di Vincenzo Maddaloni

È morto a 79 anni Horst Faas, grande fotografo dell’Associated Press, due volte premio Pulitzer, noto soprattutto per le sue foto durante la guerra in Vietnam come  quella che mostra il generale della polizia di Saigon, Nguyen Ngoc Loan, sparare alla testa di un prigioniero vietcong, e quella altrettanto famosa della bambina nuda che scappa dopo un bombardamento col napalm.

Faas era nato a Berlino, in Germania, nel 1933, e cominciò a lavorare con l’agenzia Keystone da giovanissimo. A 23 anni entrò in Associated Press, e cominciò ad andare nei posti dove pochi volevano andare: Vietnam, Laos, Congo, Algeria, Cambogia, Bangladesh. Personalmente ricordo Horst Faas anche come fotografo del Congo, a quel tempo, come oggi del resto, un Paese dilaniato dalle guerre, tra le quali quella dello Shaba restò nella storia.

Infatti, l’elevato debito estero, l’alto livello di corruzione e la gestione economica poco oculata del governo dello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, causarono il 13 maggio del 1978 un tentativo di secessione da parte della provincia dello Shaba (ex Katanga). Esso si concluse il 22 maggio dopo l’intervento, con il supporto logistico dell’Aeronautica militare degli Stati Uniti, di 700 francesi della Legione Straniera e di 1.700 soldati del Belgio, che evacuarono dalla provincia duemila cittadini europei e “liberarono” la città di Kolwezi occupata dai secessionisti, dopo due giorni di combattimenti casa per casa. Malgrado alcune difficoltà nei collegamenti fra i comandi delle forze francesi, belghe e zairesi e la cattiva pianificazione delle operazioni di aviolancio, l’intervento dei Legionari fu considerato un brillante esempio di operazione di soccorso. Ma davvero di soccorso si trattò?

«Gli europei uccisi a Kolwezi dai ribelli katanghesi potrebbero essere oltre duecento, ma per molto tempo sarà impossibile avere un preciso bilancio della tragedia. Le difficoltà sono di vario genere: il mancato censimento delle persone evacuate; l’impossibilità di identificare i molti cadaveri. I legionari francesi si sono ritirati. Nella cittadina mineraria è tornato l’ordine: vigilino i marocchini e gli egiziani». Giovedì 25 maggio 1978, la guerra nello Shaba (ex Katanga), provincia dello Zaire (ex Congo Belga), cominciata dodici giorni prima, era già nelle pagine interne dei quotidiani, in fondo ai titoli dei Telegiornali. Esauriti i racconti degli scampati, le panoramiche sulla città disseminata di corpi massacrati, sui negozi e le case svaligiate e incendiate, l’invasione alimentava ormai soltanto le polemiche internazionali.

Il Washington Post chiedeva all’amministrazione americana di decidersi a intraprendere “operazioni di aiuto militare” nei paesi africani «amici» (e lo Zaire che, ripeto, ora si chiama Repubblica Democratica del Congo  è a  tutt’oggi uno di questi ) che si trovino in «si trovino in situazione critica». L’ex segretario di Stato Kissinger che all’epoca imperava, denunciò una «perdita di coraggio» della leadership di Carter. Il presidente dello Zaire, Mobutu Sese Seiko, dichiarò che la ribellione era stata appoggiata da Unione Sovietica, Cuba, Germania Orientale, e sottolineò la «rinuncia totale dell’Occidente davanti alle aggressioni totalitarie in Africa».

Castro convocò il più importante rappresentante americano all’Avana per negare che nel massacro di Kolwezi ci fosse stato lo zampino cubano. Giscard d’Estaing giustificò l’intervento dei parà della Legione con l’esigenza di difendere l’integrità dei residenti europei. Il premier belga Tindemans propose che le frontiere dell’Angola e dello Zambia (da dove erano arrivati gli uomini del “Fronte di liberazione nazionale del Congo”) fossero sorvegliate da truppe africane con l’appoggio logistico della Cee, sebbene Claude Cheysson, commissario della Cee, avvertisse che la logica dei parà non conveniva all’Europa.

