di Giovanna Pavani

E' una domanda che ogni anno si riaffaccia, inquietante, e alla quale è difficile dare una risposta definitiva: perché guardare il Festival di Sanremo? Perché, soprattutto, più di dieci milioni di persone, per cinque sere di seguito, lo fanno senza vergogna e, anzi, con vezzo voyeristico, se ne fanno pure un vanto? Perché, ancora, un'Italia oggi alle prese con problemi più gravi di ieri, ma forse ancora migliori di quelli di domani, si blocca, stupita e curiosa, a guardare uno spettacolo obsoleto, un mausoleo vivente fuori dal mondo, un rigido protocollo che azzera chiunque, che spegne intelligenze e irrita per la sua offensiva banalità? Le risposte alla complessità sociologica di questi quesiti sta tutta in uno slogan, in quello spot semplice e disarmante, che qualche anno fa il sensale per eccellenza della messa cantata degli italiani, Pippo Baudo, sfoderò con grande non chalance in una sala stampa dell'Ariston gremita fino all'inverosimile di giornalisti curiosi. Più di capire il fenomeno che di conoscere i testi delle canzoni in gara: perché Sanremo è Sanremo disse "Pippo nazional-popolare". E fu subito applauso. Razionalmente non ci sarebbe una ragione al mondo per spendere cinque sere della propria vita a sopportare i sudori freddi e le papere verbali di un gruppo, sempre diverso, di professionisti dello spettacolo disperati che, chissà come mai, sul palcoscenico del minuscolo teatro della città dei fiori riescono, sempre e comunque, a dare il peggio di loro stessi. O ad ascoltare "le perle" di quella musica italiana che in quel luogo ne esce sempre svilita, "suonata" come un pugile, perché vincono i peggiori mentre i migliori non sono mai capiti. Ma poi fanno soldi a palate con i dischi di platino. Eppure, gettata alle ortiche la ragione, davanti a Sanremo anche il più solido sistema immunitario innalzato davanti all'imbecillità catodica si arrende. E soggiace a Panariello. E sbircia, furtivo, nella scollatura- gonfia e birichina- di una neomamma troppo bella per essere vera e che ha tutto di invidiabile. Anche Totti. Oppure si improvvisa critico musicale e si unisce al coro da bar declamando che della canzone della Oxa non si capiva niente, perché a Sanremo ci vanno le canzonette, non si fa sperimentazione, e tante grazie a Cocciante che ci ha fatto riscoltare "Bella senz'anima".

Dietro le quinte, intanto, è un formicaio di cervelli in fuga. Che si lamentano, accusano, fanno confronti con identici horror del passato, confrontano i punti di differenza dello share, due, tre, quattro, un disastro!, e chiedono scusa, cercano capri espiatori, s'ingegnano fino allo spasimo per non deludere i costosi sponsor, si rovinano la salute e la carriera consapevoli, tuttavia, che non perderanno mai il posto perché targati dalla razza padrona della politica. Perché è Sanremo, bellezza. E noi possiamo solo guardare.
Sia chiaro: quello a cui stiamo assistendo quest'anno è il peggior Sanremo della nostra vita. Il fatto che nessun guizzo di novità, un gesto di fantasia o di coraggio, abbia potuto sollevare, agli occhi dei telespettatori, la polvere del tempo e dell'anacronismo di questa kermesse, sta facendo ricredere anche i più solidi custodi dell'ortodossia canora sull'opportunità di decretare la fine, per raggiunti limiti di età, del Festival. Ormai le hanno provate tutte. E più si va avanti, più le industrie discografiche fanno la voce grossa, più il comune di Sanremo detta regole su quali fiori pubblicizzare e più i divi al botulino di Hollywood strizzano le tasche della Rai per farsi rimborsare il jet privato da Nizza e fare qualche sorriso idiota alla telecamera per pochi minuti. La colpa non è di nessuno, si potrebbe dire, perché c'è sempre una fine a tutto e l'accanimento terapeutico, a lungo andare, è lesivo della dignità delle persone. Per chi lo vede e per chi lo fa il Festival.

Ma c'è un altro aspetto che va considerato, che in questo momento della storia politica del Paese è da sottolineare senza tema di smentite o di rigidità ideologiche: per anni il Festival di Sanremo ha rappresentato l'unica, vera corazzata con cui la Rai si è sempre fieramente contrapposta a Mediaset. Ci sono stati anche anni in cui il servizio pubblico radiotelevisivo è riuscito a garantire la propria sopravvivenza grazie agli introiti di Sanremo e del suo strampalato circo Barnum di contorno. Sanremo è stato, insomma, un po' come la linea del Piave che non ha mai conosciuto una Caporetto. L'aggressività e la prepotenza che stanno connotando questa campagna elettorale, hanno finito pure per inibire un Panariello che, da buon toscano, vorrebbe dire ciò che pensa con la consueta irriverenza della sua razza, eppure non lo fa perché anche sul palcoscenico dell'Ariston c'è un clima di intimidazione che fa paura: senza la libertà, anche il miglior comico diventa un pagliaccio triste. L'altro giorno la Lega ha cominciato ad insinuare che i costi di Sanremo sono esorbitanti, che la Rai dovrebbe risparmiare invece di propinare agli italiani un John Travolta bollito e non certo all'altezza della "Febbre del sabato sera". E subito "Il Giornale", quello di famiglia, s'intende, si è premurato di fare i conti in tasca alla Rai sui cachet dei conduttori. Il motivo è semplice: tutto ciò che rende la Rai forte va attaccato e, se possibile, dissolto. Specie in questi giorni, quando le boutade sanremesi hanno forse messo un po' più in ombra la pagliacciata americana elettorale di Berlusconi.
Sanremo, senza dubbio, è morto. Noi non stiamo meglio. Ma stavolta, anche solo per dispetto, varrebbe la pena guardarlo.

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