regionale contro l’Iran e i suoi alleati senza il supporto degli Stati Uniti?

Occorre qui intendersi che cosa si intenda per “supporto” degli Stati Uniti. Se si tratta dei semplici e ingenti rifornimenti di armi certamente Israele può impegnarsi in Libano, Siria, e nei Territori Occupati di Cisgiordania e Gaza. Ma se il livello dello scontro sale, a esempio con il lancio sincronizzato di missili su Israele da Iran, Iraq, Libano e Yemen con la possibile saturazione del sistema aereo Iron Dome, ecco che il sostegno dell’aviazione e della marina USA (e di altri paesi europei) diventano cruciali per meglio tutelare Israele. Se quest’ultimo dovesse poi attaccare gli impianti nucleari e/o petroliferi iraniani, ecco che lo scontro registrerebbe un salto di livello tale che potrebbe mettere a repentaglio gli impianti petroliferi dei paesi arabi del Golfo, come già minacciato dall’Iran. Ricordo che il 14 settembre 2019 un attacco sincronizzato degli alleati dell’Iran da Iraq e Yemen danneggiò la produzione petrolifera saudita, anzi la dimezzò per un certo periodo di tempo. Se la ritorsione iraniana dovesse esplicarsi nel Golfo questo potrebbe costringere gli Stati Uniti a un intervento diretto, e questo probabilmente è il risultato che Netanyahu sta tentando di propiziare. Resta da capire se sotto elezioni Washington finirà per cadere nella trappola.

Quali sono i rischi per i militari italiani di stanza in Libano?

I militari italiani dispiegati in Libano meridionale nell’ambito della Missione ONU Unifil si sono già trovati sotto il fuoco incrociato di Israele e dei suoi nemici libanesi. È accaduto nel 1982 e di nuovo nel 2006. Già all’epoca gli accorgimenti di sicurezza predisposti e il bassissimo profilo impresso ai militari della missione consentì loro di non essere esposti fatalmente allo scontro. Mi auguro che accada lo stesso anche questa volta.

Quali contraccolpi economici potrebbero esserci per l’Italia in caso di un’escalation bellica in Medio Oriente?

Piuttosto seri. L’area rappresenta un crocevia e una rotta commerciale importante per il nostro sistema di approvvigionamento economico-commerciale e di materie prime. Inoltre, se il Golfo dovesse essere messo a ferro e fuoco il prezzo del petrolio e del gas potrebbe subire una nuova impennata e, oggettivamente, dopo i danni prodotti dalle sanzioni alla Russia questa sarebbe l’ultima cosa da augurarsi per l’economia italiana che già soffre per il crollo industriale tedesco.

 

Fonte: Money.it

Torniamo ad occuparci delle possibili responsabilità dell’Ucraina nella distruzione dei gasdotti Nord Stream nel Mar Baltico nel settembre 2022 perché alcune reazioni sembrano confermare che i nemici della Germania si annidano tra le nazioni che ufficialmente risultano alleate di Berlino in ambito UE e NATO.

Se sommiamo quanto emerso dalle rivelazioni giornalistiche e dalle indagini effettuate in Germania alle dichiarazioni successive e precedenti l’attentato ai gasdotti, emerge che non solo gli ucraini ma pure polacchi, baltici, britannici e statunitensi appaiono coinvolti nella distruzione dei gasdotti o la hanno celebrata come un evento positivo, quando invece ha minato il presente e il futuro degli approvvigionamenti di gas a buon mercato alla Germania e all’Europa.

Paradossalmente, i “nemici” russi contro i quali i vertici politici e militari anche tedeschi sostengono ci si debba preparare alla guerra, non hanno mosso un dito per danneggiare gli approvvigionamenti energetici anche perché non avrebbero avuto nulla da guadagnare da un simile atto.

A chiarire ulteriormente quanti siano i nemici occidentali della Germania, hanno contribuito nei giorni scorsi le dichiarazioni del presidente ceco Petr Pavel che ha definito i gasdotti Nord Stream un “obiettivo legittimo” per l’Ucraina.

Ha suscitato reazioni aspre quanto ingiustificate in Europa la decisione resa nota il 25 giugno dalle autorità russe di imporre restrizioni nei confronti di 81 media europei impedendone l’accesso tv e internet al territorio della Federazione Russa.

Tra i media europei presi di mira figurano i siti di RAI, LA7, La Stampa e Repubblica, come spiega l’agenzia di stampa Ria Novosti ma anche i giornali tedeschi Der Spiegel, Die Zeit e Frankfurter Allgemeine Zeitung, i quotidiani francesi Le Monde, La Croix e l’agenzia France Presse (AFP) oltre a Radio France Internationale. La Russia ha imposto restrizioni anche ai quotidiani spagnoli El Mundo ed El Pais, all’agenzia di stampa EFE, all’emittente statale austriaca ORF e ai giornali web Politico ed EUobserver.

Non sono certo mancati gli sviluppi dopo gli “incoraggiamenti” formulati la scorsa settimana dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg, nei confronti degli stati membri dell’alleanza affinché consentano l’impiego delle armi a raggio più esteso donate a Kiev anche contro obiettivi situati sul territorio russo.

Lo stesso Stoltenberg ha precisato che la decisione spetta ai singoli stati. “Non si tratta di decisioni della NATO sulle restrizioni. Alcuni alleati non hanno imposto restrizioni sulle armi che hanno consegnato. Altri lo hanno fatto. Credo che sia giunto il momento di prendere in considerazione tali restrizioni, anche alla luce degli sviluppi della guerra”, ha proseguito.

Il 13 maggio 2024, l'India ha firmato un accordo decennale con l'Iran per lo sviluppo e la gestione del porto iraniano di Chabahar, affacciato sul Golfo di Oman, segnando un passo significativo nella cooperazione tra i due paesi. L'accordo, stipulato tra la India Port Global Limited (IPGL) e l'Organizzazione Portuale e Marittima dell'Iran (IPO), rappresenta una mossa strategica da parte dell'India per espandere la sua influenza nella regione, migliorare le proprie rotte commerciali e rafforzare la resilienza della catena di approvvigionamento.


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