Il 25 maggio di 34 anni fa, Kolwezi era pattugliata dai marocchini, i parà francesi si erano attestati a trecento chilometri, a Lubumbashi, capitale dello Shaba. La zona sembrava tornata alla calma. Ma bastava un niente: troppi interrogativi erano ancora senza risposta. Dietro ai katanghesi c’erano davvero i sovietici, i cubani e i tedesco-orientali? E quelli cosa volevano: la secessione dello Shaba, la paralisi economica dello Zaire, il rovesciamento di Mobutu? E fino a che punto l’Occidente era disposto a sostenere il regime del dittatore africano? Trentaquattro anni dopo, la risposta ancora non c’è, sull’argomento  gli storici non si sbilanciano.

Lo Shaba è la più ricca regione mineraria dell’Africa. Qualcuno la definì uno “scandalo ecologico”: cobalto, diamanti industriali, rame, zinco. Tecnici stranieri a migliaia per sfruttare i vasti giacimenti. E quasi un secolo di soprusi e di violenze. Prima la brutale conquista belga, il saccheggio delle ricchezze, poi i l’indipendenza nazionale raggiunta dopo anni di terrore. Lotte tribali, ingerenze straniere, carneficine con la regione dello Shaba sempre in primo piano. Allora si chiamava Katanga, lo Zaire era il Congo Belga, Kinshasa e Lubumbashi erano Léopoldville ed Elizabethville. La secessione del Katanga arriva pochi giorni dopo l’indipendenza del Congo (30 giugno 1960).

Le motivazioni tribali e anche personali (Ciombé contro Lumumba), abilmente manovrate dai potenti interessi stranieri padroni del rame katanghese, incoraggiarono la sfida. Arrivarono i mercenari bianchi del “colonnello” Schramme; il presidente Kasavubu consegnò a Ciombé il suo primo ministro Lumumba. Poi l’assassinio di Lumumba, il nuovo capo del Governo Adula che chiese l’intervento dell’Onu. Ciombé allontanato e poi riproposto come primo ministro. Altro sangue: tra i tanti, morì il segretario generale dell’Onu Hammarskjöld e morirono tredici aviatori italiani a Kindu.

La guerra durò cinque anni. Il 24 novembre 1965 il giovane generale Joseph Desiré Mobutu, comandante dell’Esercito, con un colpo di Stato incruento destituì Kasavubu e s’ impossessò del potere. Nel suo primo discorso disse: «Bisogna finirla con i tribalismi, con i regionalismi e i discorsi sterili dei politici. Rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci saggiamente al lavoro. Io vi chiedo cinque anni di fiducia per ricostruire il Paese e ricreare l’unità». Il migliori scatti di quel discorso sono del fotografo Horst Faas che all’epoca era appena trentenne, ma già professionista noto.

Mobutu mise fuori legge le 230 organizzazioni politiche, sciolse il Parlamento e fondò un partito unico a cui « tutti devono essere iscritti fin dalla nascita». Impose il culto della personalità, il mobutismo, mentre predicava  la autenticità: «Noi – spiegava - dobbiamo agire come avrebbero agito i nostri padri se non fossero stati vincolati dalle pastoie del colonialismo. Torniamo alle origini, bagniamoci nel fiume della nostra storia e della nostra natura, recuperiamo il senso intatto della nostra cultura».

Cambiati i nomi alle città, proibiti gli abiti occidentali, sostituiti i nomi cristiani con quelli autoctoni: Joseph Desiré Mobutu diventò Sese Seko Kuku N’bendu Wa Za Banga che significano la “Terra”, “pepe ardente”, “il guerriero onnipotente che lascia fuoco sulla sua scia e va via di conquista in conquista”. La rivoluzione toccò anche i libri di scuola: Stanley e Livingstone non sono più gli “esploratori di un continente sconosciuto”, ma “l’avanguardia della penetrazione della conquista coloniale”.

Il prezzo del rame alle stelle (a Kolwezi c’è il giacimento più vasto) incoraggiò altre iniziative. Nel 1973 si varò la nazionalizzazione delle imprese commerciali industriali e minerarie. L’Union Minière scomparve assorbita dalla Gécamines, un ente minerario di proprietà statale sostenuto con i finanziamenti e l’assistenza stranieri. Allontanati dalle stanze dei bottoni gli occidentali, comparirono i manager zairesi.

