di Vincenzo Maddaloni

A distanza di giorni non è stato ancora spiegato perché domenica 24 novembre l’Italia non era con Francia, Inghilterra e Germania al tavolo di Ginevra nel quale Ue, Usa, Cina e Russia hanno firmato lo storico accordo sul nucleare iraniano. Eppure bastava ripercorrerne il percorso ricordando, che il negoziato con Teheran appena concluso si aprì nel  2003.

All’epoca - l’Italia era alla guida del semestre di presidenza della Ue - le potenze europee chiesero a Silvio Berlusconi - capo del governo allora in carica - di firmare assieme a loro la lettera a Teheran che dava appunto inizio al negoziato. La risposta italiana fu: “No grazie, non ci interessa”, benché per gli scambi economici - pari a 3,8 miliardi di euro - l’Italia fosse il secondo partner commerciale dell'Iran in seno all'Unione europea.

Questi silenzi mediatici  in Italia si susseguono da quando i grandi media hanno iniziato a girare intorno ai problemi come gattini ciechi: per scelta mirata o per pigrizia. Eppure l’Iran non è un problema di poca importanza. Se così non fosse il presidente degli Stati Uniti Barack Obama non si sarebbe affannato - nella notte di domenica 24 - a telefonare al premier israeliano Benjamin Netanyahu, per aggiornarlo e rassicurarlo sull’accordo raggiunto con l’Iran e sul programma nucleare di Teheran.

Le cronache raccontano anche che il mattino seguente la firma del trattato, dopo la  telefonata di Obama la Borsa di Israele è schizzata in alto, prevedendo pace, stabilità e buoni affari. E non poteva essere diversamente, benché il premier Netanyahu avesse espresso la sua contrarietà all’intesa raggiunta con il 5+1 definendola un «errore storico».

La Borsa sale perché con la firma a Ginevra dell’intesa la Storia dovrebbe voltare pagina: ce ne sono le premesse. Tra  gli Stati Uniti e la Repubblica islamica dell’Iran si sono riaperti degli spiragli prima inimmaginabili, poiché tra le due nazioni non corre buon sangue fin dal colpo di Stato del 1953 per mano dei servizi segreti americani contro il governo democraticamente eletto di Mossadegh (moderato riformista e giurista di alto profilo formatosi a Parigi).

Di conseguenza, dopo la caduta dello Scià, la rivoluzione di Khomeni del febbraio 1979, e dopo che i rapporti diplomatici si erano interrotti con l’occupazione dell’ambasciata americana a Teheran (4 novembre 1979) ai tempi dell’amministrazione Carter, gli Stati Uniti sono rimasti fuori dall’area  strategica dell’altopiano iranico che ora Obama si ripropone di ridisegnare.

È per questa ragione che l’amministrazione Bush aveva inserito l’Iran tra i Paesi dell’asse del male e cercava i pretesti per scatenare l’ennesimo intervento militare. Dopotutto le guerre in Afghanistan e in Iraq e la presenza militare in Turkmenistan e in Azerbaijan rimangono manifestazioni eloquenti dell’ansia degli Stati Uniti di controllare quest’area strategica e di riconquistarne il cuore strappandolo agli ayatollah (ayat Allah, “segno di Dio”).

Va poi osservato che l’importanza dell’altopiano iranico è cresciuta in seguito ai cambiamenti strutturali avvenuti nell’uso e nel consumo dell’energia: una crescita esponenziale tale da rendere l’Iran determinante negli equilibri geopolitici globali. Il Paese si trova tra le risorse tradizionali del Golfo Persico e quelle nuove del Mar Caspio. Anche le aree adiacenti all’altopiano hanno una larga presenza di giacimenti e sono ricche culturalmente.

Infatti, Il territorio che si estende dalla Mongolia interna fino all’Ungheria, popolato da genti di origine turco-altaica, era abitato anticamente dai popoli iranici nomadi come i saka, i daha, i cimerri e rappresenta per gli studiosi “l’Iran esterno”, nomade, parente e antagonista “dell’Iran interno” racchiuso nei confini storici e di indole sedentaria. Naturalmente poco se ne vuol sapere della storia della Persia, dell’Iran, benché si viva nell’èra del copia-incolla e del web dove tutto dovrebbe costare meno fatica.

Sicuramente anche il copia-incolla ne costa, poiché l’immaginario collettivo privilegia ancora oggi lo scenario d’Oriente descritto nel 1937 da Robert Byron nell’opera La via per l’Oxiana. Uomo colto e dotato di spirito, Byron viaggiò negli anni Trenta alla ricerca delle testimonianze del passato, attraversò i luoghi dell’arte e della memoria tra la Persia e l’Afghanistan con la lena dei grandi esploratori dell’Ottocento e la grazia disinvolta dell’acquerellista alla ricerca di scorci da ritrarre sia quando parlava dell’arte moghul sia quando commentava, con stile puramente britannico, le bizzarrie esterofile dello scià Reza Pahlavi.

Un viaggio avventuroso lungo un itinerario che comprende le testimonianze di uno dei periodi più floridi per l’Asia centrale: il Rinascimento timuride, Tamerlano, Shah Rukh, Goar Shad Begum, uomini e donne innamorati del piacere di vivere - i “Medici d’Oriente” li definì l’autore - che seppero conciliare, sia pure per un breve periodo, il consolidamento di un potere basato sulla fede islamica con un vero e proprio umanesimo e un raffinato mecenatismo.

