di Vincenzo Maddaloni

Con l’Ucraina “sull’orlo della guerra civile” come avverte Vladimir Putin, le minoranze in Europa diventano  di un’importanza cruciale. Fino al 2003 quando l’Ue era di 15 Stati esse raggiungevano i 20 milioni di persone, il 5 per cento della popolazione. Con l’Europa dei 28 sono 42 milioni, e rappresentano l’8,7 per cento dei 481 milioni di cittadini europei. Non c’è un dato ufficiale sul numero dei musulmani.

Il sociologo egiziano Ali Abd al-Aal, sostiene che sono più di 50 milioni quelli presenti in tutta l’ Europa. Secondo il Central Institute Islam Archive ce ne sono 16 milioni nell’Unione europea. In Bulgaria dove ne vivono un milione, dei quali 700 mila sono turchi, c’è senza dubbio la comunità meglio organizzata sotto il profilo politico.

Infatti, è quella bulgara la prima minoranza musulmana autoctona che dispone di  visibilità politica. Essa ha dal 1990 un proprio partito, il Movimento per i diritti e per le libertà, il DPS (in bulgaro: Dviženie za Prava i Svobodi; in turco: Hak ve Özgürlükler Hareketi, DPS o HOH), che alle ultime europee ha ottenuto il 20 per cento dei voti e che, dopo le lezioni politiche del 2013 occupa 36 seggi nel parlamento bulgaro.

Ma è in alcuni Paesi, come nelle repubbliche baltiche, che le minoranze hanno un peso numerico determinante per gli equilibri politici: il 17 per cento in Lituania, addirittura il 42 per cento in Lettonia. In Estonia dove raggiungono il 32 per cento  una persona su quattro è di madrelingua russa. Pertanto non è fantapolitica sostenere che, la crisi in Ucraina potrebbe avere effetti contagiosi irreversibili in tutta l’Europa, mettendo a rischio  la stabilità dell’ intera Ue.

Infatti, la Nato ha iniziato le esercitazioni aeree il 1° aprile sulla Lituania con atterraggi di emergenza ed operazioni di ricerca e di salvataggio. «Lo scopo di tali esercitazioni è risvegliare gli istinti da Guerra Fredda e dimostrare la necessità della Nato nelle condizioni di sicurezza attuali», ha detto l’inviato russo alla Nato, Aleksandr Grushko, aggiungendo che la Russia, «in ogni caso prenderà tutte le misure necessarie per garantire in modo affidabile la propria sicurezza».

La replica è giunta dall’ambasciatore dell’Estonia, Lauri Lepik: «Ciò che i Paesi baltici vogliono - ha dichiarato - è la presenza sul campo degli alleati». Un ex-ministro lettone è stato ancora più esplicito: «Vorremmo vedere un paio di squadroni statunitensi qui, soldati e anche una portaerei», ha dichiarato a l’Economist.

E così gli Stati Uniti hanno inviato sei F-15C in Lituania e una dozzina di F-16 e in Polonia, e hanno previsto ulteriori contingenti per le esercitazioni in Polonia e nei Paesi baltici, nonché l’aumento dei voli d’intelligence sul centro Europa. Il comandante dell’Alleanza, il generale Philip Breedlove ha spiegato quanto sia opportuno l’incremento delle potenza aerea e delle navi nel Mar Baltico, la creazione di una forza navale sul Mar Nero e l’arrivo dal Texas di una brigata di 4500 effettivi dell’esercito americano.

Si tenga a mente che il Guardian qualche giorno fa, ha tradotto e stampato il documento riservato di sette pagine pubblicato in esclusiva dal settimanale tedesco Der Spiegel, nel quale tra l’altro si legge che i comandanti della Nato hanno approvato il piano di esercitazioni di addestramento congiunto  con l’Armenia, l’Azerbaigian e la Moldavia per migliorare “l’interoperabilità tra le diverse forze armate e per assicurare la difesa dei giacimenti di petrolio e di gas sul Mar Caspio”.

Questo è nel più e nel meno lo scenario alla vigilia delle elezioni europee e 57 anni dopo la firma del trattato di Roma - 25 marzo 1957 - che suggellò la nascita della Comunità economica europea (Cee) divenuta poi Unione europea (Ue). Naturalmente da quando è caduto il Muro di Berlino la divisione fra «Est» e «Ovest» appare meno artificiosa, ma è emerso in maniera contraddittoria, da una parte il cosiddetto risveglio delle nazionalità e dall’altra parte il formarsi di enormi aggregati sopranazionali tenuti insieme dal miraggio di un facile benessere economico.

