L’Africa è un continente complesso e nei cui interessi politica e media occidentali manifestano una forma particolare di strabismo. Negli scorsi anni il continente, soprattutto nella zona del Sahel, è stato attraversato da un’ondata di violenze e colpi di Stato che hanno avuto proporzioni epidemiche in Stati come Mali, Niger, Guinea e Burkina Faso colpendo al cuore, soprattutto, la posizione della Francia, ex colonizzatrice e tradizionale riferimento di questi Stati. Ebbene, Parigi si è sempre detta preoccupata e chiamata a seguire in prima persona quanto successo con l’ascesa delle giunte militari nell’Africa occidentale. Ma sorprende, al contempo, lo scottante silenzio con cui il governo di Emmanuel Macron ha accolto le recenti violenze in Ciad.

Mentre la brutale aggressione israeliana a Gaza si intensifica, continuano a circolare voci di un possibile grande accordo con al centro l’Egitto: l’assorbimento da parte di quest’ultimo paese di un numero consistente di profughi palestinesi della striscia in cambio dell’alleggerimento del massiccio debito del Cairo, che ammonta a una cifra superiore ai 160 miliardi di dollari.

Dopo due anni la guerra in Ucraina sembra destinata a continuare e benché sul campo di battaglia siano i russi ad avere l’iniziativa e a guadagnare terreno tutti i giorni e su tutti i fronti le dichiarazioni che giungono da Kiev e dai governi occidentali sembrano impermeabili a ogni considerazione basata sulla concretezza dei fatti.

I progressi russi avvengono al prezzo di altissime perdite, recita il “mantra” della propaganda ucraina recepita “senza se e senza ma” dalle cancellerie di Europa e Stati Uniti anche se l’assenza di osservatori neutrali impedisce di fare la tara ai numeri forniti dai due belligeranti sulle perdite inflitte al nemico.

Che qualcosa stia andando in corto circuito nei vertici ucraini sembrano indicarlo le dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dal capo dei servizi d’intelligence Kyrylo Budanov circa la morte di Aleksey Navalny ma anche le affermazioni di Zelensky che in conferenza stampa ha ammesso che i caduti ucraini dall’inizio dell’attacco russo sono 31.000 mentre i russi invece avrebbero sinora registrato “180mila morti”.

Quello relativo alle perdite ucraine è un numero decisamente improponibile anche ai più grandi fans della propaganda di Kiev (il sito ucraino Wartears ne conta 377.000) mentre circa le perdite russe il presidente smentisce il suo ministero della Difesa (e pure sé stesso) considerato che da giorni Kiev ha più volte annunciato che i caduti russi sono oltre 400.000.

Gli stessi ucraini ammettono però che il volume di fuoco russo è tre o quattro volte superiore a quello dell’esausto esercito ucraino, a corte di truppe, mezzi e munizioni e con reparti che da mesi non vengono avvicendati: elementi confermati dai reportage di diversi media statunitensi (non certo filo-russi ma sempre più malvisti dal governo ucraino) che dovrebbero indurci a prendere con le molle le informazioni, peraltro spesso contraddittorie, fornite da Kiev.

Il ministro dell’Industria ucraino, Oleksandr Kamyshin, ha annunciato che nel 2023 l’Ucraina ha triplicato la propria produzione bellica affidata a oltre 500 aziende di cui 400 private mentre il ministro della trasformazione digitale, Mykhailov Fedorov, ha precisato che il 90% dei droni utilizzati contro le forze russe sono prodotti in Ucraina e il  ministro dell’Interno Ihor Klymenko ha affermato che nel corso dei due anni di conflitto “neanche una singola arma” di fabbricazione occidentale ha valicato la frontiera con la Russia.

Affermazioni impossibili da verificare, come quelle fornite da Mosca circa la sua produzione bellica, tranne l’ultima che risulta essere totalmente priva di credibilità. I russi hanno mostrato fin dalle prime settimane di guerra immagini di materiale bellico occidentale di cui sono entrasti in possesso in battaglia: anticarro NLAW e Javelin, mezzi corazzati Leopard, Bradley, M-113 e molte altre tipologie, obici e mortai ed equipaggiamenti di ogni tipo.