Ma non ci furono dei benefici per la popolazione, i salari non subirono aumenti. Il gruppo manageriale zairese, seguendo l’esempio dei  loro  predecessori stranieri, gestiva il Paese come un affare personale. Corruzione altissima, ma efficienza zero. L’agricoltura languiva, le città si gonfiavano, la disoccupazione cresceva. Il crollo del prezzo rame aggravò la crisi. Nel 1965 l’indice dei prezzi del minerale era di 160, 163 nel 1974: in dieci anni era rimasto pressoché immutato. Soltanto tra la fine del 1973 e nei primi mesi del 1974, dopo il golpe militare in Cile (il maggior produttore del mondo), il prezzo toccò il punto più alto, 150 sterline la tonnellata. In quell’anno lo Zaire introitò con l’esportazione di rame 858 milioni di dollari.

Durò poco: nei paesi industrializzati, dopo l’aumento del costo dell’energia, soffiava il vento della recessione ( anche allora!), che travolse per primi i paesi produttori di materie prime. L’indice dei prezzi del rame crollò a 80, lo Zaire incassò 532 milioni di dollari nel 1975, per scendere a 300 milioni di dollari un anno dopo. Il passivo della bilancia dei pagamenti passò in due anni da 86 a 135 milioni di dollari. E tuttavia si continuò a spendere.

Una politica economica dissennata, incoraggiata dagli imprenditori stranieri, dirottò gli investimenti su costruzioni di “prestigio”, costose e altrettanto inutili: il palazzo delle Comunicazioni, il grattacielo tutto vetro e cemento del World Trade Center (un centro import-export) il terzo del mondo: ce n’é uno a New York, l’altro è a Londra. Nessun investimento per incrementare la produzione nelle miniere, dove mancavano i pezzi di ricambio per i macchinari e persino il combustibile.

La decolonizzazione portoghese darà un duro colpo alle esportazioni. Lo Shaba s’incunea tra frontiere di Paesi a quel tempo ostili al regime di Mobutu: lo Zambia di Kennet Kaunda; l’Angola di Agostinho Neto. La linea ferroviaria del Benguela, che collega Lubumbashi al porto atlantico di Lobito, lunga duemila chilometri, di cui milletrecento in territorio angolano, era bloccata. Per far uscire il rame dallo Shaba bisognava attraversare lo Zambia, la Rhodesia fino al porto di East London, nel Sud Africa. Con il permesso dei regimi razzisti di Pretoria e di Johannesburg si riuscivano ad esportare soltanto 25 mila tonnellate di minerale al mese. Troppo poche per un’economia che si reggeva quasi soltanto sul rame.

L’inflazione raggiunse l’80 per cento, scarseggiavano i generi di prima necessità, gli investimenti (nonostante l’invito agli stranieri di ritornare nel Paese) ridotti a zero. Le condizioni poste dalle banche occidentali per fornire nuovi crediti erano pesanti. Si accettò l’offerta di una società tedesca, l’Otrag, costruttrice di missili, che affittò centomila chilometri quadrati nello Shaba settentrionale per costruire un razzo per il lancio dei satelliti. Satelliti di che tipo? Angola, Tanzania, Zambia protestarono poiché temevano che gli scopi dell’Otrag fossero militari; l’Unione Sovietica rincarava: «Gli esperimenti rientrano in un complotto della Nato per stabilire una base missilistica nella regione». E Io Shaba ancora una volta era in primo piano.

Ancora oggi c’è chi sostiene che dietro al generale Nathaniel M’Bumnba, comandante dei katanghesi, ci fossero i tedesco-orientali desiderosi di mandare a monte i progetti dell’Otrag. Ma non è questa la sola ragione: bloccare la produzione di rame e cobalto voleva dire mettere in crisi il regime di Mobutu. Non era una impresa difficile. Si poteva però pur sempre far leva sulle rivalità tribali, soffiare sul fuoco di antichi rancori mai sopiti.

