È periodo di ristrutturazioni in casa Facebook. Nel giro di una settimana, Mark Zuckerberg ha annunciato due importanti cambiamenti all’algoritmo del social network più diffuso al mondo. E in entrambi i casi, per chi fa informazione, c’è di che preoccuparsi.

 

La prima innovazione riguarda quello che Facebook sceglie di mostrarci quando scorriamo il dito sullo schermo dello smarphone o giriamo distrattamente la rotella del mouse. Da qui in avanti, vedremo più aggiornamenti di parenti e amici, cioè i post considerati per noi “rilevanti” in base alle “interazioni significative” dei nostri contatti. A farne le spese saranno le pagine di giornali e aziende, la cui visibilità è destinata a calare.

 

 

Zuckerberg ha detto di attendersi “una riduzione del tempo trascorso sulla piattaforma”, ma non è questo il punto. Il vero obiettivo di Facebook è fare in modo che i suoi due miliardi di utenti aumentino il tasso di attività: più pollici alzati, più commenti, più condivisioni. Alla luce di questa esigenza, che ha evidenti ragioni commerciali, si spiega anche un insolito report pubblicato a dicembre, uno studio autoprodotto e fintamente preoccupato per la salute di noi tutti, che ci raccomandava di non fruire del social network “in modo passivo”. Fa male, a quanto pare.

 

Dal punto di vista dell’informazione, è chiaro, non si tratta di una bella notizia. Da Facebook arriva il 24% del traffico di tutti i giornali online del pianeta, perciò scoprire che gli articoli postati compariranno più raramente sugli schermi degli utenti è una discreta mazzata. In fondo, però, non si tratta di un sacrilegio: il giornalismo punta (o dovrebbe puntare) all’interesse pubblico, le multinazionali al fatturato. Inutile fare i moralisti.

 

Poi però è arrivato un altro colpo, assai più pesante del primo. Con il secondo annuncio, Zuckerberg ha spiegato che, nel tentativo di arginare le “fake news”, Facebook darà la priorità alle notizie considerate di qualità dagli utenti. In altri termini, il social chiederà alle persone di indicare se si fidano delle fonti da cui ricevono le informazioni e in base a quei giudizi deciderà cosa mostrare e cosa invece lasciare nell’oblio. Sembra un tentativo apprezzabile di democrazia diretta, in realtà è molto preoccupante. Per diverse ragioni.

 

Primo: la classifica dei giornali resterà segreta e Facebook ne disporrà a proprio piacere. Non proprio il massimo della trasparenza.

Secondo: chi sarà a giudicare i giornali? Presumibilmente a prendersi questa responsabilità sarà un gruppo relativamente ristretto di persone che avrà il tempo e la voglia di mettersi a dare voti. E i pochi decideranno per tutti.

 

Ma poi, a che titolo? Che autorità o competenza avranno costoro per etichettare un giornale come fonte attendibile e un altro come fabbrica di panzane? E se una testata sarà giudicata positivamente dal 50% degli utenti e negativamente dall’altro 50%, a chi spetterà il verdetto finale?

 

Senza contare che su Facebook non navigano solo boyscout e chierichetti: ci sono anche lobbisti e gruppi d’interesse che non vedono l’ora di affibbiare la patente di ciarlatani ai giornalisti scomodi. Chi ci garantisce che i sondaggi sull’attendibilità non saranno usati per silenziare le voci attendibili ma fastidiose? Sono stati proprio gli americani a insegnarci che il giornalismo deve essere “watchdog”, cane da guardia del potere. Zuckerberg rischia di avergli costruito la cuccia.  

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