Nonostante da mesi i flussi di armi occidentali siano crollati, perché gli europei non hanno più nulla o quasi da cedere e negli Stati Uniti il Congresso ha finora bloccato nuovi stanziamenti, il primo ministro ucraino Denys Shmyhal ha affermato che nel 2024, l’Ucraina prevede di ricevere 11,8 miliardi di dollari in aiuti finanziari dagli Stati Uniti mentre il ministro della Difesa Rustem Umerov ha lamentato che la metà delle forniture di armi non arriva in Ucraina nei tempi previsti.

Nell’attuale situazione militare, l’insieme di queste dichiarazioni può venire interpretato come un tentativo di spronare l’Occidente a fare di più per aiutare l’Ucraina ma, con un po’ di malizia, potremmo leggerlo con la necessità di mettere le mani avanti in caso di sconfitte eclatanti, che a Kiev cercherebbero di imputare agli aiuti di USA e NATO, sempre troppo pochi e consegnati troppo tardi.

L’Alto rappresentante della Politica estera dell’Unione europea Josep Borrell, in una intervista al quotidiano spagnolo El Paìs, ha sollecitato maggiori aiuti per l’Ucraina da parte degli stati membri paventando il pericolo che alle prossime elezioni presidenziali in Russia e negli Stati Uniti i vincitori siano Vladimir Putin e Donald Trump.

‘Non hanno ancora vinto, ma potrebbero vincere”, per questo ”l’Europa deve svegliarsi” ha detto Borrell mostrando da un lato dubbi forse ingiustificati circa la vittoria di Putin nella corsa al Cremlino e scarso rispetto per l’elettorato e l’attuale opposizione statunitense nella corsa alla Casa Bianca. Certo le elezioni negli USA si terranno quando l’attuale Commissione Ue sarà già stata sostituita (ma non è detto che la prossima mostri ampie differenze dall’attuale) ma la dichiarazione di Borrell certo non contribuirà ai rapporti transatlantici nel caso vincesse Trump.

La guerra si combatte anche con i simboli e in occasione del secondo anniversario dall’attacco russo il ministero degli Esteri tedesco ha diffuso una notizia fondamentale per l’esito del conflitto: nella corrispondenza ad uso ufficiale verrà utilizzata la parola ucraina “Kyiv” e non più il termine russo “Kiev” per indicare la capitale dell’Ucraina.

“In qualità di Ufficio Federale degli Affari Esteri, stiamo gradualmente cambiando l’ortografia. Questo riguarda i siti web, la targa dell’ambasciata tedesca in Ucraina e i sigilli ufficiali”, ha comunicato il ministero degli Esteri tedesco. Per restare in tema di documenti ufficiali, ad Avdiivka, ex roccaforte ucraina nel Donbass espugnata dai russi pochi giorni or sono dopo dieci anni di scontri violentissimi le autorità di Mosca hanno cominciato a rilasciare passaporti della Federazione Russa agli abitanti mostrando foto dei primi 30 ex cittadini ucraini divenuti russi.

Un evento simbolico che, tenuto conto della violenza dei combattimenti in questa città, ricorda che le poche centinaia di civili che hanno deciso di restarvi, nonostante gli appelli delle autorità ucraine affinché lasciassero le loro case, attendevano l’arrivo dei russi. Del resto 5 milioni di ucraini si sono rifugiasti in Russia, altri vivono nei territori controllati dai russi (circa il 20 per cento del territorio ucraino) e oltre 90mila ucraini combattono integrati nelle truppe di Mosca.

Numeri che da soli potrebbero indurre a considerare questo conflitto anche una guerra civile, termine vietato da Kiev e quindi mai preso in considerazione in Occidente benché possa offrire qualche spunto per immaginare una soluzione negoziata della guerra.