D’altra parte l’interesse di Byron non si limitava all’architettura del XV secolo, ma percorreva le tracce di tutte le diverse dominazioni: dall’impero achemenide con le vestigia di Persepoli, alla dinastia sassanide le cui testimonianze archeologiche, all’epoca di Byron scarsamente conosciute, “documentano un oscuro periodo della storia alla congiunzione tra il mondo antico e quello moderno”.

Furono lo stile british e gli scorci ad acquarello a incantare Bruce Chatwin che definì il libro un “capolavoro” e disse: “La mia copia personale, ormai priva della rilegatura e tutta macchiata dopo quattro viaggi nell’Asia centrale, mi accompagna da quando avevo quindici anni”. Poi diede un esempio di tanta considerazione: “Dopo aver letto La via per l’Oxiana si ha l’impressione che l’altopiano iranico sia un “ventre molle” che lusinga la megalomania dei suoi governanti senza dar loro il genio necessario per sostenerla”. Dimenticava però che l’Iran è un Paese antico, con oltre 2500 anni di storia, con una società - e questa è un’altra sua caratteristica peculiare - dotata di un profondo senso della propria cultura e della propria identità nazionale.

Per questa ragione anche oggi ciò che rende l’Iran così interessante e al tempo stesso così paradossale è il fatto di avere un regime teocratico coercitivo e insieme una cultura vibrante. Il paradosso si è creato perché esiste una società più avanzata del gruppo dirigente che la governa. Se si osserva la storia recente dell’Iran si nota che la lotta per la democrazia è iniziata nella metà del XIX secolo, molto prima che Chatwin scrivesse nel 1980 il saggio introduttivo all’edizione Penguin di La via per l’Oxiana.

E dunque, se  l’Iran è soprattutto la culla millenaria della civiltà indo-iranica dove si incontrano la civiltà iranico-islamica (a partire dal VII secolo) e quella iranico-europea (a partire dal XVII secolo), l’essere presenti sul territorio iraniano significa avere la possibilità operativa su uno scacchiere che va dal Pacifico al Mediterraneo, comprese le aree limitrofe. Pertanto l’intesa di Ginevra giova ad Obama più che a chiunque altro, poiché apre attese cariche di speranza alla disastrata economia americana. Ecco perché la Borsa israeliana sale, ci vuole poco a capirlo.

Questo accade benché molti repubblicani del Congresso americano, ma anche influenti esponenti democratici, abbiano espresso il loro scetticismo riguardo all’accordo firmato a Ginevra con l’Iran. E la preoccupazione riguarda al fatto che l’accordo preveda - sostengono - il congelamento dell’arricchimento dell’uranio, ma non la riduzione della capacità nucleare di Teheran. «L’accordo provvisorio continua ad essere visto con un sano scetticismo» ha affermato lo Speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, che ha sottolineato come l’Iran in passato abbia più volte svicolato dalla richieste di verifica e controllo delle proprie attività. Preoccupazioni di non poco conto, ma che non incidono più di tanto sul pragmatismo delle Borse.

Non è un mistero che Barack Obama è stato mosso da ragioni, pressanti, di casa. La débâcle estiva sulla Siria e la riforma sanitaria, la popolarità al 40 per cento, lo smarrimento della sua Amministrazione andavano fermati con un successo, e l’accordo con l’Iran lo è. Anche i repubblicani lo sanno: borbottano, ma se ne rallegrano poiché ad ogni americano - per prima cosa - stanno a cuore, come usa dire, le sorti della nazione.

Pare che in Italia valga la regola contraria, perché non credo che un governo Letta si sarebbe comportato tanto diversamente da quello Berlusconi del 2003, dal momento che non c’è stato cenno sulla vicenda di quella mancata firma se non in una dichiarazione del ministro Bonino al Corriere: «Non fu un’idea provvidenziale, nel 2003, quella di tenersi fuori dal dossier iraniano: tornare in gioco non è mai semplice».

Eppure è scritto su tutti i libri di storia che, nell'antichità, già i Sassanidi (e prima ancora i Parti) mantenevano con Roma e Bisanzio intensissime, seppur non sempre pacifiche, relazioni politiche che durarono per diversi secoli, fino alla conquista islamica della Persia. Naturalmente non potevano mancare Marco Polo che attraversò la Persia nel suo cammino verso la Cina alla fine del XIII secolo e Papa Innocenzo IV che inviò missionari religiosi e diplomatici in Iran nel tentativo di convertire la classe regnate dell'Ilkhanato.

Si racconta sempre sui libri di storia che anche molti ambasciatori della Serenissima Repubblica di Venezia visitarono le corti di Aq Qoyunlu, aumentando la frequenza dei viaggi durante il periodo safavide. Come dire che le relazioni economiche con la penisola italiana datano da lontano, più lontano di qualunque altro Paese.

Comunque sia il risultato di quel “no grazie,non ci interessa” lo si vede dieci anni dopo. L’altro giorno al tavolo di Ginevra tra le grandi potenze europee l’Italia non c’era. In tempi di crisi economica chi invece a Ginevra c’era, di questa assenza non se n’è potuto che rallegrare.






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