Così l’umanità che vi abita è dilaniata da una parte da particolarismi di sangue, di lingua e di religione ribelli e dall’altra parte dalla rincorsa quasi ossessiva verso un capitalismo sfrenato con la certezza che la crisi economica sia soltanto un fenomeno passeggero.

Va ricordato pure  che 12 dei 28 capi di governo che siedono attorno al tavolo del Consiglio europeo, inclusa la cancelliera Angela Merkel, fino a vent’anni fa erano sudditi di dittature comuniste. Sanno che cos’è la libertà perché hanno sperimentato cosa vuol dire non essere liberi. Tutti sono disponibili a trasformare la propria politica interna, l’economia, il diritto, i media, pur di assicurare libertà e welfare, ma la formula per riuscirvi è un continuo, delicato esperimento.

Infatti, non è difficile immaginare il malessere delle genti dell’Europa “allargata”, quelle che fino all’altro ieri, dietro la cortina di ferro, ambivano al benessere occidentale sperando nella fine del comunismo sovietico e che ora si ritrovano prigioniere della povertà, turbate dal crollo delle usanze tradizionali, furenti per le promesse non mantenute dall’Occidente, spesso disperate, spesso costrette a lasciare il proprio Paese o “peggio ancora” a fare emigrare i propri figli perché si ritrovano in casa la disoccupazione che prima non conoscevano.

Stando così le cose, la crisi in Ucraina rischia di produrre effetti imprevedibili  nell’éra della “surrealpolitik” il  nuovo genere di politica che subentra alla realpolitik della Guerra Fredda la quale era cinica ed insensibile, ma almeno si basava su una realtà oggettiva che le parti poterono comunemente riconoscere e quindi negoziare. Nel clima di surrealpolitik, dove tutto quello che si afferma essere vero viene difeso come vero, nonostante la realtà, e dove tutto oscilla sulla versione e sull’interesse di ciascuna parte, il confronto diventa arduo se non del tutto impossibile.

A far da fondale al tutto c’è pure il pesante malessere dei cittadini europei (20 milioni secondo il direttore del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde) che non hanno più lavoro, più casa, più risparmi, che si chiedono come potranno sopravvivere negli anni a venire e che vedono nella crisi ucraina un peggioramento delle proprie condizioni. Poiché lo scenario che si prospetta è quello segnato da una escalation delle tensioni fra gli Stati, dal momento che più le economie occidentali scivoleranno nel baratro dei deficit di bilancio, più gli altri fattori di destabilizzazione agiranno sulla governance mondiale.

C’è aria di Chagall in quelle dacie di vecchie scure travi, con le finestre ingentilite da tendine bianche e fiori in vasi e da cornici allegre e fantastiche intagliate e dipinte come merletti, seminate nei dintorni di Plovdiv, dove gli alti funzionari sovietici vi venivano a trascorrere il fine settimana. Plovdiv è la seconda città della Bulgaria, situata nella parte meridionale, lungo la strada che unisce l’Europa occidentale a Istanbul.

La fondò Filippo II di Macedonia (340 a.C.) chiamandola Philippopolis. In età romana fu il capoluogo della provincia di Tracia col nome di Trimontium, poi di Filibé durante la dominazione ottomana. Ma le popolazioni locali hanno continuato a chiamarla Pulpudeva (traduzione di Philippopolis) e in seguito Puldin per marcarne la connotazione slava, sebbene nutrita sia la presenza dei pomacchi o dei musulmani bulgari. Con quelli degli altri paesi dell’Europa centro-orientale essi rappresentano l’eredità religiosa dell’impero ottomano. Con la Turchia il rapporto è stretto.

Sicuramente, tra i cristiani e i musulmani dell’Europa dei 28 c’è una condivisione di idee  sugli effetti della dottrina dell’intervento armato preventivo - promosso dagli Stati Uniti con la guerra mondiale contro il terrore - che è sempre stata accolto con molta diffidenza dalle genti europee o almeno da una sua vastissima parte. E’ opinione diffusa che per riuscire a mobilitare l’economia mondiale dietro i loro interessi egemonici, gli Stati Uniti debbano creare situazioni in cui la posta in gioco è altissima, come lo è in Ucraina appunto.

Dopotutto, gli strateghi del Pentagono e della Casa Bianca da sempre sono addestrati a non escludere nessuna opzione pur di salvaguardare gli interessi della prima potenza mondiale. Destino delle minoranze incluso.


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