Le tribù Lunda che popolano questa zona nemmeno oggi sono rassegnate a dividere con i Bakongo (che vivono intorno a Kinshasa) le risorse della loro ricchissima regione. Hanno sempre seguito chi potesse favorirne la secessione senza guardare il colore politico. Prima, con Ciombé, hanno difeso gli interessi delle grandi compagnie minerarie e del colonialismo portoghese in Angola. Poi, negli anni Settanta hanno seguito i russi, i cubani, i tedesco-orientali e gli angolani di Agostinho Nieto. Da «ex agenti dell’imperialismo e della Cia» a fomentatori di una rivolta che il sudafricano Vorster definì “marxista” e la Cina “socialimperialista”. Cambiavano le alleanze, ma, come sottolineava con non poco acume Il New York Times, «l’ideologia Lunda rimane solo Lunda».

Negli ultimi quattordici mesi si tentarono due invasioni. La prima nel marzo del 1977 ebbe scarsi risultati. Conquistarono Mutshatsha sulla linea ferroviaria Benguela-Lobito, puntando su Kolwezi. Con ingenti aiuti internazionali e le truppe marocchine Mobutu riuscì a bloccare l’avanzata. Era una strana guerra. Non si precisò il numero dei morti, due soltanto furono i prigionieri katanghesi. Ricordo le testimonianze che raccolsi in quelle giornate a Kolwezi: molti soldati governativi erano stati colpiti dagli stessi commilitoni; l’aviazione mobutista aveva sbagliato diversi obiettivi; e, come sempre, si erano consumate vendette: un militare aveva sterminato una intera famiglia (Lunda) perché gli aveva rifiutato una coperta. Nei quattordici mesi successivi la repressione nella provincia “infedele” aumentò: fucilazioni di “traditori”, vessazioni, operai fermati all’uscita delle fabbriche e costretti a consegnare il salario. Scarseggiavano i viveri, mancavano i medicinali.

Il 13 maggio, quando i cinquemila soldati ex katanghesi si lanciarono all’attacco potevano contare sull’aiuto di una popolazione esasperata. Dirà il comandante dei legionari francesi, il colonnello Erulin: «L’azione era stata preparata con gran cura e coordinata da una quinta colonna che si trovava all’interno della città». L’operazione si iniziò alle sei: in poche ore conquistarono l’aeroporto, la stazione radio, l’ufficio postale, e alcuni soldati “regolari” furono uccisi nel sonno. Molti abbandonarono armi e divise, e fuggirono. Felice Zambetti, Rino Brighenti e Cesare Bottani, tre operai bergamaschi scampati all’eccidio, mi raccontarono: «In un primo momento scambiammo i colpi d’arma da fuoco per esercitazioni. Poi ci accorgemmo che il bersaglio eravamo noi europei».

L’attacco colse tutti di sorpresa. Nessun segno nella notte precedente. Ricordava Rino Brighenti: «Quella sera ero andato a cena da amici. Alle due avevo attraversato la città per tornare a casa. Tutto era tranquillo». Ma c’era un particolare strano in tutta la vicenda: i quaranta tecnici americani che lavoravano alla costruzione della linea elettrica di Inga Shaba riuscirono a mettersi in salvo poco prima dell’attacco. Mi diceva Zambetti: «Qualcuno deve averli avvertiti, saranno venuti a prenderli con gli elicotteri:c’erano la sera prima, alle sei erano già spariti». Aggiungeva Bottani: «Per noi, invece, sono stati sei giorni di inferno, tappati in casa con mia moglie e la figlioletta Mara. Hanno scritto che i bianchi sfruttano i negri. Io ero a Kolwezi perché in Italia non trovavo lavoro».

Raccontava Brighenti: «Un’ora e mezzo dopo l’inizio dell’attacco sono stato fatto prigioniero. Mi hanno fatto togliere le scarpe, trasportato assieme ad altri europei all’aeroporto. Trentasei ore in piedi sotto il sole e nella notte gelida. Ci tenevano svegli con la minaccia dei fucili, poi mi hanno riaccompagnato a casa, mi hanno legato a un albero e hanno cominciato a sparare. Forse volevano farmi morire di paura, non so. Restai in quella posizione una ventina di minuti, e ogni minuto sembrava un secolo. Infine, mi hanno spinto in casa e hanno ricominciato a sparare. Mi sono salvato non so ancora come».

