L’accordo per l’acquisizione del gruppo editoriale Time Inc., sottoscritto questa settimana negli Stati Uniti, da parte di un altro colosso dell’editoria, Meredith Corporation, ha confermato la costante tendenza alla concentrazione dell’industria dei media nelle mani di un numero sempre più ristretto di gruppi privati e grandi “investitori”.

 

 

L’operazione più recente ha un valore di 2,8 miliardi di dollari e include l’assunzione del debito di quasi un miliardo che grava sul gruppo Time. A rendere particolarmente controversa l’acquisizione è la decisiva infusione di denaro che l’ha resa possibile dei miliardari fratelli Koch (Charles e David), notoriamente impegnati in cause e attività di propaganda politica ultra-conservatrici.

 

La “private-equity” Koch Equity Development dei due fratelli è intervenuta con una cifra pari a 650 milioni di dollari che garantirà loro una quota determinante in Time Inc. Visto l’attivismo politico dei Koch e le indiscrezioni già circolanti sulla possibile futura cessione di testate come Time da parte di Meredith Corporation, non è da escludere che i due miliardari stiano valutando di trasformare la nota testata in una piattaforma mediatica per propagandare cause e posizioni di estrema destra.

 

Con oltre 100 miliardi di dollari, le Koch Industries sono uno dei primissimi gruppi privati negli Stati Uniti e operano in vari settori, da quello petrolifero alla grande distribuzione, dalla finanza ai fertilizzanti. In maniera defilata, inoltre, i fratelli Koch finanziano da anni gruppi di pressione e “think tank” libertari e ultra-reazionari, intervenendo con centinaia di milioni di dollari nelle campagne elettorali americane a sostegno di candidati solitamente a destra del Partito Repubblicano.

 

Le tendenze monopolistiche nell’ambito editoriale in America risulteranno dunque accentuate in seguito a questo accordo. Ciò appare evidente dal numero di pubblicazioni detenute dai due gruppi. Time Inc. possiede, oltre a Time Magazine, più di 100 importanti testate negli USA, tra cui Fortune, Life e Sports Illustrated, a cui vanno aggiunti circa 60 siti web che contano complessivamente qualcosa come 150 milioni di lettori. Meredith Corporation possiede invece diffusissimi marchi relativi al settore “lifestyle”. La rivista di punta è il mensile Better Homes & Gardens con una diffusione di oltre 7,6 milioni di lettori. Lo stesso gruppo con sede a Des Moines, nell’Iowa, controlla anche 17 reti televisive locali.

 

L’attenzione dei media americani, così come dei dipendenti del gruppo Time, si è concentrata in particolare sulle conseguenze che il ruolo dei fratelli Koch nell’operazione avrà sulla linea editoriale delle testate acquisite da Meredith. Prevedibilmente, entrambe le compagnie hanno negato che i due fratelli possano influenzare “le operazioni editoriali o manageriali”. Koch Equity Development non avrà alcun posto nel consiglio di amministrazione e, secondo il presidente di Meredith, Tom Harty, i suoi rappresentanti si incontreranno con i vertici della compagnia solo quattro volte l’anno. I Koch avranno però la possibilità di nominare un “osservatore” nel consiglio di amministrazione se non saranno loro corrisposti i dividenti previsti.

 

Queste rassicurazioni offrono ovviamente ben poco conforto, soprattutto alla luce dell’attivismo politico dei fratelli Koch. Il loro intervento in un’operazione che di fatto dovrebbe salvare un gruppo editoriale in grave difficoltà, ma che vanta una serie di testate con un certo prestigio residuo, non avrebbe d’altra parte senso se non nel desiderio di avere a disposizione uno strumento di comunicazione efficace.

 

Se i vertici di Time Inc. si sono mostrati più che entusiasti nell’annunciare la fusione, decisamente preoccupati sono apparsi al contrario giornalisti e dipendenti vari. Durante un paio di riunioni organizzate a New York per discutere dell’acquisizione da parte di Meredith Corporation, le tensioni erano evidenti e i lavoratori del gruppo Time hanno chiesto insistentemente di sapere se i fratelli Koch intendono influire sulla linea editoriale delle testate.