Considerando la ricorrenza del 24 febbraio è il caso di ricordare che questa guerra non è cominciata due anni fa ma nel 2014. Ce lo ricorda indirettamente anche la recente inchiesta del New York Times in cui si rivela la CIA, subito dopo i fatti del Maidan, ha realizzato negli ultimi dieci anni una rete di 12 basi segrete, in territorio ucraino ma in bunker a ridosso del confine russo, per addestrare oltre agli agenti di Kiev anche l’Unità 2245, che aveva come obiettivo quello di entrare in possesso di droni e altre apparecchiature di comunicazione da fornire alla CIA per decodificare i sistemi criptati di Mosca.

Sul campo di battaglia il secondo anniversario dall’avvio della Operazione Militare Speciale russa è caratterizzato dall’avanzata delle truppe di Mosca un po’ su tutti i fronti: a ovest di Avdiivka e di Bakhmut, ma anche nei settori di Ugledar e Zaporizhia mentre a Kherson, secondo fonti russe, sono state eliminate le ultime sacche di resistenza dei marines ucraini che per mesi avevano tenuto una piccola testa di ponte sulla sponda sinistra del fiume Dniepr.

Gli ucraini hanno bruciato migliori reparti di veterani nella difesa vana di Bakhmut, Marynka e Avdiivka e soprattutto nella fallita controffensiva dello scorso anno. Non ci sono più file lunghissime ai centri di arruolamento, anzi, le enormi perdite subite per perseguire obiettivi più politici che militari inducono oggi gli ucraini giovani e meno giovani a tentare in ogni modo di sottrarsi all’arruolamento. La credibilità della classe dirigente politica e militare è in caduta libera e lo si evince non tanto dai sondaggi in una nazione dove le legge marziale serve anche a eliminare il dissenso ma soprattutto parlando con gli ucraini rifugiatisi in Europa e che no0n intendono tornare in patria per venire arruolati.

In termini militari i rapporti di forza di oggi emettono una sentenza senza appello: il potenziale bellico russo cresce grazie a un’industria pesante supportata da enormi quantità di energia e materie prime mentre l’Ucraina dipende quasi interamente dagli aiuti occidentali militari ed economici: aiuti necessari anche per pagare pensioni e stipendi ma in rapido calo da diversi mesi.

Se negli Stati Uniti i fondi per l’Ucraina restano bloccati al Congresso e la guerra in Ucraina non sembra essere il tema dominante della campagna elettorale (confermando che l’America si stanca delle guerre che combatte ma ancor più di quelle che fa combattere agli altri), in Europa una classe dirigente sempre più imbarazzante affronta il tema con slogan e proclami ben lontani dalla concretezza che nei tempi difficili si dovrebbe pretendere dagli statisti. Il messaggio chiave, ribadito recentemente alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, è infatti continuare ad armare l’Ucraina (secondo alcuni anche cedendo le armi delle nostre forze armate) per permetterle di riconquistare i territori perduti, che peraltro diventano ogni giorno più vasti.

Nessuna ipotesi di negoziare un accordo su ampia scala che ponga fine al conflitto e garantisca una cornice di sicurezza condivisa ai confini orientali di un’Europa che non ha più armi né munizioni da dare agli ucraini, se non disarmando i suoi piccoli eserciti, né sembra disposta a inviare i propri soldati all’assalto contro i russi per riconquistare Avdiivka.

Un accordo che Mosca aveva chiesto in più occasioni dal 2007 fino al dicembre 2021 e che oggi appare quanto mai necessario per gli interessi europei. Inoltre, tra un proclama bellicoso e un annuncio sui pericoli che i russi invadano l’Europa, sarebbe forse meglio chiedersi quanti caduti ogni nazione europea sarebbe in grado di sopportare a livello sociale e politico in una guerra come quella in corso in Ucraina.

In occasione della caduta di Avdiivka pare che gli ucraini abbiano registrato in 48 ore circa 1.500 caduti e altrettanti prigionieri: qualche stato membro della NATO e della UE potrebbe accettare perdite simili, anche se bilanciate dalle consuete altissime perdite russe?