L’eccidio degenerò in un’ orgia di sangue mercoledì sera «quando attraverso la radio vengono a sapere che arriveranno i paracadutisti francesi». Negozi incendiati, uomini, donne e bambini massacrati. Poi, il silenzio. «Alle quindici e cinquanta di venerdì, quando cominciano a scendere i parà, non si sente più un colpo di fucile». Fuggiti tutti, perché? «L’uomo bianco armato fa ancora paura». Chi erano gli invasori? «Non erano di certo i katanghesi dei tempi di Ciombé. C’erano moltissimi giovani, con gli occhi stralunati, dovevano essere drogati». Avete visto i cubani? «No, non se ne sono visti ».

Il fatto che gli uomini di M ‘Bumba fossero stati costretti a ripiegare non significò la vittoria di Mobutu, le miniere restarono bloccate. Senza l’aiuto europeo lo Shaba non marciava, e la crisi economica si aggravava. Ma chi era disposto ad aiutare il regime di Mobutu? Cuba, trentaquattro anni fa,  aveva in Africa  dai 30 ai 40 mila uomini, quanti erano gli americani in Indocina all’inizio del conflitto in Vietnam, e li manovrava secondo le direttive di Mosca. Se una guerra serviva agli interessi del Cremlino la si appoggiava, come in Angola e poi nello Zaire, altrimenti no. Non era una questione ideologica, ma di conquista di nuovi domini. Il Corno d’Africa ne era all’epoca, un altro esempio. I sovietici non volevano che il Mar Rosso diventasse un mare arabo in cui difficilmente avrebbero trovato basi di appoggio, e pertanto i cubani si schierarono al fianco dei marxisti etiopici contro i marxisti eritrei che combattevano per l’indipendenza.

Gli americani se ne stettero  a guardare, salvarono “in tempo” i loro connazionali, ma non  avevano alcun desiderio di crearsi in Africa un altro Vietnam gli orrori del quale il fotografo Horst Faas aveva contribuito a eternare. I francesi volevano riempire il “vuoto americano”, ma erano già impegnati in “guerre di liberazione” nel Sahara occidentale e nel Ciad: fino a quando avrebbero potuto sostenere il regime di Mobutu, sebbene  vi  si parlasse il francese?

Sicché Cheysson, commissario Cee sentenziò: «Quello che temo di più è che gli occidentali comincino a solidarizzare con i bianchi contro i negri, magari in nome della razza e persino della religione cristiana. Ora io trovo orribile il massacro dei bianchi nello Shaba. Ma non trovo meno orribile il fatto che seicento neri siano stati uccisi dai sudafricani nell’Angola meridionale, o che cinquanta neri siano stati massacrati nello Zimbabwe dagli uomini di Smith. Tutto questo non può essere dimenticato, perché in questo modo daremmo a Vorster un formidabile atout per perpetuare l’apartheid in Sud Africa. E permetteremmo che l’Urss si arroghi da sola il diritto di presentarsi di fronte al mondo intero nelle vesti di unico difensore delle libertà africane».

Fin qui la storia che ho avuto l’opportunità di poter seguire da vicino. Malauguratamente,dopo 75 anni di colonialismo, 52 anni di dittatura neo-coloniale sempre percorsi dalle guerre, il popolo congolese continua a vivere come uno dei popoli più poveri del mondo in un Paese tra i più ricchi di giacimenti del mondo. Quelli che sembrano o che vengono spiegati dai media come conflitti tribali, o di matrice religiosa ed etnica continuano ad essere dei massacri pilotati, per acquisire o mantenere il dominio delle risorse energetiche e quindi strategiche, da potenze estranee all’area dove essi si svolgono. Così l’Africa e la Repubblica popolare del Congo, più di chiunque altra nazione che ne fa parte, pagano con la guerra perpetua il loro contributo alla globalizzazione.

 

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