 

L’altra preoccupazione è legata alla perdita di posti di lavoro, come quasi sempre accade dopo le mega-fusioni del settore privato negli USA come altrove. In questo caso, i protagonisti dell’operazione sono stati meno reticenti rispetto alla questione del ruolo dei fratelli Koch. Infatti, il già citato presidente di Meredith, Tom Harty, ha definito “probabile” la possibilità di licenziamenti a Time Inc., mentre è stato più cauto sull’eventualità della vendita di alcune testate, le cui prestazioni sono state comunque bollate come “insoddisfacenti”.

 

Le speculazioni sulle intenzioni di Meredith di volersi disfare, a beneficio dei Koch, di alcuni marchi detenuti dal gruppo Time sono tutt’altro che infondate. Il New York Times ha spiegato martedì che l’accordo per l’acquisizione di Time Inc. del 2013, sempre da parte di Meredith Corporation, era crollato perché i vertici di quest’ultimo non erano interessati all’acquisto di quattro delle principali testate: Time, Sports Illustrated, Fortune e Money.

 

A far cambiare idea al gruppo di Des Moines potrebbero essere stati proprio l’intervento e i dollari dei fratelli Koch, il cui obiettivo sarebbe appunto per molti quello di mettere le mani su pubblicazioni storiche, a cominciare da Time Magazine.

 

L’acquisizione di Time Inc. da parte di Meredith si sovrappone inoltre alle trattative in corso almeno dal mese di maggio per un’altra operazione simile. Il gruppo Sinclair Broadcast, di orientamento conservatore, sta cercando cioè di acquistare Tribune Media per una somma vicina ai 4 miliari di dollari. Quest’ultimo gruppo controlla giornali importanti come Los Angeles Times, Chicago Tribune e Baltimore Sun. L’operazione attende l’approvazione della Commissione Federale per le Comunicazioni (FCC) e, secondo il britannico Guardian, in caso di esito positivo l’impero di Sinclair sarebbe in grado di raggiungere il 72% delle famiglie americane.

 

La fusione di questa settimana è comunque un nuovo segnale del processo di consolidamento dei grandi gruppi industriali in atto negli Stati Uniti e non solo nel settore dell’editoria e della comunicazione. Ciò è in primo luogo una tendenza risaputa del capitalismo in fase di crisi e riflette perciò gli sforzi per invertire la riduzione dei margini di profitto.

 

Sulle concentrazioni dei grandi gruppi editoriali influisce però anche la deregolamentazione e l’abbandono delle restrizioni in questo ambito, iniziato durante l’amministrazione Reagan negli anni Ottanta e accelerato dal Telecommunications Act del 1996 firmato dall’allora presidente Clinton. Con questa legge, in particolare, venne notevolmente alzato il numero di giornali, radio e televisioni che una corporation ha facoltà di possedere, così come fu resa possibile l’acquisizione da parte di una singola entità di compagnie operanti in settori differenti dell’editoria e delle telecomunicazioni.

 

Il risultato è stato così una concentrazione ormai quasi assoluta. Secondo un articolo del 2012 del sito Business Insider, già in quell’anno il 90% dei media americani era controllato da appena sei grandi gruppi privati.

 

L’altro aspetto inquietante è la crescente influenza degli uomini più ricchi del mondo sui mezzi di comunicazione con il maggior seguito. I fratelli Koch hanno infatti solo seguito l’esempio di svariati altri miliardari, primo fra tutti Rupert Murdoch, proprietario tra gli altri, attraverso 21st Century Fox e News Corporation, del Wall Street Journal negli USA e di Times e The Sun in Gran Bretagna.

 

Il fondatore di Amazon, Jeff Bezos, ha invece acquistato nel 2013 il Washington Post, facendone recentemente una delle voci più accese nella campagna contro la presunta influenza della Russia nelle vicende politiche americane. Il miliardario messicano Carlos Slim, infine, dall’inizio del 2015 è diventato il singolo azionista più importante del New York Times, dopo avere raddoppiato la sua quota nel giornale “liberal” portandola al 16,8%.

 

L’interesse dei grandi poteri economici e finanziari per i principali media americani e non solo è anche direttamente legato alla necessità di controllare il flusso di informazioni destinate alle popolazioni, proprio mentre l’accesso a fonti alternative è in netta crescita un po’ ovunque. Le tendenze monopolistiche sono quindi in qualche modo l’altra faccia della medaglia della guerra alle cosiddette “fake news”, messa in atto con veri e propri metodi di censura, nel tentativo di soffocare le voci indipendenti e arrestare un’evoluzione potenzialmente destabilizzante per l’establishment politico ed economico odierno.

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