Quanto agli aiuti militari le ultime forniture annunciate dagli europei riguardano per lo più armi che devono ancora essere costruite e che saranno disponibili nel 2026 o nel 2027. Forse un po’ tardi per le esigenze dell’Ucraina il cui esercito potrebbe collassare nei prossimi mesi. Del resto la UE non ha fornito nemmeno la metà del milione di proiettili d’artiglieria che aveva pomposamente promesso agli ucraini nel marzo dell’anno scorso.

L’industria della Difesa europea, a cui la UE si affida per i suoi annunciati programmi di riarmo, ha bisogno di anni e molti miliardi di investimenti per ampliarsi e accelerare la produzione e tutto questo dovrebbe accadere mentre l’economia va a rotoli tra inflazione, de-industrializzazione, recessione e incertezza energetica e mentre l’opinione pubblica chiede più “burro” e meno “cannoni”.

Qualche esempio illuminante ci giunge dalla (ex?) “locomotiva d’Europa”: quest’anno in Germania l’unico ministero che ha un budget più elevato rispetto allo scorso anno è quello della Difesa ma non sembra che questa decisione stia portando molti consensi alla coalizione di centro-sinistra al governo dove il ministero degli esteri guidato dalla verde Annalena Baerbock (la stessa che l’anno scorso dichiarò che il problema più grave della Germania è “il clima”) è impegnato a ridefinire l’ortografia delle città ucraine.

La scorsa settimana, all’inaugurazione di un nuovo stabilimento per la produzione di munizioni d’artiglieria, è stato reso noto che i depositi dell’esercito tedesco sono vuoti dopo le cessioni a Kiev (anzi a Kyiv) e che ripianarli agli standard pre-guerra costerà 40 miliardi di euro. Moltiplicare questa cifra per tutti i settori di armamento ceduti all’Ucraina e per tutti gli stati membri consente di immaginare quali cifre enormi siano necessarie solo per riportare i livelli di armi e munizioni in Europa agli standard non certo esaltanti di due anni or sono.

L’aspetto più imbarazzante è che gli stessi leader politici che annunciano impegnativi programmi di riarmo e il bellicoso sostegno alla riconquista dei territori ucraini perduti sono esattamente gli stessi che ci hanno raccontato che le nostre sanzioni (oggi ulteriormente potenziate dopo la morte di Aleksej Navalny) avrebbero distrutto l’economia russa in poche settimane o che ci assicuravano che Putin sarebbe stato rovesciato da un golpe interno o ucciso da una delle sue innumerevoli malattie, che l’esercito russo aveva finito munizioni e missili, combatteva con i badili e rubava le schede elettroniche dalle lavatrici nell’Ucraina occupata per metterle dentro missili e altri sistemi d’arma.

Ricordare tutto questo è ancor più necessario oggi che la Ue lancia continui allarmi e vara misure di censura per contrastare la “disinformazione russa”.

La guerra in Ucraina si è sviluppata su due grandi illusioni e un inganno. I russi hanno attaccato due anni or sono su un fronte di 1.500 chilometri con poche truppe (per un terzo composte dalla Guardia Nazionale) convinti che gli ucraini si sarebbero arresi senza combattere. Illusione durata poco, specie dopo che a fine marzo 2022 gli anglo-americani hanno indotto il governo ucraino a rinunciare all’accordo di pace negoziato con la mediazione turca, in base al principio che la guerra doveva continuare perché avrebbe logorato la Russia.

Un inganno di cui oggi ucraini ed europei (entrambi logorati) pagano il prezzo e che ha spalancato la porta alla seconda illusione, quella che ancor oggi sembra alimentare nei governi occidentali la fiducia cieca nel successo ucraino (a dispetto della palese impossibilità di fornire a Kiev quanto necessario per conseguirlo) e nella sconfitta russa, nonostante tutti gli indicatori inducano al momento a ritenere più probabile il contrario.

 

di Gianandrea Gaiani

Fonte: Analisi Difesa

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